Volodyk - Paolini2-Eldest
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Eragon perse il filo. Non comprese le vaghe critiche di Arya nei confronti del Dùrgrimst Quan, ma dalle risposte di Gannel intuì che, in maniera implicita e sempre in tono affabile e cortese, l'elfa aveva suggerito che le divinità dei nani non esistessero, pareva mettere in dubbio le facoltà mentali di ogni nano che entrava in un tempio, e sostenere che i ragionamenti dei nani presentassero numerose lacune.
Dopo qualche minuto, Arya levò una mano per interrompere Gannel e disse: «Questa è la differenza tra noi, Grimstborith. Tu ti sei consacrato a qualcosa che credi vero ma non puoi provare. Non ci resta che trovarci d'accordo sul fatto che non siamo d'accordo.» Poi si rivolse a Eragon. «Gli Az Sweldn rak Anhùin hanno aizzato la popolazione di Tarnag contro di te. Ùndin ritiene, come me, del resto, che sia meglio se resti all'interno delle sue mura fino alla partenza.»
Eragon esitò. Voleva continuare a visitare Celbedeil, ma se c'erano guai in vista, allora il suo posto era accanto a Saphira. S'inchinò a Gannel e domandò scusa. «Non devi giustificarti, Ammazzaspettri» disse il capoclan, scoccando un'occhiata torva all'indirizzo di Arya. «Fai ciò che devi, e che la benedizione di Gùntera sia con te.» Insieme, Eragon e Arya lasciarono il tempio e circondati da una decina di guerrieri attraversarono la città. Eragon sentì una folla inferocita che gridava da una terrazza più in basso. Un sasso rimbalzò su un tetto vicino. Il movimento attirò il suo sguardo verso un pennacchio scuro di fumo che risaliva dai margini della città.
Una volta al sicuro nel palazzo, Eragon corse in camera sua. S'infilò la cotta di maglia, e si legò i bracciali e gli schinieri; si calcò la calotta di cuoio in testa, e poi l'elmo, e afferrò lo scudo. Raccolse in fretta lo zaino e le bisacce, e tornò subito nel cortile, dove si sedette con la schiena appoggiata alla zampa destra di Saphira.
Tarnag è come un termitaio stuzzicato, osservò lei.
Speriamo di non essere morsi.
Arya li raggiunse poco dopo, seguita a ruota da uno squadrone di cinquanta nani armati di tutto punto, che si schierarono al centro del cortile. I nani aspettavano impassibili, borbottando piano fra di loro, mentre occhieggiavano di continuo il cancello sprangato e la montagna che si ergeva alle loro spalle.
«Hanno paura» disse Arya, sedendosi accanto a Eragon «che i dimostranti ci impediscano di raggiungere i battelli.» «Saphira può sempre portarci in volo.»
«E Fiammabianca? E le guardie di Ùndin? No, se ci fermano, dovremo aspettare che la rabbia dei nani sbollisca.» Studiò il cielo che si andava oscurando. «È un peccato che tu sia riuscito a offendere così tanti nani, ma forse era inevitabile. I clan sono sempre stati litigiosi: quello che piace a uno scontenta un altro.»
Eragon giocherellò con le maglie della cotta. «Vorrei non aver accettato il dono di Rothgar.»
«Già. Ma come nel caso di Nasuada, credo che tu abbia fatto l'unica scelta possibile. Non è colpa tua. La colpa, semmai, è di Rothgar, per averti fatto quell'offerta. Doveva prevedere le ripercussioni del suo gesto.» Tacquero per qualche minuto. Una mezza dozzina di nani marciavano intorno al cortile per sgranchirsi le gambe. Alla fine, Eragon chiese: «Hai dei familiari che ti aspettano nella Du Weldenvarden?»
Arya restò a lungo in silenzio, prima di rispondere. «Nessuno a cui mi senta vicina.»
«Come... come mai?»
Lei esitò di nuovo. «Non hanno approvato la mia scelta di diventare messaggera e ambasciatrice della regina. Lo ritenevano inappropriato. Quando ignorai le loro obiezioni e mi feci tatuare lo yawé sulla spalla, simbolo di totale dedizione al bene supremo della nostra razza, come l'anello che ti ha dato Brom, la mia famiglia si è rifiutata di rivedermi.»
«Ma è stato più di settantanni fa» protestò lui. Arya distolse lo sguardo, nascondendo il volto dietro una cortina di capelli. Eragon tentò di immaginare che cosa avesse significato per lei: bandita dalla sua stessa famiglia e mandata a vivere fra due razze completamente diverse. Non c'è da sorprendersi che sia tanto riservata, si disse. «Ci sono altri elfi fuori dalla Du Weldenvarden?»
Con il volto ancora nascosto, Arya rispose: «Tre di noi partirono da Ellesméra. Fàolin e Glenwing viaggiavano sempre con me quando trasportavamo l'uovo di Saphira fra la Du Weldenvarden e Tronjheim. Soltanto io sono sopravvissuta all'agguato di Durza.» «Com'erano?»
«Prodi guerrieri. Glenwing amava parlare agli uccelli con la mente. Se ne stava per ore nella foresta circondato da uno stormo di usignoli che cantavano per lui. E subito dopo ci cantava le più dolci melodie.»
«E Fàolin?» Questa volta Arya si rifiutò di rispondere, e strinse con forza l'arco che teneva in grembo. Senza perdersi d'animo, Eragon cercò un altro argomento. «Perché Gannel ti è tanto antipatico?»
Lei si volse a guardarlo e gli sfiorò la guancia con le dita delicate. Eragon trasalì, sorpreso. «Questa» disse lei «è una discussione da rimandare a un altro momento.» Poi si alzò e si andò a sedere in un'altra zona del cortile. Confuso, Eragon rimase a fissare la sua schiena. Non la capisco, disse, appoggiandosi al ventre di Saphira. La dragonessa sbuffò divertita, poi circondò Eragon con il collo e la coda e si addormentò all'istante. Mentre la valle piombava nell'oscurità, Eragon si sforzava di restare sveglio. Prese la collana di Gannel e la sondò più volte con l'ausilio della magia, ma trovò soltanto l'incantesimo di protezione del sacerdote. Alla fine si arrese; si rimise la collana sotto la tunica, si coprì con lo scudo e si preparò ad attendere tutta la notte.
Alle prime luci dell'alba - anche se la valle era ancora in ombra e tale sarebbe rimasta fino a mezzogiorno - Eragon svegliò Saphira. I nani si erano già alzati e stavano avvolgendo le armi con pezze di stoffa per poter attraversare Tarnag senza fare rumore. Ùndin invitò persino Eragon a coprire di stracci le unghie di Saphira e gli zoccoli di Fiammabianca. Quando furono pronti, Ùndin e i suoi guerrieri fecero quadrato intorno a Eragon, Saphira e Arya. I cancelli dai cardini perfettamente oliati si schiusero adagio senza un cigolìo, e il gruppo cominciò a marciare in direzione del lago. Tarnag sembrava deserta; le strade erano sgombre, le case silenziose, e i loro occupanti dormivano e sognavano ignari. I pochi nani che incontrarono li guardarono di sottecchi, poi si dileguarono come fantasmi nell'oscurità. Ai cancelli di ciascun livello, una guardia faceva loro cenno di passare, senza commenti. Ben presto si lasciarono gli edifici alle spalle e attraversarono i campi deserti ai piedi di Tarnag, per raggiungere infine la banchina di pietra che costeggiava le acque grigie e immobili.
Li aspettavano due grandi battelli, ormeggiati presso un pontile di legno. Tre nani erano accovacciati sulla prima zattera, quattro sulla seconda. Non appena videro Ùndin, scattarono in piedi.
Eragon aiutò i nani a infilare una cavezza e un cappuccio sulla testa di Fiammabianca, poi fecero salire l'animale ricalcitrante sul secondo battello, dove lo costrinsero a mettersi in ginocchio e lo legarono. Nel frattempo, Saphira si era tuffata dal pontile. Soltanto la testa emergeva dalla superficie mentre pagaiava con le zampe nell'acqua. Ùndin afferrò il braccio di Eragon. «Qui ci separiamo. Vi ho dato i miei uomini migliori; vi proteggeranno finché non raggiungerete la Du Weldenvarden.» Eragon fece per ringraziarlo, ma Ùndin scosse il capo. «Non devi ringraziarmi. È mio dovere. Sappi che mi vergogno profondamente del fatto che l'odio cieco degli Az Sweldn rak Anhùin abbia funestato la tua permanenza a Tarnag.»
Eragon s'inchinò, poi s'imbarcò sulla prima zattera insieme a Orik e Arya. I nani sciolsero gli ormeggi e spinsero via i battelli dal pontile con lunghi pali. Mentre l'alba allungava sull'acqua le sue dita rosate, le due zattere scivolarono verso la bocca dell'Az Ragni, con Saphira che nuotava nel mezzo.
Diamanti nella notte
L'Impero ha violato la mia casa. Questo pensava Roran nell'ascoltare i gemiti di dolore degli uomini feriti durante lo scontro della notte prima con i Ra'zac e i soldati. Il suo corpo era scosso da brividi febbrili di rabbia e di paura che gli lasciarono le guance bollenti e il fiato corto. E si sentiva triste, molto triste... come se le nefandezze dei Ra'zac avessero distrutto l'innocenza della sua infanzia.
Lasciando la guaritrice, Gertrude, a occuparsi dei feriti, Roran proseguì verso la casa di Horst, notando le barricate che riempivano i varchi fra gli edifici: assi di legno, botti, mucchi di pietre, e le carcasse dei due carri distrutti dalle esplosioni dei Ra'zac. Aveva tutto un'aria così penosamente fragile.
Le poche persone che si aggiravano per Carvahall avevano gli occhi vitrei per la paura, il dolore e la stanchezza. Anche Roran non si era mai sentito così stanco in vita sua. Non dormiva da due notti, e le braccia e la schiena gli dolevano per la lotta.
Entrò in casa di Horst e vide Elain ferma accanto alla porta aperta della stanza da pranzo, intenta ad ascoltare le voci concitate che provenivano dall'interno. Lei gli fece cenno di avvicinarsi.
Dopo aver respinto il contrattacco dei Ra'zac, i membri più importanti della comunità di Carvahall si erano rinchiusi in volontario isolamento nel tentativo di decidere una linea d'azione per il villaggio, come anche l'eventualità di una punizione per Horst e compagni, che avevano dato inizio alle ostilità. Il gruppo era riunito in assemblea da ore. Roran sbirciò nella stanza. Seduti intorno al lungo tavolo c'erano Brigit, Loring, Sloan, Gedric, Delwin, Fisk, Morn e molti altri. Horst presiedeva a capotavola.
«... e io dico che è stata una mossa stupida e sconsiderata!» esclamò Kiselt, puntando i gomiti ossuti sul tavolo. «Non avevi motivo di mettere a repentaglio...»
Morn lo zittì con la mano. «Ne abbiamo già discusso. Non ha più importanza se quello che è stato fatto dovesse essere fatto o meno. Si da il caso che io sia d'accordo: Quimby era amico mio come di tutti voi, e rabbrividisco al pensiero di cosa quei mostri farebbero a Roran. Ma quello che voglio davvero sapere è come possiamo uscire da questa situazione.»
«Facile, ammazziamo i soldati» latrò Sloan.
«E poi? Ne verranno degli altri, finché non annegheremo in un mare di tuniche cremisi. Se anche consegnassimo Roran, non servirebbe a niente. Avete sentito tutti cos'hanno detto i Ra'zac: ci uccideranno se proteggiamo Roran, e ci faranno schiavi se non lo faremo. Tu puoi essere di diverso avviso, ma per quanto mi riguarda, preferisco morire che passare la vita da schiavo.» Morn scosse il capo con le labbra tese in una smorfia. «Non possiamo sopravvivere.» Intervenne Fisk. «Potremmo andarcene.»
«E dove?» ribattè Kiselt. «Alle spalle abbiamo la Grande Dorsale, i soldati bloccano la strada, e più in là non c'è che l'Impero.»
«E tutta colpa tua» strillò Thane, puntando un dito tremante contro Horst. «Daranno fuoco alle nostre case e uccideranno i nostri figli per colpa tua. Tua!»
Horst scattò in piedi così di colpo da rovesciare la sedia. «Ma dov'è il tuo onore, uomo? Lasceresti che ci mangiassero senza combattere?»
«Sì, se il contrario significa il suicidio.» Thane guardò torvo gli uomini intorno al tavolo, poi uscì di corsa, urtando Roran sulla soglia. Il suo volto era una maschera di puro, genuino terrore.
Fu allora che Gedric si accorse di Roran e lo invitò con la mano. «Vieni, entra, ti stavamo aspettando.» Roran si strinse le mani dietro la schiena, mentre decine di occhi lo fissavano. «Che posso fare?» «Io credo» disse Gedric, indicando gli altri, «che qui siamo tutti d'accordo che non servirebbe a niente consegnarti all'Impero, a questo punto. E non è il caso, adesso, di discutere se lo avremmo fatto in circostanze diverse. L'unica cosa che ci resta da fare è prepararci per un altro attacco. Horst fabbricherà delle lance, e altre armi se ne avrà tempo, e Fisk ha acconsentito a costruire gli scudi. Per fortuna la sua falegnameria non è andata a fuoco. E qualcuno dovrà occuparsi delle opere di difesa. Vorremmo che fossi tu. Avrai piena assistenza.»
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