Volodyk - Paolini2-Eldest

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di nascondere la sua impazienza mentre esaminava i due uomini «Ma non può...»

«Intesi?»

Dopo un momento, l'uomo pallido si arrese e mormorò: «Sì, signora.»

«D'accordo. Con voi due ho finito.» Con un'espressione di sardonica ammirazione, Gamble si sfiorò la fronte e s'inchinò a Nasuada, prima di indietreggiare lungo la sala di pietra insieme al suo avversario avvilito. «Anche voi potete andare» disse lei alle guardie appostate sull'uscio.

Non appena fu rimasta sola, si accasciò nella sedia con un sospiro sconsolato e prese il ventaglio, sventolandosi in un inutile tentativo di dissipare le gocce di sudore che le imperlavano la fronte. Il caldo afoso la privava di energia e le rendeva difficile anche il compito più semplice.

Ma aveva la sensazione che si sarebbe sentita esausta anche se fosse stato inverno. Per quanto informata sui segreti più intimi dei Varden, le era costato molto più del previsto spostare l'intera organizzazione dal Farthen Dùr, attraverso i Monti Beor, fino al Surda e Aberon. Rabbrividì

al ricordo dei lunghi e disagevoli giorni passati in sella. Pianificare la partenza e metterla in pratica era stato oltremodo difficile, come lo era adesso il compito di integrare i Varden nel nuovo ambiente, preparando al tempo stesso un attacco all'Impero. Le mie giornate sono troppo brevi per risolvere tutti questi problemi, si lamentò fra sé. Alla fine, lasciò il ventaglio e tirò il cordone della campanella per chiamare la sua ancella, Farica. Lo stendardo appeso alla destra della scrivania di ciliegio sventolò quando si aprì la porta nascosta dietro di esso. Farica entrò nella stanza e si affiancò a Nasuada, a occhi bassi.

«Ce ne sono altri?» chiese Nasuada.

«No, signora.»

Nasuada cercò di non mostrare troppo sollievo. Una volta la settimana, riceveva a porte aperte i Varden che avevano bisogno di risolvere le loro dispute. Chiunque pensasse di aver subito un torto poteva chiederle udienza per ottenere giustizia. Nasuada non sapeva immaginare un compito più difficile e ingrato. Come le diceva spesso suo padre, dopo uno dei tanti negoziati con Rothgar, "un buon compromesso lascia tutti insoddisfatti". E così pareva. Rivolgendo l'attenzione alla questione sul tappeto, disse a Farica: «Voglio che a quel Gamble sia affidato un nuovo incarico. Dategli un lavoro dove possa mettere a frutto il suo talento con le parole. Furiere, per esempio, purché sia un lavoro con il quale ottenga razioni complete. Non voglio più vederlo davanti a me per aver rubato ancora.» Farica annuì e andò alla scrivania, dove annotò le istruzioni di Nasuada su una pergamena. Già il fatto che sapesse scrivere la rendeva indispensabile. Farica chiese: «Dove posso trovarlo?»

«In una delle squadre che lavorano nella cava.»

«Sì, signora. Oh, mentre eri impegnata, re Orrin ha chiesto che andassi da lui nel suo laboratorio.» «Che ha fatto questa volta, si è accecato?» Nasuada si lavò i polsi e il collo con acqua di lavanda, poi controllò l'acconciatura nello specchio di argento lucido che Orrin le aveva dato e si assestò la sopravveste per lisciarsi le maniche.

Soddisfatta del suo aspetto, uscì dalle sue stanze con Farica al seguito. Il sole era così splendente quel giorno che non occorrevano torce per illuminare l'interno del Castello Farnaci, né il loro calore sarebbe stato tollerabile. Fasci di luce penetravano dalle feritoie a croce che si aprivano nella parete del corridòio a intervalli regolari, tagliando l'aria con sbarre di polvere dorata. Nasuada guardò fuori da una feritoia verso il barbacane, dove oltre trenta elementi della cavalleria di Orrin, in tuniche arancio, si apprestavano al solito giro di perlustrazione nelle campagne che circondavano Aberon.

Non potrebbero fare molto se Galbatorix decidesse di attaccare, pensò amareggiata. La loro unica difesa era l'orgoglio di Galbatorix e, sperava, la sua paura di Eragon. Tutti usurpatori stessi avevano doppiamente paura della rappresentare. Nasuada sapeva di giocare un gioco molto pericoloso con il più potente pazzo di Alagaésia. Se si fosse sbagliata nel calcolare fino a quanto poteva provocarlo, lei e i Varden sarebbero stati distrutti, e con loro la speranza di porre fine al regno di Galbatorix.

L'odore di pulito del castello le rammentava le volte che vi era stata da bambina, ai tempi in cui il padre di Orrin, re Larkin, regnava ancora. All'epoca non vedeva spesso Orrin. Lui era più grande di lei di cinque anni, ed era già impegnato con i suoi incarichi di principe. Adesso però aveva la sensazione di essere lei la più grande. Davanti alla porta del laboratorio di Orrin, fu costretta a fermarsi e ad aspettare che le sue guardie del corpo, schierate sulla soglia, annunciassero la sua presenza. La voce di Orrin rimbombò nell'androne. «ledy Nasuada! Sono così felice che sei venuta. Ho qualcosa da mostrarti.»

Facendosi forza, Nasuada entrò nel laboratorio con Farica. Un labirinto di tavoli carichi di uno spropositato numero di alambicchi, ampolle e storte le aspettava, come un bosco di vetro in attesa di afferrare un lembo dei loro vestiti con un fragile ramo. L'odore acre dei vapori metallici fece lacrimare gli occhi di Nasuada. Sollevando l'orlo delle vesti da terra, le due donne si fecero strada verso il fondo della sala, passando davanti a clessidre e bilance, arcani volumi rilegati di ferro nero, astrolabi minuscoli, e pile di prismi di cristallo fosforescente che producevano lampi di luce azzurra. Trovarono Orrin chino su un banco dal piano di marmo, dove rimestava in un crogiolo di mercurio con un tubo di vetro chiuso a un'estremità e aperto dall'altra, che doveva misurare almeno tre piedi di lunghezza, anche se era spesso soltanto un quarto di pollice.

«Sire» disse Nasuada. Come si conveniva a una persona di rango pari al re, lei rimase ferma, mentre Farica faceva la riverenza. «A quanto pare ti sei ripreso dall'esplosione della settimana scorsa.»

Orrin le rivolse un sorriso bonario. «Ho imparato che non è saggio mescolare fosforo e acqua in uno spazio chiuso. Il risultato può essere alquanto violento.»

i sovrani conoscevano il rischio dell'usurpazione, ma gli

minaccia che un singolo individuo determinato poteva «Ti è tornato l'udito?»

«Non del tutto, ma...» Sorridendo come un ragazzino davanti al suo primo pugnale, il re accese una sottile candela con i carboni di un braciere - Nasuada non riusciva a capire come potesse sopportarlo con quel clima torrido -, poi riportò la fiammella al banco di lavoro e la usò per accendere una pipa riempita di foglie di cardo.

«Non sapevo che fumassi.»

«Infatti» confessò lui. «Solo che, grazie al mio timpano non ancora del tutto rimarginato, ho scoperto di essere capace di fare questo...» Trasse una boccata dalla pipa e gonfiò le guance finché un sottile filo di fumo non gli uscì dall'orecchio sinistro, come un serpentello che lasciava la tana e risaliva a spirale al lato della testa. Fu una scena così inaspettata che Nasuada scoppiò a ridere. Dopo un momento, anche Orrin prese a ridere, liberando uno sbuffo di fumo dalla bocca. «È una sensazione molto particolare» le confidò. «Fa un solletico terribile mentre esce.» Tornando seria, Nasuada gli chiese: «C'è qualcos'altro di cui vuoi discutere con me, sire?»

Lui fece schioccare le dita. «Ma certo.» Intinse il lungo tubo di vetro nel crogiolo, lo riempì di mercurio, poi tappò con un dito l'estremità aperta e le mostrò il tubo. «Convieni che qui dentro c'è soltanto mercurio?»

«Convengo.» È per questo che mi ha mandata a chiamare?

«E adesso?» Con un rapido movimento, capovolse il tubo e infilò l'estremità aperta nel crogiolo, togliendo il dito. Invece di uscire tutto, come Nasuada si aspettava, il mercurio nel tubo calò fino alla metà, poi si fermò. Orrin indicò la sezione vuota sul metallo sospeso, e le chiese: «Cosa occupa questo spazio?»

«Dev'essere aria» dichiarò Nasuada.

Orrin sogghignò e scrollò il capo. «Se fosse così, come ha fatto l'aria a sorpassare il metallo liquido o a diffondersi nel vetro? Non ci sono vie possibili per cui l'atmosfera possa essere entrata.» Fece un cenno a Farica. «Qual è la tua opinione, ancella?»

Farica esaminò il tubo, poi si strinse nelle spalle e disse: «Non c'è niente, sire.»

«Ah, ma è esattamente quel che penso io: niente. Credo di aver risolto uno dei più antichi enigmi della filosofia naturale creando e dimostrando l'esistenza del vuoto! Questo invalida completamente le teorie di Vacher e significa che Làdin era un genio. Quei dannati elfi hanno sempre ragione.»

Nasuada si sforzò di mantenere un tono cortese nel chiedere: «Qual è il suo scopo?»

«Scopo?» Orrin la guardò con sincero stupore. «Nessuno, naturalmente. Almeno non uno che mi venga in mente. Tuttavia, questo ci aiuterà a comprendere la meccanica del nostro mondo, come e perché le cose accadono. È una scoperta meravigliosa. Chissà a cosa potrà condurci.» Mentre parlava, svuotò il tubo e lo depose con cura in un astuccio foderato di velluto che conteneva altri strumenti ugualmente delicati. «La prospettiva che mi eccita di più, devo ammettere, è quella di usare la magia per scoprire i segreti della natura. Sai, giusto ieri, con un solo incantesimo, Trianna mi ha aiutato a scoprire due nuovi gas. Immagina che cosa potremmo imparare se la magia venisse sistematicamente applicata alle discipline della filosofia naturale. Sto pensando di imparare io stesso la magia, ammesso che ne abbia il talento, e se riuscirò a convincere qualche stregone a divulgare le sue conoscenze. E un peccato che il tuo Cavaliere dei Draghi, Eragon, non ti abbia accompagnata qui; sono sicuro che avrebbe potuto aiutarmi.» Rivolgendosi a Farica, Nasuada disse: «Aspettami fuori.» La donna s'inchinò e uscì. Quando Nasuada sentì chiudersi la porta del laboratorio, esclamò: «Orrin, ti è andato di volta il cervello?»

«Che vuoi dire?»

«Mentre passi il tuo tempo rinchiuso qui dentro a condurre esperimenti che nessuno capisce, mettendo in pericolo la tua stessa salute, il tuo paese vacilla sull'orlo di una guerra. Una moltitudine di problemi aspetta una tua decisione, e tu te ne stai qui a soffiare fumo dalle orecchie e a giocare col mercurio?»

Il volto del sovrano s'indurì. «Sono più che consapevole dei miei dovéri, Nasuada. Tu sarai anche il capo dei Varden, ma io resto il re del Surda, e dovresti ricordartene prima di rivolgerti a me in modo così irriguardoso. Occorre forse rammentarti che la vostra permanenza qui dipende dalla mia benevolenza?»

Nasuada sapeva che si trattava di una minaccia futile: molti surdani avevano parenti fra i Varden, e viceversa. Erano troppo intimamente legati per abbandonarsi a vicenda. No, la vera ragione per cui Orrin si era offeso era la questione dell'autorità. Dato che era quasi impossibile mantenere cospicue truppe armate, pronte a combattere, per prolungati periodi di tempo - come Nasuada aveva imparato, sfamare tante bocche inattive era un incubo logistico - i Varden avevano cominciato a svolgere dei lavori, a impiantare fattorie e a integrarsi nel paese ospitante. Dove mi porterà tutto questo alla fine? Diventerò il capo di un esercito fantasma? Un generale o un consigliere sotto il governo di Orrin? La posizione di Nasuada era precaria. Se si fosse mossa troppo in fretta o avesse dimostrato troppa iniziativa, Orrin l'avrebbe potuta prendere come una minaccia e voltarle le spalle, specie ora che lei poteva vantare la gloriosa vittoria dei Varden nel Farthen Dùr. Ma se avesse indugiato troppo, avrebbero perso l'occasione di sfruttare la momentanea debolezza di Galbatorix. Il suo unico vantaggio in quel ginepraio era l'autorità che deteneva sull'unico elemento che aveva generato quell'atto del dramma: Eragon e Saphira.

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