Volodyk - Paolini2-Eldest
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«Certo che è sveglia!» disse Arya. La sua voce era bassa e melodiosa nell'aria notturna. «Vorresti sentire la storia dell'albero di Menoa?»
«Volentieri.»
Una sagoma bianca sfrecciò nel cielo come un fantasma e si posò accanto a Saphira. Era Blagden. Le spallucce e il collo corto del corvo gli davano l'aspetto di uno spilorcio che si bea al fulgore dell'oro. Il corvo levò la pallida testa e lanciò il suo profetico grido: «Wyrda!»
«Ecco cosa accadde. Un tempo viveva una donna, Linnéa, negli anni delle spezie e del vino, prima della nostra guerra contro i draghi, e prima che diventassimo immortali, come lo può essere una creatura pur sempre fatta di carne vulnerabile. Linnéa era invecchiata senza il conforto di un compagno o dei figli, ma non ne aveva mai sentito la mancanza, poiché preferiva dedicarsi all'arte del cantare alle piante, di cui era maestra. Questo finché un giovane uomo non bussò alla sua porta e la circuì con parole d'amore. Il suo affetto risvegliò in lei una parte che non aveva mai sospettato di avere, un forte desiderio di sperimentare le cose che aveva inconsapevolmente sacrificato. L'offerta di una seconda opportunità era troppo allettante per ignorarla. Trascurò il suo lavoro e si dedicò al ragazzo, e per un certo periodo furono felici.
«Ma l'uomo era giovane, e cominciò a desiderare una compagna più vicina alla sua età. I suoi occhi caddero su una fanciulla, e lui la corteggiò e la conquistò. E per un certo periodo anche loro furono felici.
«Quando Linnéa scoprì di essere stata ripudiata, tradita e abbandonata, impazzì di dolore. Il giovane uomo aveva fatto la peggiore cosa possibile: le aveva dato un assaggio della pienezza della vita, per poi negargliela senza farsi il minimo scrupolo, come un galletto che passa da una gallina all'altra. Linnéa lo trovò con la donna e, in un accesso d'ira, lo pugnalò a morte.
«Linnéa sapeva di aver fatto una cosa terribile. Sapeva anche che se anche l'avessero perdonata per il delitto, non sarebbe mai potuta tornare alla sua esistenza precedente. La vita aveva perso ogni gioia per lei. Così andò vicino all'albero più antico della Du Weldenvarden, premette il suo corpo contro il tronco e si cantò dentro l'albero, recidendo ogni legame con la propria razza. Per tre giorni e tre notti cantò, e quando ebbe finito, era diventata tutt'uno con le sue adorate piante. E da allora, nel corso dei millenni, ha fatto la guardia alla foresta. Così nacque l'albero di Menoa.»
Al termine del racconto, Arya ed Eragon si sedettero fianco a fianco su di un'enorme radice sporgente. Eragon faceva rimbalzare i talloni contro il legno, domandandosi se Arya gli avesse raccontato quella storia come monito o soltanto come semplice aneddoto.
Il suo dubbio divenne certezza quando lei gli domandò: «Credi che la colpa della tragedia sia del giovane uomo?» «Credo» disse lui, sapendo che una risposta inadeguata l'avrebbe fatta infuriare «che quello che fece lui fu crudele, e che Linnéa reagì in maniera spropositata. Erano entrambi in torto.»
Arya continuò a fissarlo, finché lui non abbassò lo sguardo. «Non erano fatti l'uno per l'altra.»
Eragon fece per obiettare, ma si fermò. Arya aveva ragione. E lo aveva manipolato perché fosse lui a dirlo ad alta voce, perché fosse lui a dirlo a lei. «Può darsi» ammise.
Il silenzio crebbe fra di loro come sabbia che si accumula a formare una barriera, senza che nessuno dei due avesse intenzione di abbatterla. L'acuto frinire delle cicale riecheggiava dai margini della radura. Alla fine, lui disse: «Sembri felice di essere tornata a casa.»
«Lo sono.» Con estrema naturalezza, l'elfa si chinò a raccogliere un rametto che era caduto dall'albero di Menoa e cominciò a intrecciare un cestino con una manciata di aghi di pino.
Eragon si sentì affluire il sangue al viso mentre la guardava. Sperò che il debole chiarore della luna non bastasse a rivelare le chiazze rosse che gli imporporavano le guance. «Dove... dove vivi? Tu e Islanzadi avete un palazzo o un castello...?»
«Viviamo nel Palazzo di Tialdari, la residenza dei nostri antenati, nella zona ovest di Ellesméra. Mi piacerebbe mostrarti la nostra casa, un giorno.»
«Ah.» Una domanda tecnica s'intromise nei pensieri confusi di Eragon, scacciando l'imbarazzo. «Arya, tu hai dei fratelli o delle sorelle?» Lei fece di no con la testa. «Allora sei l'unica erede al trono degli elfi?»
«Naturalmente. Perché me lo chiedi?» Suonò perplessa per la sua curiosità.
«Non capisco come mai ti sia stato concesso di diventare ambasciatrice presso i Varden e i nani, come anche di portare l'uovo di Saphira avanti e indietro da qui a Tronjheim. È una missione troppo pericolosa per una principessa, ancor più per una futura regina.»
«Vuoi dire troppo pericoloso per una donna umana. Ti ho già detto che non sono una delle vostre femmine inermi. Quello che non riesci a capire è che noi consideriamo i nostri sovrani in maniera diversa da quella vostra o dei nani. Per noi, la più grande responsabilità di un re o di una regina è quella di servire il popolo comunque e dovunque. Se questo significa sacrificare la nostra vita, abbracciamo con gioia l'occasione di dimostrare la nostra devozione, come dicono i nani, alla patria, al clan e all'onore. Se fossi morta nello svolgimento del mio dovere, sarebbe stato scelto un successore negli altri vari casati. Perfino adesso non è detto che diventi regina, se trovassi sgradevole la prospettiva. Noi non scegliamo monarchi che non siano disposti a dedicarsi del tutto ai loro obblighi.» Esitò, poi si strinse le ginocchia al petto e ci posò sopra il mento. «Non sai quanti anni ho passato a discutere questo argomento con mia madre.» Per un minuto, il cri-cri delle cicale proseguì indisturbato nella radura. Poi lei gli domandò: «Come vanno gli studi con Oromis?»
Eragon borbottò nel sentir riaffiorare il malumore indotto dai brutti ricordi che avvelenarono il piacere di stare con Arya. In quel momento desiderò soltanto ficcarsi sotto le coperte, dormire e dimenticare tutto. «Oromis-elda» disse, facendo attenzione a ogni parola prima di pronunciarla «è alquanto meticoloso.»
Lui trasalì quando l'elfa gli strinse il braccio con forza. «Qualcosa è andato storto?»
Lui cercò di liberarsi dalla stretta. «Niente.»
«Ho viaggiato con te abbastanza a lungo da sapere quando sei felice, arrabbiato... o sofferente. È successo qualcosa fra te e Oromis? Se è così, devi dirmelo perché si possa rimediare il prima possibile. O è stata la schiena? Potremmo...» «Non si tratta dell'addestramento!» Malgrado l'irritazione, Eragon notò che l'elfa sembrava sinceramente preoccupata, e in cuor suo ne fu contento. «Chiedi a Saphira. Lei può dirtelo.»
«Voglio sentirlo da te» rispose lei in tono sommesso.
Eragon strinse i denti, con la mascella contratta percorsa dagli spasmi. A bassa voce, non più di un sussurro, prima le descrisse come aveva fallito nella meditazione nella conca, poi l'incidente che gli ammorbava il cuore come una vipera in seno: la benedizione.
Arya gli liberò il braccio e si afferrò alla radice dell'albero di Menoa, come se stesse per cadere. «Barzul.» L'imprecazione dei nani lo allarmò; non l'aveva mai sentita pronunciare blasfemie prima, e quella era particolarmente adatta, poiché significava sciagura. «Sapevo del tuo gesto nel Farthen Dùr, ma non avrei mai pensato... mai sospettato che fosse successo una cosa del genere. Imploro il tuo perdono, Eragon, per averti costretto a lasciare la tua stanza, questa notte. Non ho compreso la tua pena. Volevi restare da solo.»
«No» disse lui, «no. Apprezzo la compagnia e le cose che mi hai mostrato.» Le sorrise e, dopo un istante, lei ricambiò il sorriso. Insieme rimasero seduti alla base dell'antico albero e contemplarono la luna che tracciava un arco nel cielo sopra la foresta silenziosa, prima di essere nascosta da un banco di nubi. «Mi chiedo solo che ne è stato della bambina.»
In alto sopra le loro teste, Blagden arruffò le penne candide e gridò: «Wyrda!»
Nasuada incrociò le braccia senza preoccuparsi davanti a lei.
Quello a destra aveva il collo così grosso che la testa gli sporgeva dalle spalle quasi ad angolo retto, dandogli un'aria ottusa. Per giunta aveva la fronte sporgente solcata da due sopracciglia così cespugliose da nascondergli quasi gli occhi, e labbra carnose che teneva strette a formare un fungo rosa, anche quando parlava. Ma Nasuada sapeva bene di non doversi fidare di quell'apparenza ripugnante. Per quanto alloggiata in un muso da idiota, la lingua dell'uomo era tagliente come un rasoio.
L'unica nota distintiva dell'altro era la pelle pallida, che si rifiutava di scurirsi persino sotto il sole inclemente del Surda, anche se i Varden si trovavano ad Aberon, la capitale, ormai da settimane. Dal suo colorito, Nasuada capì che era nato nelle propaggini più settentrionali dell'Impero. Teneva in mano un berretto di lana che continuava a torcere come uno straccio.
«Tu» fece lei, puntandogli un dito contro. «Quante galline dici che ti ha ucciso?»
«Tredici, signora.»
Nasuada rivolse la sua attenzione a quello brutto. «Un numero sempre sfortunato, mastro Gamble. Così è stato per te. Sei colpevole di furto e distruzione di proprietà altrui, senza aver offerto la ricompensa adeguata.» «Non l'ho mai negata.»
«Mi chiedo soltanto come hai fatto a mangiare tredici galline in quattro giorni. Non ti senti mai pieno, mastro Gamble?» Lui le rivolse un ghigno scherzoso e si grattò una guancia. Il rumore prodotto dalle unghie sulla barba incolta la infastidì, e fu soltanto grazie a un immane sforzo di volontà che evitò di chiedergli di smettere. «Be', non per mancare di rispetto, signora, ma riempirmi lo stomaco non sarebbe un problema se tu ci nutrissi come si deve, con tutto il lavoro che facciamo. Io sono un uomo grande e grosso, e devo riempirmi la pancia dopo mezza giornata passata a spaccare pietre con una mazza. Ho fatto del mio meglio per resistere alla tentazione, davvero. Ma tre settimane di razionamento, passate a guardare questi contadini che allevano grasso bestiame senza volerlo condividere con un morto di fame... Be', devo ammetterlo, ho ceduto. Non sono forte quando si tratta di cibo. Mi piace caldo e in abbondanza. E non credo di essere l'unico a volersi servire da solo.»
È questo il problema, si disse Nasuada. I Varden non potevano permettersi di sfamare a dovere tutti i loro membri, nemmeno con l'aiuto di Orrin, il re del Surda. Orrin aveva spalancato i suoi forzieri, ma si rifiutava di comportarsi come faceva Galbatorix quando spostava l'esercito nell'Impero, ossia requisire le scorte alimentari dei suoi sudditi senza pagarli. Un nobile sentimento, che però rende più difficile il mio compito. Eppure sapeva che proprio quel comportamento era ciò che distingueva lei, Orrin, Rothgar e Islanzadi dalla tirannia di Galbatorix. Sarebbe così facile valicare questo confine senza darvi importanza.
«Comprendo le tue ragioni, mastro Gamble. Tuttavia, sebbene i Varden non siano una nazione e non rispondano a nessuna autorità se non la nostra, questo non autorizza né te né nessun altro a ignorare le leggi emanate dai miei predecessori o quelle osservate qui nel Surda. Pertanto ti ordino di pagare una moneta di rame per ogni gallina che hai rubato.»
Gamble la sorprese accettando senza protestare. «Come desideri, signora.»
«Tutto qui?» esclamò l'uomo pallido, torcendo ancora di più il berretto. «Non è un prezzo equo. Se le avessi vendute al mercato, avrei...»
Nasuada non riuscì più a trattenersi. «Sì! Avresti guadagnato di più. Ma si da il caso che io sappia che mastro Gamble non può permettersi di pagarti il prezzo pieno delle galline, perché sono io che gli pago il salario! Come il tuo. Dimentichi che se decidessi di acquistare i tuoi polli per il bene dei Varden, te li pagherei non più di una moneta di rame ciascuno, e saresti fortunato. Intesi?»
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