Volodyk - Paolini2-Eldest
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Andarono al torrente che scorreva vicino alla casa e si spogliarono in fretta. Eragon scoccò un'occhiata furtiva all'elfo, curioso di vedere com'era senza vestiti. Oromis era molto magro, ma i suoi muscoli erano perfettamente delineati, guizzanti sotto la pelle con la perfezione di una scultura di legno. Non aveva peli sul torace e sulle gambe, e nemmeno all'inguine. Il suo corpo sembrava quasi grottesco, in confronto agli uomini che Eragon era abituato a vedere a Carvahall, anche se possedeva una certa raffinata eleganza, come quella di un gatto selvatico.
Quando si furono lavati, Oromis condusse Eragon nel folto della Du Weldenvarden, fino a una conca protetta da alberi cupi, inclinati verso il centro a oscurare il cielo con l'intrico di rami e brandelli penzolanti di licheni. I piedi gli affondavano nel muschio fino alle caviglie. Tutto era immerso nel silenzio.
Indicando un ceppo bianco dalla sommità liscia e piatta al centro della conca, Oromis disse: «Siediti lì.» Eragon obbedì. «Incrocia le gambe e chiudi gli occhi.» Il mondo intorno a lui piombò nell'oscurità. Alla sua destra, sentì Oromis bisbigliare: «Apri la mente, Eragon. Apri la mente e ascolta il mondo intorno a te, i pensieri di ogni essere di questa radura, dalle formiche negli alberi ai vermi nella terra. Ascolta finché non li sentirai tutti e comprenderai la loro natura e il loro scopo. Ascolta, e quando non sentirai più nulla, mi dirai che cosa hai imparato.»
Poi la foresta tacque.
Non sapendo se Oromis se ne fosse andato, Eragon provò ad abbassare le difese della mente per dilatare la coscienza, come faceva quando cercava di chiamare Saphira a grandi distanze. Al principio si ritrovò circondato dal vuoto, ma poi barlumi di luce e calore cominciarono a comparire nell'oscurità, crescendo d'intensità finché non si trovò al centro di una galassia di costellazioni vorticanti, e ciascun puntino brillante rappresentava una vita. Ogni volta che aveva chiamato altri esseri con la mente, come Cadoc, Fiammabianca o Solembum, il suo fuoco si era sempre concentrato su quello con cui voleva comunicare. Ma in quel momento... era come se fosse stato sordo in mezzo a una folla e all'improvviso potesse sentire i flussi di conversazione che scorrevano intorno a lui.
Di colpo si sentì vulnerabile; era completamente esposto al mondo. Chiunque o qualunque cosa volesse impadronirsi della sua mente e controllarlo, avrebbe potuto farlo in quell'istante. La tensione lo indusse a ritirarsi in se stesso, e la consapevolezza che aveva della conca scomparve. Ricordando una delle lezioni di Oromis, Eragon rallentò la respirazione e controllò l'espansione dei polmoni fino a rilassarsi abbastanza da riaprire la mente. Di tutte le vite che percepiva, la stragrande maggioranza appartenevano agli insetti. Rimase sbalordito dal loro numero immenso. Decine di migliaia di minuscoli esseri dimoravano in un fazzoletto di muschio, milioni e milioni nel resto della piccola conca, e chissà quanti oltre. Eragon ebbe quasi paura. Aveva sempre saputo che in Alagaésia gli umani erano pochi e isolati, ma non si sarebbe mai immaginato che fossero superati in numero perfino dagli scarafaggi. Poiché erano fra i pochi insetti che conosceva, e Oromis le aveva menzionate, Eragon si concentrò sulle colonne di formiche rosse che marciavano sul terreno e risalivano lungo gli steli di un cespuglio di rose selvatiche. Ciò che colse non furono tanto pensieri - i loro cervelli erano troppo primitivi - ma urgenze: l'urgenza di trovare cibo ed evitare pericoli, l'urgenza di difendere il territorio, l'urgenza di accoppiarsi. Studiando gli istinti delle formiche, cominciò a riconoscere i loro comportamenti.
Lo affascinò scoprire che - tranne i rari individui che si avventuravano in esplorazione fuori dai confini del loro territorio - le formiche sapevano esattamente dove stavano andando. Pur non riuscendo a individuare il meccanismo che le guidava, notò che seguivano precisi percorsi dai loro nidi al cibo e viceversa. La fonte di cibo fu un'altra sorpresa. Come si era aspettato, le formiche uccidevano altri insetti e si nutrivano di loro, ma la maggior parte dei loro sforzi era concentrata sulla coltivazione di... di qualcosa che punteggiava il cespuglio di rose. Qualunque forma di vita fosse, era appena percettibile. Si concentrò con tutte le sue forze per identificarla e soddisfare la propria curiosità. La risposta fu così semplice che gli venne da ridere quando comprese: afidi. Le formiche si comportavano come pastori di afidi, guidandoli e proteggendoli, ed estraevano da essi il nutrimento massaggiando le loro pance con la punta delle antenne. Eragon non riusciva quasi a crederci, ma più le guardava, più si convinceva di avere ragione. Seguì le formiche nel sottosuolo, nel complesso labirinto di cunicoli, e osservò come si prendevano cura di un particolare membro della loro specie, molto più grosso di una normale formica. Tuttavia il ruolo dell'insetto gli rimase oscuro; non vide altro che servitori che gli sciamavano intorno, ruotandolo e rimuovendo particelle di materia che produceva a intervalli regolari.
Dopo un po', Eragon decise che aveva tratto ogni informazione possibile dalle formiche - a meno che non volesse restare lì seduto per il resto della giornata - e stava per tornare nel suo corpo quando uno scoiattolo balzò nella radura. La sua comparsa fu come un lampo abbagliante per Eragon, che si era ormai abituato alle minuscole lucine delle formiche. Sconcertato, fu travolto da un'ondata di sensazioni e sentimenti che scaturivano dall'animale. Annusò la foresta col suo naso, sentì la corteccia cedere sotto le unghie curve e l'aria frusciare intorno alla coda eretta come un pennacchio. In confronto a una formica, lo scoiattolo ardeva di energia e possedeva un'indiscutibile intelligenza. Poi saltò su un altro ramo e si dileguò dalla sua coscienza.
La foresta sembrava molto più buia e silenziosa di prima, quando Eragon aprì gli occhi. Trasse un profondo respiro e si guardò intorno, apprezzando per la prima volta tutta la vita esistente al mondo. Allungando le gambe indolenzite, si avvicinò al cespuglio di rose. Si chinò a esaminarne i rametti, che infatti erano coperti di afidi e dei loro guardiani cremisi. E vicino alla base della pianta c'era il cumulo di aghi di pino che contrassegnava l'ingresso del formicaio. Era strano vederlo con i suoi propri occhi: nulla tradiva le numerose, sottili interazioni di cui adesso era consapevole. Assorto nei suoi pensieri, Eragon tornò nella radura, chiedendosi che cosa potesse mai calpestare a ogni passo. Quando emerse dal folto degli alberi, rimase di stucco nel vedere quanto si era spostato il sole. Devo essere rimasto seduto lì almeno tre ore.
Trovò Oromis nel capanno, intento a scrivere con un calamo di penna d'oca. L'elfo terminò la riga, poi pulì la punta del calamo, chiuse la boccetta dell'inchiostro e chiese: «Cos'hai sentito, Eragon?»
Eragon non vedeva l'ora di raccontare. Mentre descriveva l'esperienza, sentì la propria voce traboccare di entusiasmo nel soffermarsi sui dettagli della società delle formiche. Riferì tutto quanto riuscì a ricordare, fino alle più piccole e insignificanti osservazioni, orgoglioso delle informazioni che aveva raccolto.
Quando ebbe finito, Oromis inarcò un sopracciglio. «Tutto qui?»
«Ma...» Eragon cadde in preda allo sconforto nel rendersi conto che aveva in qualche modo mancato lo scopo dell'esercizio. «Sì, Ebrithil.»
«E che mi dici degli altri organismi nella terra e nell'aria? Sai dirmi cosa facevano mentre le tue formiche si occupavano delle loro greggi?»
«No, Ebrithil.»
«Ecco il tuo errore. Devi renderti consapevole di tutte le cose in eguai misura e non concentrarti su un particolare soggetto. Questa è una lezione essenziale, e finché non ci sarai riuscito, mediterai sul ceppo ogni giorno per un'ora.» «Come saprò quando ci sarò riuscito?»
«Quando potrai osservare uno e comprendere il tutto.»
Oromis fece cenno a Eragon di unirsi a lui a tavola, poi gli pose davanti un foglio di carta immacolato, insieme a un calamo e a una boccetta d'inchiostro. «Finora hai avuto una conoscenza incompleta dell'antica lingua. Nessuno sa riconoscere ogni singola parola di essa, ma devi familiarizzare con la grammatica e le strutture sintattiche, in modo da non tentare il suicidio per colpa di un verbo messo al posto sbagliato o errori del genere. Non mi aspetto che parli la nostra lingua come un elfo - ci vorrebbe una vita - ma mi aspetto che tu acquisisca una competenza inconscia. Voglio dire, devi essere in grado di usarla senza pensare.
«Inoltre devi imparare a leggere e scrivere nell'antica lingua. Ti aiuterà a memorizzare le parole, e in più è una capacità essenziale al fine di comporre un incantesimo particolarmente lungo se non ti fidi della tua memoria, o se trovi un incantesimo scritto e vuoi usarlo.
«Ogni razza ha sviluppato un proprio sistema per scrivere nell'antica lingua. I nani usano il loro alfabeto runico, come gli umani. Ma si tratta di metodi improvvisati che non sono in grado di esprimere le vere sottigliezze della lingua come fa la nostra Liduen Kvaedhi, la Poetica Scrittura. La Liduen Kvaedhi è stata creata per essere il più elegante, raffinata e precisa possibile. È composta da quarantadue forme diverse che rappresentano svariati suoni e si possono combinare in una gamma pressoché infinita di glifi che rappresentano sia parole individuali che intere frasi. Il simbolo sul tuo anello è uno di questi glifi. Il simbolo su Zar'roc un altro... Cominciamo: quali sono i principali suoni vocalici dell'antica lingua?»
«Cosa?»
L'ignoranza di Eragon sulle sfumature dell'antica lingua fu subito evidente. Quando aveva viaggiato con Brom, il vecchio cantastorie si era adoperato perché Eragon imparasse a memoria liste di parole che potevano essergli utili per sopravvivere, come anche a perfezionare la pronuncia. Se l'era cavata egregiamente in questi due campi, ma non sapeva nemmeno spiegare la differenza fra articolo determinativo e indeterminativo. Oromis non mostrò in alcun modo di essere irritato per le lacune nella sua istruzione, e invece cominciò a lavorare alacremente per colmarle. A un certo punto, durante la lezione, Eragon commentò: «Non ho mai avuto bisogno di molte parole per i miei incantesimi. Brom pensava che avessi un talento naturale, visto quello che riuscivo a fare solo con brisingr. Credo di aver usato l'antica lingua soprattutto quando parlavo con Arya nella sua mente, e quando ho benedetto un'orfana nel Farthen Dùr.»
«Hai benedetto una bambina nell'antica lingua?» disse Oromis, allarmato. «Ricordi come hai formulato la benedizione?» «Sicuro.»
«Recitala per me.» Eragon ripete le parole, e un'espressione di puro orrore si dipinse sul volto di Oromis, che esclamò: «Hai usato skòlirl Sei sicuro? Non era skoliro?»
Eragon si accigliò. «No, skolir. Perché non avrei dovuto usarla? Skolir significa protetta... "e che tu possa essere protetta dalla sventura". Era una benedizione.»
«Non è stata una benedizione, ma una maledizione.» Oromis era agitato come Eragon non l'aveva mai visto. «Il suffisso o forma il participio passato dei verbi che finiscono in rei. Skoliro significa protetto, ma skolir significa protezione. Quello che hai detto è: "Che la fortuna e la felicità ti assistano e che tu possa essere una protezione dalla sventura". Invece di preservare quella bambina dai capricci del fato, l'hai condannata a sacrificarsi per gli altri, ad assorbire le loro miserie e le loro sofferenze perché possano vivere in pace.»
No, no! Non può essere! Eragon tentò di negare la possibilità con tutte le sue forze. «Gli effetti di un incantesimo non sono determinati soltanto dal senso delle parole, ma anche dalle intenzioni, e io non avevo intenzione di farle del male...»
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