Volodyk - Paolini2-Eldest

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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание

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«È un mistero quindi, come una persona possa avere premonizioni mentre dorme, come possa fare inconsapevolmente qualcosa che ha sconfitto i nostri più grandi sapienti. Le premonizioni possono essere legate alla natura e alla sostanza stessa della magia... o magari funzionano in maniera simile alla memoria ancestrale dei draghi. Non lo sappiamo. Sono molte le vie della magia ancora da esplorare.» L'elfa si alzò con fluida agilità. «Cerca di non smarrirti in esse.»

Inquietudini

Nel corso della mattinata, la valle andò sempre più allargandosi, a mano a mano che le zattere procedevano verso un ampio varco fra due montagne. A mezzogiorno raggiunsero lo sbocco e finalmente abbandonarono un regno di ombre per affacciarsi su una pianura assolata che si perdeva a vista d'occhio.

La corrente li trascinò oltre i picchi innevati, e le pareti del mondo si aprirono per rivelare un cielo sconfinato e un orizzonte piatto. Quasi all'istante l'aria si fece più mite. L'Az Ragni curvava a est, lambendo le colline da un lato e la pianura dall'altro.

La vastità del panorama sembrava turbare i nani. Borbottavano fra di loro e rivolgevano sguardi struggenti alla gola cavernosa che si lasciavano alle spalle.

Eragon si sentì rinvigorito dai raggi del sole. Era difficile persino sentirsi svegli quando per tre quarti della giornata eri immerso nella penombra. Dietro la sua zattera, Saphira spiccò il volo dall'acqua e si librò sulla prateria fino a diventare un puntino splendente sotto l'azzurra volta.

Che cosa vedi? le domandò.

Vedo branchi di gazzelle a nord e a est. A ovest, il Deserto di Hadarac. Tutto qui.

Nient'altro? Niente Urgali, o carovane di mercanti di schiavi, o di nomadi?

Siamo soli.

Quella sera Thorv scelse una piccola insenatura per accamparsi. Mentre Dùthmér preparava la cena, Eragon sgombrò una zona di fianco alla sua tenda, poi estrasse Zar'roc e assunse la posizione di guardia che Brom gli aveva insegnato quando si allenavano. Eragon sapeva di non essere all'altezza degli elfi, e non aveva alcuna intenzione di arrivare a Ellesméra fuori esercizio.

Con estrema lentezza, levò Zar'roc sopra la testa e la calò con entrambe le mani come per spaccare l'elmo di un nemico. Mantenne la posizione per un secondo; poi, sempre controllando i movimenti, torse il busto a destra, girando la lama di Zar'roc per parare un colpo immaginario... poi si fermò con le braccia rigide.

Con la coda dell'occhio, Eragon vide Orik, Arya e Thorv che lo osservavano. Li ignorò e tornò a concentrarsi soltanto sulla lama rossa tra le sue mani: la maneggiava come se fosse un serpente che poteva sgusciargli dalle mani e morderlo. Voltandosi ancora, eseguì una serie di movimenti fluidi, passando dall'uno all'altro con disciplinata scioltezza, mentre aumentava via via la rapidità. Non era più nell'insenatura ombreggiata, ma circondato da un manipolo di feroci Urgali e Kull. Si abbassava, si lanciava in un affondo, parava, riprendeva posizione, schivava e fendeva, in un turbine di movimenti. Combatteva con energia intuitiva, come aveva fatto nel Farthen Dùr, senza pensare a salvarsi la pelle, colpendo e massacrando i nemici immaginari.

Fece roteare Zar'roc nel tentativo di passarsela da una mano all'altra, ma la spada gli cadde di mano quando un'atroce fitta di dolore gli straziò la schiena. Barcollò e cadde. Sopra di sé sentì Arya e i nani che parlottavano concitati, ma non vedeva altro che una nebbia rossa, come un sudario insanguinato che velava il mondo. Nessuna sensazione esisteva, a parte il dolore. Gli oscurò pensiero e ragione, lasciando solo una bestia selvaggia che urlava per essere liberata. Quando Eragon si riprese abbastanza da capire dove si trovava, scoprì che era nella sua tenda, sotto le coperte. Arya sedeva accanto a lui, e Saphira faceva capolino dai lembi dell'ingresso.

Sono rimasto svenuto a lungo? chiese Eragon.

Un po'. Alla fine ti sei addormentato. Ho cercato di estrarti dal tuo corpo per farti entrare nel mio e proteggerti dal dolore, ma ho potuto fare ben poco mentre eri incosciente.

Eragon annuì e chiuse gli occhi. Si sentiva pulsare tutto il corpo. Inspirò a fondo, guardò Arya e con voce sommessa chiese: «Come potrò allenarmi?... Come potrò combattere o usare la magia?... Sono un relitto inutile.» Di colpo il suo viso dimostrò molti più anni di quanti ne avesse.

Lei rispose con altrettanta dolcezza. «Puoi sempre sederti a osservare. Puoi ascoltare. Puoi leggere. E puoi imparare.» Malgrado le sue parole, Eragon avvertì una nota di incertezza, forse addirittura di timore, nella sua voce. Si voltò su un fianco per evitare il suo sguardo. Provava vergogna nel mostrarsi così indifeso davanti a lei. «Cosa mi ha fatto lo Spettro?»

«Non ho risposte da darti, Eragon. Non sono né la più saggia né la più forte degli elfi. Facciamo tutti del nostro meglio, e non puoi prendertela con te stesso. Forse il tempo guarirà la tua ferita.» Arya gli premette le dita sulla fronte e mormorò: «Sé mor'ranr ono finna» poi uscì dalla tenda.

Eragon si alzò a sedere e fece una smorfia nel distendere i muscoli contratti della schiena. Si fissava le mani senza vederle. Ho paura.

Perché? chiese Saphira.

Perché... esitò lui. Perché non posso fare niente per impedire un altro attacco. Non so quando e dove mi capiterà, so soltanto che sarà inevitabile. Perciò aspetto, e in ogni momento ho paura che se sollevo qualcosa di pesante o faccio la mossa sbagliata, il dolore tornerà ad affliggermi. Il mio corpo mi è diventato nemico.

Saphira emise un sordo brontolìo di gola. Nemmeno io ho risposte da darti. La vita è fatta di dolore e piacere. Se è questo il prezzo che devi pagare per le ore in cui sei felice, è troppo?

Sì, tagliò corto lui. Si tolse le coperte e uscì dalla tenda urtandola, piombando al centro dell'accampamento dove Arya e i nani sedevano intorno al falò. «È rimasto qualcosa da mangiare?» chiese Eragon.

Dùthmér gli riempì in silenzio una scodella e gliela porse. Con espressione deferente, Thorv gli chiese: «Ti senti meglio, adesso, Ammazzaspettri?» Lui e gli altri nani sembravano impressionati da quanto avevano visto.

«Sto bene.»

«Porti un pesante fardello, Ammazzaspettri.»

Eragon gli scoccò un'occhiataccia e si rintanò in un angolo appartato ai bordi del campo, dove si sedette al buio. Imprecò a denti stretti e infilzò lo stufato di Dùthmér con rabbia.

Proprio mentre si accingeva ad addentare il primo boccone, Orik comparve al suo fianco all'improvviso. «Non dovresti trattarli così.»

Eragon guardò torvo la faccia del nano. «Cosa?»

«Thorv e i suoi uomini sono stati mandati a proteggere te e Saphira. Darebbero la vita per te, se necessario, e affidano a te la loro sacra sepoltura. Dovresti ricordarlo.»

Eragon si ricacciò in gola un'aspra risposta, e fissò la nera superficie del fiume - sempre in movimento, mai fermo - nel tentativo di placare la mente. «Hai ragione. Mi sono fatto prendere dalla collera.»

I denti di Orik scintillarono nella notte quando sorrise. «È una lezione che ogni comandante deve imparare. Io l'ho imparata a suon di legnate da parte di Rothgar, quando da giovane scagliai uno stivale contro un nano che aveva lasciato la sua alabarda in un punto dove la gente poteva inciampare.»

«E lo colpisti?»

«Gli ruppi il naso» ridacchiò Orik.

Suo malgrado, anche Eragon rise. «Mi ricorderò di non farlo.» Prese la scodella tra le mani a coppa, per riscaldarle. Si udì un tintinnio metallico quando Orik trasse qualcosa dalla sua scarsella. «Tieni» disse il nano, facendo cadere una piccola catena di anelli d'oro intrecciati nel palmo di Eragon. «È un rompicapo che usiamo per mettere alla prova l'abilità e la destrezza. Sono otto anelli. Se riesci a sistemarli nella maniera giusta, formano un singolo anello. Io lo trovo utile quando voglio distrarmi da qualche preoccupazione.»

«Ti ringrazio» mormorò Eragon, già assorto nella complessità della catena scintillante.

«Puoi tenerlo, se ci riesci.»

Quando tornò alla tenda, Eragon si distese sulla pancia e ispezionò la catena nella fioca luce del falò che filtrava dai lembi sollevati. Quattro anelli passavano attraverso gli altri quattro; ciascuno era liscio nella metà inferiore, mentre la parte superiore presentava delle scanalature dove avrebbe dovuto incastrarsi con gli altri pezzi.

Eragon sperimentò varie configurazioni, ma si sentiva sempre più frustrato nel constatare un semplice fatto: sembrava impossibile mettere in parallelo le due serie di anelli per formarne uno solo.

Concentrato nella sfida, dimenticò il terrore che lo attanagliava.

Eragon si svegliò poco prima dell'alba. Si strofinò gli occhi per cancellare gli ultimi residui di sonno e uscì dalla tenda per stiracchiarsi. Il suo respiro si condensò in candide nuvolette nell'aria frizzante del mattino. Fece un cenno a Shrrgnien - che montava di guardia presso il fuoco - e andò sulla sponda del fiume, dove si accovacciò per lavarsi la faccia, rabbrividendo per l'acqua gelida.

Trovò Saphira con un guizzo mentale, si allacciò Zar'roc e si avviò verso di lei fra i pioppi che orlavano l'Az Ragni. A un tratto si ritrovò la strada sbarrata da un groviglio di pruni, che gli bagnarono il volto e le mani di rugiada. Con uno sforzo, si fece largo nel fitto intrico di rami e finalmente uscì allo scoperto, nella vasta pianura. Davanti a lui si ergeva una collinetta tondeggiante. In cima - come due antiche statue - c'erano Saphira e Arya, rivolte verso oriente, dove i primi bagliori rosati dell'alba tingevano d'oro la prateria.

Quando un raggio di luce colpì le due figure, Eragon rammentò come Saphira aveva osservato il sorgere del sole, appollaiata su una colonnina del suo letto, poco dopo essere uscita dall'uovo. Sembrava un falco o un'aquila, lo sguardo intenso e brillante sotto le sporgenze cornee della fronte, il fiero arco del collo, e la muscolosa energia che permeava ogni tratto del suo corpo. Era una vera predatrice, dotata di tutta la selvaggia bellezza insita nel termine. I lineamenti affilati e la grazia felina di Arya erano perfettamente complementari alla dragonessa al suo fianco. Non c'era alcuna differenza nei loro atteggiamenti mentre stavano immobili, immerse nei primi raggi del mattino. Eragon si sentì percorrere la schiena da un brivido di gioia e timore reverenziale. Era questo che gli apparteneva, come Cavaliere, ed era tanto fortunato da essere legato, fra tutte le cose di Alagaésia, proprio a questo. Stupore e riconoscenza gli fecero salire le lacrime agli occhi, e sulle sue labbra affiorò un sorriso di selvaggia esultanza che dissipò ogni dubbio e timore, in un impeto di pura emozione.

Ancora col sorriso sulle labbra, risalì il pendio e prese posto al fianco di Saphira, per contemplare insieme a lei il sorgere del nuovo giorno.

Arya lo guardò. Eragon incontrò i suoi occhi, e qualcosa si agitò dentro di lui. Arrossì senza saperne il motivo, ma con la percezione di un'improvvisa comunione con lei, la sensazione che l'elfa lo comprendesse meglio di chiunque altro, a parte Saphira. La propria reazione lo sconcertò, poiché nessuno aveva mai avuto un tale effetto su di lui. Per tutto il giorno bastò che Eragon ripensasse a quel momento per mettersi a sorridere e rievocare il miscuglio di sensazioni che non riusciva a identificare. Trascorse gran parte del tempo seduto con la schiena appoggiata alla cabina del battello, giocando con l'anello di Orik e contemplando il mutevole panorama.

Verso mezzogiorno passarono davanti all'imboccatura di una valle, da cui scorreva un affluente che s'immetteva nell'Az Ragni. Il fiume raddoppiò in velocità e ampiezza, finché le sponde non furono distanti oltre un miglio. I nani si prodigarono per impedire alle zattere di essere sballottate come turaccioli nei gorghi spumeggianti e di andare a fracassarsi contro i tronchi trasportati dalla corrente.

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