Volodyk - Paolini2-Eldest
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Un miglio dopo la congiunzione dei due fiumi, l'Az Ragni curvava verso nord, lambendo un picco solitario velato di nubi che si distaccava dalla catena dei Monti Beor, come una gigantesca torre di guardia costruita per sorvegliare le pianure.
I nani chinarono il capo nel passare ai piedi della montagna, e Orik spiegò a Eragon: «Si chiama Moldùn il Fiero. È l'ultima vera montagna che vedremo nel nostro viaggio.»
Quando ormeggiarono le zattere per la notte, Eragon vide Orik trarre dallo zaino una lunga scatola nera tempestata di rubini e intarsiata di madrcperla e filigrana d'argento. Orik fece scattare la fibbia intagliata e sollevò il coperchio decorato per rivelare un arco disteso su una fodera di velluto rosso. Sulle parti flessibili, nere come l'ebano, spiccavano intricate ramificazioni di foglie, fiori, animali e rune, tutte di oro purissimo. Era un'arma così straordinaria che Eragon si chiese come qualcuno osasse usarla.
Orik incordò l'arco, alto quasi quanto lui, ma non più grande di un arco per bambini secondo i criteri di Eragon, ripose la custodia, e disse: «Vado a cercare un po' di carne fresca. Sarò di ritorno fra un'ora.» E scomparve nella boscaglia. Thorv borbottò scuotendo la testa, ma non fece alcun tentativo di fermarlo.
Fedele alla parola data, Orik tornò con una coppia di oche dal lungo collo. «Le ho trovate appollaiate su un albero» disse, gettando i volatili a Dùthmér.
Quando Orik riprese la custodia ingioiellata, Eragon gli chiese: «Di che legno è fatto il tuo arco?» «Legno?» scoppiò a ridere Orik, scuotendo la testa. «Non si può fare un arco così piccolo con il legno e scoccare una freccia più lontano di venti iarde; si rompe, oppure s'imbarca dopo appena qualche tiro. No, questo è un arco di corno di Urgali!»
Eragon lo guardò sospettoso, sicuro che il nano lo stesse prendendo in giro. «Il corno non è abbastanza elastico per fare un arco.»
«Ah» lo corresse Orik, «perché non sai come trattarlo. All'inizio provammo con le corna di Feldùnost, ma funziona altrettanto bene con quelle di Urgali. Si taglia il corno a metà per la lunghezza, poi si rifila il bordo esterno fino allo spessore desiderato. Si fa bollire la lista per appiattirla e si scartavetra fino a ottenere la forma finale, prima di fissarla a una doga di frassino con colla fatta di squame di pesce e pelle di palato di trota. La parte posteriore della doga viene quindi coperta da strati multipli di tendini, che conferiscono all'arco il suo scatto. L'ultimo passo è la decorazione. L'intero processo può richiedere una decina d'anni.»
«Non ho mai sentito di un arco costruito in questo modo prima d'ora» disse Eragon. Al confronto, la sua arma sembrava un ramo sgrossato alla meno peggio. «Qual è la sua gittata?»
«Prova» disse Orik. Eragon prese l'arco, maneggiandolo con cura per paura di graffiarne i decori. Orik estrasse una freccia dalla faretra e gliela porse. «Ricorda però che mi dovrai una freccia.»
Eragon incoccò la freccia alla corda, mirò verso l'Az Ragni e scoccò. L'ampiezza di tensione dell'arco non arrivava a due piedi, ma rimase sorpreso nel constatare che il suo peso superava di gran lunga quello della sua arma; aveva la forza appena sufficiente per mantenere tesa la corda. Liberò la freccia che svanì con uno schiocco, soltanto per riapparire sul fiume. Eragon guardò affascinato la freccia che si tuffava in un ventaglio di spruzzi a metà dell'Az Ragni. Subito superò le barriere della propria mente per evocare la magia, e disse: «Gath sem oro un lam iet.» Dopo un paio di secondi, la freccia guizzò fuori dall'acqua per atterrare nel suo palmo aperto. «Tieni» disse al nano, «la freccia che ti devo.»
Orik si battè il pugno sul petto, poi abbracciò arco e freccia tutto gongolante. «Splendido! Adesso ne ho ancora due dozzine. Altrimenti avrei dovuto aspettare fino a Hedarth per reintegrare la mia scorta.» Tolse la corda dall'arco e lo ripose, avvolgendo la custodia in morbidi stracci per proteggerla.
Eragon si accorse che Arya li stava osservando. Le domandò: «Anche gli elfi usano archi di corno? Siete così forti che un arco di legno si schianterebbe fra le vostre mani.»
«Noi cantiamo i nostri archi da alberi che non crescono.» Detto questo, l'elfa si allontanò.
Per giorni e giorni seguirono la corrente attraverso campi verdeggianti, mentre i Monti Beor svanivano in una nebulosa parete bianca dietro di loro. Le rive ospitavano spesso branchi di gazzelle e cervi che li guardavano con i loro occhi liquidi.
Ora che i Fanghur non erano più una minaccia, Eragon volava spesso con Saphira. Era la loro prima opportunità di passare tanto tempo insieme in aria, dai tempi di Gil'ead, e la sfruttarono al massimo. Inoltre Eragon approfittava dell'occasione per sfuggire al ponte affollato della zattera, dove si sentiva turbato e a disagio, con Arya così vicina.
Arya Svit-kona
Eragon e la sua compagnia seguirono il corso dell'Az Ragni fino al punto in cui si immetteva nel fiume Edda, seguitando a scorrere verso l'ignoto oriente. Visitarono così l'avamposto commerciale dei nani, Hedarth, e barattarono le zattere con dei muli. I nani non usavano mai i cavalli per via della loro altezza.
Arya rifiutò la cavalcatura, affermando: «Non tornerò nella terra dei miei antenati a dorso di mulo.» Thorv aggrottò la fronte. «E come terrai il passo con noi?» «Correrò.» E l'elfa corse davvero, lasciando Fiammabianca e i muli a mangiare la sua polvere, per poi sedersi ad aspettarli sulla collina o nel boschetto successivi. Malgrado lo sforzo, non mostrava mai segni di affaticamento quando si fermavano per la notte, e nessuna propensione a scambiare più di qualche parola fra la colazione e la cena. A ogni passo sembrava più tesa.
Da Hedarth viaggiarono verso nord, risalendo lungo il corso dell'Edda fino al suo punto di origine, il lago Eldor. Giunsero in vista della Du Weldenvarden dopo tre giorni. La foresta comparve dapprima come un bassorilievo caliginoso all'orizzonte, poi si ingrandì rapidamente in un mare smeraldino di antichi faggi, aceri e querce. Dal dorso di Saphira, Eragon vide che la foresta si estendeva ininterrotta a nord e a est, dove sapeva che continuava oltre, fiancheggiando l'intero territorio di Alagaèsia.
Le ombre annidate sotto i rami frondosi degli alberi gli apparivano misteriose e invitanti, e anche pericolose, poiché fra di esse vivevano gli elfi. Nascoste da qualche parte nel cuore verde della Du Weldenvarden c'erano Ellesméra, dove avrebbe completato il suo addestramento, Osilon e le altre città elfiche che ben pochi estranei avevano visitato dopo la caduta dei Cavalieri. La foresta era un luogo denso di pericoli per i mortali, ed Eragon aveva la netta sensazione che avrebbe dovuto affrontare strane magie e ancor più strane creature.
È come se fosse un altro mondo, osservò. Una coppia di farfalle risalì danzando a spirale dall'interno oscuro della foresta.
Spero, disse Saphira, che ci sia spazio per me fra gli alberi del sentiero che gli elfi decideranno di seguire. Non posso volare tutto il tempo.
Sono sicuro che hanno trovato il modo di ospitare i draghi all'epoca dei Cavalieri.
Mmm.
Quella notte, proprio mentre Eragon andava in cerca delle coperte, Arya gli comparve accanto, materializzandosi dal nulla come uno spirito. Il giovane trasalì; non riusciva a capacitarsi di come l'elfa potesse muoversi in maniera tanto furtiva e silenziosa. Prima di avere il tempo di chiederle che cosa volesse, la mente di lei toccò la sua e disse: Seguimi facendo meno rumore possibile.
Rimase sorpreso dal contatto quanto dalla richiesta. Avevano condiviso i pensieri durante il volo verso il Farthen Dùr era stato l'unico modo per comunicare con lei attraverso il coma che si era autoindotta - ma da quando si era ripresa, Eragon non aveva fatto alcun tentativo di cercarla con la mente. Era un'esperienza molto intima e personale. Ogni volta che si espandeva nella coscienza di un altro individuo, aveva la sensazione di urtare uno spigolo della propria anima contro la sua. Gli sembrava un atto rozzo e villano, e per paura di tradire la fiducia già labile di Arya, si era astenuto. Inoltre temeva che un simile legame avrebbe rivelato i suoi nuovi e confusi sentimenti per lei, e non aveva alcuna intenzione di rendersi ridicolo.
Seguì l'elfa che sgusciava dal cerchio di tende, attenta a evitare Trìhga, che aveva scelto il primo turno di guardia, per allontanarsi dalle orecchie indiscrete degli altri. Dentro di lui, Saphira lo controllava vigile, pronta a scattare al suo fianco se necessario.
Arya si sedette su un ceppo coperto di muschio e si cinse le ginocchia con le braccia, senza guardarlo in faccia. «Ci sono cose che devi sapere prima di raggiungere Ceris ed Ellesméra, per evitare di mettere in imbarazzo te stesso o me per la tua ignoranza.»
«Tipo?» Lui si accovacciò di fronte a lei, incuriosito.
Arya esitò. «Nel corso degli anni che ho passato come ambasciatrice di Islanzadi, sono arrivata alla conclusione che gli umani e i nani sono molto simili. Condividete la maggior parte delle passioni e delle credenze. Più di un umano è riuscito a vivere tranquillamente fra i nani perché poteva comprendere la loro cultura, così come loro comprendono la vostra. Entrambe le vostre razze amano, desiderano, odiano, combattono e creano grossomodo nella stessa maniera. La tua amicizia con Orik e l'aver accettato di entrare nel Dùrgrimst Ingietum ne sono una prova.» Eragon annuì, anche se per lui le differenze erano numerose e più che evidenti. «Tuttavia gli elfi non sono come le altre razze.» «Parli come se non fossi una di loro» disse lui, riecheggiando le parole di lei nel Farthen Dùr.
«Ho vissuto con i Varden abbastanza a lungo da abituarmi alle loro tradizioni» rispose Arya in tono irritato. «Ah... Perciò mi stai dicendo che gli elfi non provano le stesse emozioni dei nani e degli umani? Lo trovo difficile da credere. Tutti gli esseri viventi condividono gli stessi bisogni e desideri elementari.»
«Non sto dicendo questo!» Eragon trasalì, poi aggrottò la fronte e la studiò. Non era da lei comportarsi in modo così brusco. Arya chiuse gli occhi e si portò le mani alle tempie, inspirando a fondo. «Noi elfi viviamo tanti anni, e perciò consideriamo la cortesia come la suprema virtù sociale: non possiamo permetterci di offendere, quando il rancore rischia di sopravvivere per decenni, o secoli. La cortesia è l'unico modo per impedire all'ostilità di accumularsi. Non sempre riesce, ma ci atteniamo scrupolosamente ai nostri rituali, poiché ci proteggono dagli eccessi. E dato che non siamo molto fecondi, è essenziale evitare i conflitti fra di noi. Se avessimo lo stesso tasso di crimini di voi umani o dei nani, ben presto ci estingueremmo.
«C'è una maniera appropriata di rivolgersi alle sentinelle di Ceris; gesti formali da osservare quando verrai presentato alla regina Islanzadi; e un centinaio di modi diversi di salutare quelli intorno a te, quando non sia preferibile restare in silenzio.»
«Con tutti i vostri usi» si azzardò a commentare Eragon, «mi sembra che in realtà abbiate reso più facile offendere la gente.»
Un lieve sorriso affiorò sulle labbra dell'elfa. «Può darsi. Sai bene quanto me che verrai giudicato secondo criteri molto severi. Se commetti uno sbaglio, gli elfi penseranno che lo hai fatto apposta. Ancora peggio se scopriranno che era dovuto all'ignoranza. Meglio essere scortese e capace che scortese e incapace, altrimenti rischi di essere manipolato come il Serpente in una coppia di Rune. La nostra politica si muove in cicli estremamente lunghi e sofisticati. Quello che vedi fare o senti dire a un elfo un giorno potrebbe essere soltanto un'abile mossa di una strategia che risale a millenni addietro, e non avere niente a che fare con il comportamento che l'elfo adotterà il giorno dopo. È una partita che giochiamo tutti ma pochi sanno controllare, una partita in cui tu stai per entrare.
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