Volodyk - Paolini2-Eldest

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Albriech latrò una risata. «Abbastanza convincente!»

«Roran» disse Baldor con voce strana, «stanotte avresti convinto un Urgali a mettersi a fare il contadino!» «No!»

«Quando hai finito, ero pronto ad afferrare una lancia e a correre sulla Dorsale insieme a te. E non sarei stato il solo. La domanda non è chi verrà, ma chi non lo farà. Quello che hai detto... non ho mai sentito niente del genere prima d'ora.» Roran aggrottò la fronte. Il suo obiettivo era stato quello di persuadere il villaggio ad abbracciare il suo piano, non a seguirlo ciecamente. Se è questo che vogliono, si disse con una scrollata di spalle. Eppure la prospettiva lo aveva colto impreparato. Qualche tempo prima si sarebbe sentito turbato, ma adesso era disposto ad accettare qualunque cosa lo aiutasse a salvare Katrina e i suoi compaesani.

Baldor si avvicinò al fratello. «Papà perderà la maggior parte dei suoi attrezzi.» Albriech annuì con aria solenne. Roran sapeva che i fabbri si costruivano da soli gli strumenti necessari, e che quegli strumenti formavano un lascito che veniva tramandato di padre in figlio, o di padrone in apprendista. La ricchezza e la maestria di un fabbro si misuravano in base al numero dei suoi attrezzi. Per Horst abbandonare i suoi sarebbe stato... Non sarebbe stato più duro che per chiunque altro, pensò Roran. Il suo unico rammarico era che questo avrebbe significato privare Albriech e Baldor della loro eredità.

Quando arrivarono a casa, Roran si ritirò in camera di Baldor e si sdraiò sul letto. Attraverso le pareti, sentiva le voci di Horst ed Elain che parlavano piano. Si addormentò pensando che simili conversazioni si stavano svolgendo in ogni casa di Carvahall, decidendo il suo - e il loro

destino.

Preparativi

La mattina dopo il suo discorso, Roran guardò fuori dalla finestra e vide dodici uomini uscire da Carvahall, diretti verso le Cascate di Igualda. Sbadigliò e scese in cucina zoppicando.

Horst era seduto al tavolo, da solo, intento a rigirarsi un boccale di birra fra le mani, «'giorno» disse. Roran rispose con un cenno, staccò un pezzo di pane dalla pagnotta che c'era sul bancone e si sedette dall'altro lato del tavolo. Notò gli occhi iniettati di sangue e la barba incolta di Horst, e capì che il fabbro era rimasto sveglio tutta la notte. «Sai perché quel gruppo sta salendo...»

«Devono parlare con le famiglie» tagliò corto Horst. «È dall'alba che la gente continua ad andare sulla Grande Dorsale.» Sbatte il boccale sul tavolo con un sonoro crack. «Tu non hai idea di cosa hai fatto, Roran, chiedendoci di partire. Tutto il villaggio è in subbuglio. Ci hai messi con le spalle al muro, e con un'unica via di uscita: la tua. Certi ti odiano per questo. Be', un discreto numero di compaesani già ti odiava prima per essere stato la causa di tanta sventura.»

Il pane nella bocca di Roran prese il sapore della segatura e lui si sentì pervadere dal risentimento. È stato Eragon a portare qui la pietra, non io. «E gli altri?»

Horst bevve un sorso di birra e sogghignò. «Gli altri ti adorano. Non avrei mai creduto di vedere il giorno in cui il figlio di Garrow avrebbe infiammato il mio cuore con le sue parole, ma l'hai fatto, ragazzo, ah, se l'hai fatto!» Indicò la stanza con un ampio gesto della mano. «Vedi tutto questo? L'ho costruito per Elain e i nostri figli. Mi ci sono voluti sette anni per finirla! Vedi quella trave sulla porta? Mi sono rotto tre dita per metterla a posto. E sai una cosa? Sto per abbandonare tutto a causa di quello che hai detto ieri sera.»

Roran rimase in silenzio; era quello che voleva. Lasciare Carvahall era la cosa giusta da fare, e poiché si sarebbe dedicato anima e corpo a quell'impresa, non vedeva ragione di tormentarsi con sensi di colpa e rimpianti. La decisione è stata presa. Accetterò le conseguenze senza lamentarmi, anche se saranno durissime, perché questo è l'unico modo per sfuggire all'Impero.

«Ma» disse Horst, appoggiandosi su un gomito per rivolgere gli ardenti occhi neri su di lui, «ricorda che se la realtà non corrisponderà ai sogni di gloria che hai evocato, dovrai pagarne lo scotto. Se dai alle persone una speranza e poi gliela sottrai, ti distruggeranno.»

La prospettiva non turbava affatto Roran. Se riusciremo a raggiungere il Surda, saremo accolti come eroi dai ribelli. Quando capì che il fabbro aveva concluso, Roran gli chiese: «Dov'è Elain?»

Horst si accigliò per l'improvviso cambio d'argomento. «Fuori, sul retro.» Si alzò e si lisciò la tunica sulle spalle possenti. «Devo smantellare la fucina e decidere quali attrezzi portarmi dietro. Nasconderò o distruggerò il resto. L'Impero non approfitterà del mio lavoro.»

«Ti aiuto.» Roran spinse indietro la sedia.

«No» ribatte Horst in tono brusco. «Questo è un lavoro che posso fare soltanto con Albriech e Baldor. La fucina è tutta la mia vita, e la loro... E comunque, non mi saresti di grande aiuto con quel braccio. Resta qui. Puoi sempre dare una mano a Elain.»

Quando il fabbro se ne andò, Roran aprì la porta posteriore della cucina e trovò Elain che parlava con Gertrude vicino alla grande catasta di legna che Horst teneva alimentata tutto l'anno. La guaritrice si avvicinò a Roran e gli mise una mano sulla fronte. «Ah, temevo che ti venisse la febbre dopo tutti gli strapazzi di ieri. La tua famiglia ha una fibra straordinaria. Ancora ricordo come rimasi di stucco quando Eragon cominciò a camminare con quelle gambe tutte piagate dopo appena due giorni di letto.» Roran s'irrigidì sentendo nominare il cugino, ma lei parve non farci caso. «Vediamo coma va la spalla, d'accordo?»

Roran piegò il capo in avanti perché Gertrude potesse sciogliergli dietro al collo il nodo della benda che gli sosteneva il braccio. Abbassò adagio l'avambraccio destro immobilizzato con una stecca - fino a raddrizzare completamente l'arto. Gertrude infilò le dita nell'impiastro che gli aveva applicato sulla ferita e le tolse.

«Oh, santo cielo» disse lei.

Subito si diffuse un fetore acre e rancido. Roran strinse i denti per la nausea, poi abbassò lo sguardo verso la spalla. La pelle sotto l'impiastro era diventata bianca e spugnosa, come una gigantesca voglia del colore di una larva. Il morso era stato suturato mentre ancora era svenuto, perciò non vide altro che una linea rosa frastagliata incrostata di sangue. Per via del gonfiore e dell'infiammazione, il filo dei punti era affondato nella carne, che stillava gocce di siero. Gertrude fece schioccare la lingua mentre lo ispezionava, poi rifece la fasciatura e guardò Roran negli occhi. «Va abbastanza bene, ma i tessuti potrebbero infettarsi. Non so ancora dirlo con precisione. Se dovesse accadere, dovremo cauterizzare la ferita.»

Roran annuì. «Una volta guarito, il braccio tornerà come prima?»

«Purché il muscolo si rimargini a dovere. E dipende anche da quale uso vuoi farne. Tu...»

«Riuscirò a combattere?»

«Se vuoi combattere» disse Gertrude in tono sommesso, «ti suggerisco di usare la mano sinistra.» Gli diede un buffetto su una guancia, poi si avviò in fretta verso la sua capanna.

Il mio braccio. Roran fissò l'arto immobilizzato come se non gli appartenesse più. Fino a quel momento, non si era mai reso conto di quanto la sua identità fosse legata alle condizioni del suo corpo. Una ferita alla carne provocava una ferita alla psiche, e viceversa. Roran andava fiero del proprio fisico, e nel vederlo straziato ebbe paura, specie perché il danno era permanente. Se anche avesse recuperato l'uso del braccio, avrebbe per sempre portato una grossa cicatrice come memoria della ferita.

Prendendolo per mano, Elain lo ricondusse in casa, dove sminuzzò della menta in un bollitore che poi mise sulla stufa. «L'ami davvero, non è così?»

«Cosa?» Roran la guardò, confuso.

Elain si mise una mano sul pancione. «Katrina.» Sorrise. «Non sono cieca. Ho visto cos'hai fatto per lei, e sono orgogliosa di te. Non sono molti gli uomini che avrebbero fatto altrettanto.»

«Non conta niente, se non posso liberarla.»

Il bollitore cominciò a fischiare. «Lo farai, ne sono sicura... in un modo o nell'altro.» Elain versò l'infuso. «Sarà meglio cominciare a prepararci per il viaggio. Per prima cosa, mi occuperò della cucina. Tu, nel frattempo, va' di sopra e prendi tutta la biancheria e gli indumenti che pensi possano tornarci utili.»

«E dove li metto?» chiese Roran.

«In sala da pranzo andrà bene.»

Poiché le montagne erano troppo ripide e la foresta troppo fitta per i carri, Roran si rese conto che le provviste si dovevano limitare a quanto ciascuno poteva portare in spalla, o caricare sui due cavalli di Horst, anche se uno doveva restare abbastanza libero da lasciare spazio a Elain, quando il cammino le fosse diventato troppo difficoltoso, viste le sue condizioni.

A peggiorare la situazione, c'era il fatto che molte famiglie di Carvahall non avevano abbastanza animali da soma per trasportare sia le provviste che i bambini, i vecchi e i malati impossibilitati a tenere il passo a piedi. Tutti avrebbero dovuto condividere le risorse. Ma la domanda era: con chi? Ancora non sapevano chi sarebbe partito con loro, a parte Brigit e Delwin.

Quando Elain terminò di impacchettare tutti gli oggetti che riteneva necessari - soprattutto viveri e coperte - mandò Roran a chiedere se qualcuno aveva bisogno di altro spazio o, in caso contrario, se poteva chiederlo lei, perché aveva ancora tanti oggetti che avrebbe desiderato portare, ma che avrebbe altrimenti abbandonato.

Malgrado la gente che si affannava per le strade, Carvahall era immersa in un'immobilità forzata, una calma innaturale che smentiva le attività febbrili che fervevano all'interno delle case. Quasi tutti tacevano e camminavano a capo chino, immersi nei propri pensieri.

Quando Roran arrivò a casa di Orval, dovette picchiare il batacchio per quasi un minuto prima che il contadino andasse ad aprirgli. «Oh, sei tu, Fortemartello.» Orval uscì sul portico. «Scusami se ti ho fatto aspettare, ma ero occupato. In che cosa posso aiutarti?» Si batte la lunga pipa nera sul palmo, poi cominciò a rigirarsela nervosamente fra le dita. Dentro la casa, Roran sentì sedie spostate sul pavimento, e pentole e stoviglie che cozzavano fra loro. Roran spiegò in poche parole l'offerta di Elain e la sua richiesta. Orval alzò gli occhi al cielo e socchiuse le palpebre. «Credo di avere abbastanza spazio per la mia roba. Chiedi in giro, e se ancora vi serve spazio, ho una coppia di buoi che possono trasportare qualcosa in più.»

«Perciò tu verrai?»

Orval spostò il peso da un piede all'altro, con malcelato disagio. «Be', non ho detto questo. Ci stiamo solo... preparando, nel caso di un altro attacco.»

Perplesso, Roran si diresse a casa di Kiselt. Ben presto scoprì che nessuno voleva rivelare se aveva deciso di partire o meno, anche se i preparativi avvenivano alla luce del giorno.

Tutti trattavano Roran con una deferenza che il giovane trovò inquietante. Si manifestava in piccoli gesti: mormorii di cordoglio per la sua sventura, rispettosi silenzi quando parlava, cenni di assenso quando affermava qualcosa. Era come se le sue gesta avessero accresciuto la sua statura e intimidito le persone che conosceva fin da bambino, finendo per stabilire una grande distanza fra loro.

Sono marchiato, si disse, arrancando nel fango. Si fermò sull'orlo di una pozzanghera e si chinò per esaminare il suo riflesso, chiedendosi se poteva distinguere cosa lo rendeva così diverso.

Vide un uomo in abiti laceri e macchiati di sangue, con la schiena curva e un braccio appeso al collo. Il collo e le guance erano adombrati da una barba in crescita, mentre i capelli erano una matassa di ciocche aggrovigliate che gli circondavano la testa come un'aureola. Ma la cosa più spaventosa di tutte erano gli occhi, infossati nelle orbite, che gli davano l'aspetto di un fantasma. Da dentro quei due abissi torbidi, il suo sguardo ardeva come acciaio fuso, colmo di dolore, rabbia e ossessione.

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