Volodyk - Paolini2-Eldest

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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание

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È sorprendente ciò che gli elfi riescono a fare, disse.

Saphira tese il collo, poi sollevò la testa fino ad appiattirla contro il soffitto, in ascolto. Faresti meglio a chiudere anche lo studio; il vento sta mandando tutto a soqquadro.

Mentre Eragon saliva le scale, l'albero sussultò, e lui barcollò urtando un ginocchio.

«Maledizione» ringhiò.

Lo studio era un tornado di fogli e penne, che volavano da tutte le parti come dotati di volontà propria. Eragon si tuffò nel caos con le braccia intorno alla testa e la sensazione di trovarsi sotto una sassaiola quando le punte delle penne lo colpivano.

Lottò con tutte le sue forze per chiudere il portale superiore senza l'aiuto di Saphira. Nel momento in cui ci riuscì, il dolore - uno smisurato, devastante dolore - gli spezzò la schiena.

Lanciò un grido straziato che gli bruciò la gola. La vista gli si annebbiò di macchie rosse e gialle, poi sfumò nel nero più assoluto, mentre cadeva di fianco. Sentì Saphira di sotto che ululava di frustrazione; la scala era troppo piccola e, fuori il vento era troppo violento perché lei tentasse di raggiungerlo. Il suo legame con lei si assottigliò. Eragon si arrese alle tenebre come una liberazione dalla sua agonia.

Si ridestò con un sapore amaro in bocca. Non sapeva quanto tempo era rimasto raggomitolato sul pavimento, ma i muscoli delle braccia e delle gambe gli dolevano per essere stati troppo a lungo contratti. La tempesta squassava ancora l'albero, accompagnata da una pioggia battente che andava di pari passo con il martellare che gli pulsava nella testa.

Saphira...?

Sono qui. Vieni giù?

Ci provo.

Si sentiva troppo debole per alzarsi sul pavimento ondeggiante, così strisciò fino alle scale e si lasciò scivolare un gradino alla volta, fremendo a ogni contraccolpo. A metà strada, incontrò Saphira, che aveva infilato la testa e il collo nella tromba delle scale, scheggiando il legno nella fretta.

Piccolo mio. La dragonessa fece guizzare la lingua e gli sfiorò la mano con la punta ruvida. Lui sorrise. Allora lei inarcò il collo per ritrarsi, ma non ci riuscì.

Che succede?

Sono incastrata.

Sei... Eragon non riuscì a trattenersi; scoppiò a ridere anche se gli faceva male. La situazione era troppo assurda. Lei ringhiò e inarcò tutto il corpo, scuotendo l'albero con i suoi sforzi e mandando Eragon a gambe all'aria. Alla fine crollò sfinita. Be', non startene seduto lì a sogghignare come una volpe idiota. Aiutami!

Combattendo contro l'impulso di ridacchiare, Eragon le mise un piede sul naso e cominciò a spingere il più forte possibile, mentre Saphira si torceva e si dimenava nel tentativo di liberarsi.

Ci vollero dieci minuti buoni perché il tentativo riuscisse. Soltanto allora Eragon si accorse dell'entità del danno alle scale. Si lasciò sfuggire un gemito. Le squame della dragonessa avevano inciso profondamente la corteccia e cancellato i delicati disegni che crescevano dal legno.

Oops, disse Saphira.

Se non altro sei stata tu, non io. Gli elfi ti perdoneranno. Canterebbero ballate d'amore dei nani notte e giorno, se solo tu glielo chiedessi.

Si sistemò con Saphira sulla pedana e si accoccolò contro le squame lisce del suo ventre, ascoltando la tempesta che infuriava intorno a loro. La grande membrana diventava translucida ogni volta che un fulmine illuminava la notte con la sua traiettoria serpeggiante.

Secondo te che ore sono?

Manca ancora parecchio al nostro appuntamento con Oromis. Coraggio, dormi e riprenditi. Veglierò su di te. Lui non si fece pregare due volte e si addormentò, nonostante i sussulti dell'albero.

Perché combatti?

Il segnatempo di Oromis squillò come un corno gigantesco, assordando le orecchie di Eragon, finché lui non si decise a prenderlo e a caricare di nuovo il meccanismo. Il ginocchio gli era diventato viola, ma gli doleva tutto il corpo, sia per la crisi che lo aveva aggredito, sia per la Danza del Serpente e della Gru; per giunta, non riusciva a emettere che suoni gracchianti con la gola irritata. Ma la cosa peggiore era il terribile presentimento che non sarebbe stata l'ultima volta che la ferita di Durza lo avrebbe tormentato.

Sono passate tante settimane dall'ultima crisi, disse, e cominciavo a sperare, soltanto sperare, di essere guarito... Immagino che solo per un puro caso io sia stato risparmiato così a lungo.

Allungando il collo, Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Sai di non essere solo, piccolo mio. Farò qualsiasi cosa per aiutarti. Lui rispose con un flebile sorriso. Lei gli leccò la faccia e aggiunse: Dovresti prepararti per uscire. Lo so. Eragon guardò il pavimento, senza alcuna voglia di alzarsi, poi si trascinò nel camerino da bagno, dove si lavò e usò la magia per radersi.

Si stava asciugando, quando sentì una presenza toccargli la mente. Senza soffermarsi a riflettere, Eragon cominciò a innalzare barriere mentali, concentrandosi sull'immagine del suo alluce con l'esclusione di tutto il resto. Poi sentì Oromis che diceva: Ammirevole, ma inutile. Porta con te Zar'roc, oggi. La presenza svanì.

Eragon si rilassò con un sospiro tremante. Devo stare più attento, disse a Saphira. Se fosse stato un nemico, sarei stato alla sua mercé.

Non con me nei dintorni.

Quando ebbe finito le sue abluzioni, Eragon sganciò la membrana dalla parete e montò su Saphira, tenendo Zar'roc stretta nell'incavo del gomito.

Saphira spiccò il volo e puntò subito verso la rupe di Tel'naeir. Dall'alto videro i danni che la tempesta aveva provocato nella Du Weldenvarden. A Ellesméra non era caduto alcun albero, ma in lontananza, dove la magia degli elfi era più debole, numerosi pini erano stati abbattuti. Il vento residuo faceva cozzare i rami e i tronchi, producendo un sonoro coro di gemiti e scricchiolii. Nuvole di polline dorato, denso come polvere, scorrevano dagli alberi e dai fiori. Mentre volavano, Eragon e Saphira si scambiarono ricordi delle lezioni separate del giorno prima. Lui le raccontò quello che aveva imparato sulle formiche e sull'antica lingua, e lei gli parlò delle correnti discendenti e degli altri fenomeni meteorologici pericolosi, e di come evitarli.

Così, quando atterrarono e Oromis interrogò Eragon sulle lezioni di Saphira, e Glaedr interrogò Saphira su quelle di Eragon, riuscirono entrambi a rispondere correttamente a ogni domanda.

«Molto bene, Eragon-vodhr.»

Già. Benfatto, Bjartskular, disse Glaedr a Saphira.

Ancora una volta, Saphira volò via insieme a Glaedr, mentre Eragon rimase sulla rupe, anche se questa volta lui e Saphira badarono a mantenere il contatto per assorbire le lezioni dell'altro.

Quando i draghi si allontanarono, Oromis osservò: «Oggi hai la voce roca, Eragon. Sei ammalato?» «La schiena mi ha fatto di nuovo male, stamattina.»

«Ah. Hai tutta la mia compassione.» Gli fece un cenno con l'indice. «Aspetta qui.»

Eragon guardò Oromis entrare nel capanno e tornare con aria fiera e guerresca, la capigliatura d'argento che fluttuava nel vento, e la spada color bronzo in mano. «Oggi» disse «metteremo da parte la Rimgar e incroceremo le nostre due lame, Naegling e Zar'roc. Sfodera la tua spada e smussa la lama come ti ha insegnato il tuo primo maestro.» Eragon avrebbe voluto rifiutarsi, ma non aveva alcuna intenzione di infrangere la promessa o di mostrarsi timoroso davanti a Oromis. Inghiottì la sua trepidazione. Questo significa essere un Cavaliere, pensò.

Attingendo alle sue riserve, localizzò nel profondo della mente il nucleo che lo collegava al selvaggio flusso della magia. Vi entrò, e l'energia lo soffuse. «Géuloth du knìfr» disse, e una tremolante stella azzurra gli guizzò fra il pollice e l'indice, saltando dall'uno all'altro mentre lui li faceva scorrere lungo il filo pericoloso di Zar'roc.

Nell'istante in cui le due spade s'incrociarono, Eragon capì di essere inferiore a Oromis, come lo era stato rispetto a Durza e ad Arya. Era uno spadaccino umano straordinario, ma non poteva competere con guerrieri dal sangue denso di magia. Il suo braccio era troppo debole, i suoi riflessi troppo lenti. Eppure questo non gli impedì di provare a vincere. Si battè ai limiti delle sue possibilità, anche se alla fine si rivelò un futile tentativo.

Oromis lo mise alla prova in ogni modo possibile, costringendolo a utilizzare il suo intero arsenale di colpi, reazioni e finte. Tutto inutile. Non riuscì mai nemmeno a toccare l'elfo. Come ultima risorsa, cercò di variare il suo stile di combattimento, perché questo poteva disorientare anche il più incallito dei veterani. Non ottenne altro che una violenta botta su una coscia.

«Muovi i piedi più in fretta» gridò Oromis. «Chi resta fermo come un pilastro, muore in battaglia. Chi si piega come una canna, trionfa!»

L'elfo in azione era uno spettacolo, una perfetta miscela di controllo e violenza. Saltava come un gatto, colpiva come un airone e si destreggiava per schivare gli attacchi con la grazia di un furetto.

Si stavano allenando da una ventina di minuti quando Oromis esitò, i lineamenti affilati contratti in una smorfia fugace. Eragon riconobbe i sintomi della misteriosa malattia di Oromis e roteò Zar'roc per colpire. Sapeva che era una cosa meschina, ma si sentiva così frustrato da voler approfittare di quell'occasione, per quanto scorretta, solo per avere la soddisfazione di toccare Oromis almeno una volta.

Zar'roc non raggiunse mai il suo bersaglio. Nel voltarsi, Eragon si stirò la schiena.

Il dolore lo aggredì senza preavviso. L'ultima cosa che sentì fu Saphira che gridava: Eragon!

Nonostante l'intensità del dolore, Eragon rimase cosciente durante tutta la crisi. Non era consapevole di quanto aveva intorno, ma soltanto del fuoco che gli bruciava le carni e prolungava ogni secondo in un'eternità. La cosa peggiore era che non poteva far niente per porre fine a quello strazio, se non aspettare...

... e aspettare...

Eragon giaceva ansante nel fango. Battè le palpebre per rimettere a fuoco la vista e vide Oromis seduto su uno sgabello accanto a lui. Alzandosi su un ginocchio, si guardò la tunica nuova con un misto di rammarico e disgusto: la raffinata stoffa color ruggine era incrostata di sudiciume per le sue convulsioni sul terreno. Aveva perfino i capelli insozzati.

Percepì Saphira nella sua mente, che irradiava angoscia nell'attesa che lui la notasse. Come puoi continuare così? gli disse. Ti distruggerà.

La sua apprensione minò gli ultimi residui di fermezza di Eragon. Saphira non aveva mai dubitato del suo successo, non a Dras-Leona, non a Gil'ead o nel Farthen Dùr, né davanti ad alcun pericolo che avevano incontrato. La sua fiducia gli aveva infuso coraggio. Senza di essa, Eragon ebbe davvero paura.

Dovresti concentrati sulla tua lezione, le disse.

Devo concentrarmi su di te.

Lasciami in pace! Il suo tono brusco era quello di un animale ferito che desidera leccarsi le ferite nel silenzio e nel buio. Lei tacque, mantenendo un labile contatto mentale sufficiente perché lui potesse vagamente sentire Glaedr che le parlava dell'epilobio, una pianta utile da masticare per facilitare la digestione.

Eragon si tolse frammenti di fango secco dai capelli, poi sputò un grumo di sangue. «Mi sono morso la lingua.» Oromis annuì come se già lo sapesse. «Hai bisogno di guarirti?»

«No.»

«Molto bene. Recupera la spada, poi lavati e vai al ceppo nella conca, per ascoltare i pensieri della foresta. Ascolta, e quando non sentirai più niente, torna da me a raccontarmi cosa hai imparato.»

«Sì, maestro.»

Seduto sul ceppo, Eragon scoprì che il groviglio turbolento di pensieri ed emozioni gli impediva di concentrarsi abbastanza da aprire la mente e percepire le creature della conca. Né aveva voglia di farlo.

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