Volodyk - Paolini2-Eldest

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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание

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«Eragon, suppongo.»

«No. No. Ti chiamerebbe nano, perché un nano sciaresti per lui.» Orik ridacchiò e diede di gomito a Eragon nelle costole. «Capisci? Gli umani e gli elfi sciono i giganti. La terra pullula di giganti, che calpestano tutto con i loro enormi piedi, oscurandoci con le loro ombre sconfinate.» Continuò a ridere, dondolandosi sulla sedia fino a perdere l'equilibrio. Cadde sul pavimento con un tonfo sonoro.

Aiutandolo ad alzarsi, Eragon disse: «Credo che sia meglio se resti qui per stanotte. Non sei in condizioni di scendere le scale nel buio.»

Orik accettò con allegra indifferenza. Permise a Eragon di sfilargli la cotta di maglia e di farlo rotolare su un lato del letto. Infine Eragon sospirò, schermò le luci e si distese sul suo lato del materasso.

Si addormentò con la voce del nano che borbottava in sottofondo: «... Vedrà... Vedrà... Vedrà...»

La natura del male

Il radioso mattino arrivò troppo presto. Strappato al sonno dall'improvviso ronzio del segna tempo, Eragon balzò dal letto col pugnale in mano, pronto a sventare un attacco. Boccheggiò di dolore quando il corpo protestò per gli abusi che aveva subito negli ultimi due giorni.

Ricacciando indietro le lacrime, Eragon ricaricò il segnatempo. Orik non c'era; il nano doveva essersene andato alla chetichella alle prime luci dell'alba. Gemendo come un vecchio afflitto dai reumatismi, Eragon si avviò riluttante verso lo stanzino da bagno.

Lui e Saphira aspettarono per dieci minuti ai piedi dell'albero prima di veder arrivare un elfo con l'aria solenne e lunghi capelli neri. L'elfo s'inchinò e si portò due dita alle labbra - gesto che Eragon ricambiò - poi lo anticipò dicendo: «Che la fortuna vi assista.»

«E che le stelle ti proteggano» rispose Eragon. «Ti manda Oromis?»

L'elfo lo ignorò e si rivolse a Saphira. «Piacere di conoscerti, dragonessa. Io sono Vanir del Casato di Haldthin.» Eragon si accigliò, irritato.

Il piacere è mio, Vanir.

Soltanto allora l'elfo si rivolse a Eragon. «Ti mostrerò dove allenarti con la spada.» S'incamminò a grandi passi, senza aspettare che Eragon lo raggiungesse.

Il campo di allenamento era gremito di elfi di entrambi i sessi che combattevano a coppie o in gruppo. Le loro straordinarie capacità fisiche si manifestavano in un turbinio di colpi così fluidi e scattanti da risuonare come una pioggia di grandine su una campana di ferro. Sotto gli alberi che orlavano il campo, elfi solitari eseguivano la Rimgar con più grazia e flessibilità di quanta Eragon avrebbe mai potuto sperare di ottenere.

Dopo che tutti si furono fermati per inchinarsi a Saphira, Vanir estrasse la sua spada sottile e disse: «Se vuoi smussare la tua lama, Mano d'Argento, possiamo cominciare.»

Eragon osservava con trepidazione la prodigiosa maestria degli altri elfi con la spada. Perché devo farlo? disse. Sarò umiliato.

Andrà tutto bene, lo rassicurò Saphira, anche se il giovane avvertì la sua apprensione.

Giusto.

Mentre preparava Zar'roc, le sue mani tremavano di paura. Invece di gettarsi a capofitto nel duello, combattè contro Vanir a distanza, schivando, scartando di lato e facendo il possibile per evitare un'altra crisi. Malgrado le manovre diversive di Eragon, Vanir lo toccò quattro volte in rapida successione: sul torace, su uno stinco e su tutte e due le spalle.

L'iniziale espressione di impassibile stoicismo di Vanir si trasformò ben presto in manifesto disprezzo. Con un movimento dei piedi simile a un passo di danza, fece scivolare la sua lama sulla lunghezza di Zar'roc, poi la fece roteare torcendo il polso di Eragon. Eragon preferì lasciare la presa piuttosto che resistere alla forza superiore dell'elfo. Vanir calò la sua spada sul collo di Eragon e disse: «Morto.» Liberandosi dalla lama con una scrollata di spalle, Eragon si chinò a raccogliere Zar'roc. «Sei morto» ripetè Vanir. «Come pensi di sconfiggere Galbatorix in questo modo? Mi aspettavo di meglio, anche se da un umano debosciato.»

«Perché non vai tu a combattere Galbatorix, invece di nasconderti nella Du Weldenvarden?»

Vanir s'irrigidì, oltraggiato. «Perché» rispose, gelido e sprezzante, «non sono un Cavaliere. Se lo fossi, non sarei un codardo come te.»

Nessuno si mosse o parlò sul campo.

Con la schiena rivolta a Vanir, Eragon raccolse Zar'roc e alzò la testa al cielo. Non sa niente. Questa è soltanto un'altra prova da superare.

«Codardo, ho detto. Il tuo sangue è annacquato come nel resto della tua razza. Credo che Saphira sia stata sviata dalle astuzie di Galbatorix e abbia fatto la scelta sbagliata per il suo Cavaliere.» Gli altri elfi trasalirono alle parole di Vanir, e borbottarono fra loro per quella gravissima infrazione di etichetta. Eragon digrignò i denti. Poteva sopportare gli insulti diretti a lui, ma non a Saphira. La dragonessa si stava già muovendo quando le frustrazioni, la paura e la rabbia represse esplosero dentro di lui. Eragon si volse di scatto, fendendo l'aria con la punta di Zar'roc. Il colpo avrebbe ucciso Vanir, se questi non lo avesse parato all'ultimo istante. Parve sorpreso dalla ferocia dell'attacco. Senza risparmiarsi, Eragon spinse Vanir al centro del campo, menando affondi e fendenti come un ossesso, deciso a ferire l'elfo a ogni costo. Colpì il fianco di Vanir abbastanza da fargli uscire il sangue, nonostante la lama smussata di Zar'roc.

In quel preciso istante, la schiena di Eragon si spezzò in un'esplosione di dolore che lui sperimentò con tutti e cinque i sensi: una scrosciante cascata che gli assordò le orecchie; un sapore metallico che gli ricoprì la lingua; un odore acido e pungente che gli riempì le narici, acre come l'aceto; una galassia di colori pulsanti; e soprattutto la sensazione che Durza gli avesse appena squarciato la schiena.

Vide Vanir torreggiare su di lui con un sorriso di scherno. Un istante prima di sprofondare nel buio, pensò che Vanir era molto giovane.

Ripresosi dall'attacco, Eragon si asciugò il sangue dalla bocca con la mano e lo mostrò a Vanir, dicendo: «Ti sembra abbastanza annacquato?» Vanir non si degnò di rispondere, ma rinfoderò la spada e fece per allontanarsi. «Dove credi di andare?» lo chiamò Eragon. «Non abbiamo ancora finito, tu e io.»

«Non sei in condizioni di duellare» sbuffò l'elfo.

«Mettimi alla prova.» Eragon poteva essere inferiore agli elfi, ma si rifiutava di dar loro la soddisfazione di confermare le loro scarse aspettative su di lui. Si sarebbe guadagnato il loro rispetto con la perseveranza, se non altro. Insistette per completare l'ora di allenamento che Oromis gli aveva assegnato, poi Saphira marciò minacciosa verso Vanir e lo toccò sul petto con la punta di un artiglio d'avorio. Morto, disse. Vanir impallidì. Gli altri elfi si scostarono da lui.

Una volta in aria, Saphira disse: Oromis aveva ragione.

Su cosa?

Che ti saresti impegnato al massimo con un degno avversario.

Giunti al capanno di Oromis, la giornata si svolse come al solito: Saphira accompagnò Glaedr per la sua lezione, mentre Eragon rimase con Oromis.

Eragon rimase sgomento quando Oromis pretese che eseguisse la Rimgar dopo l'estenuante esercizio cui era stato sottoposto. Ci volle tutto il suo coraggio per obbedire. La sua apprensione si rivelò inutile, poiché la Danza del Serpente e della Gru era troppo delicata per fargli male.

Inoltre la meditazione nella conca isolata gli fornì la prima occasione della giornata per mettere ordine nei propri pensieri e riflettere sulla domanda che Oromis gli aveva posto.

Nel frattempo osservò le formiche rosse invadere un piccolo formicaio rivàle, travolgendo i suoi abitanti e depredandoli delle loro risorse. Alla fine del massacro, soltanto un pugno di formiche avversarie erano rimaste in vita, sole e smarrite nella vasta e ostile landa di aghi di pino.

Come i draghi in Alagaèsia, pensò Eragon. Il suo legame con le formiche si dissolse mentre rifletteva sull'infelice destino dei draghi; e a poco a poco gli si rivelò la risposta al quesito, una risposta che riteneva più che valida, una risposta in cui sentiva di credere profondamente.

Concluse la seduta di meditazione e tornò al capanno. Questa volta Oromis parve piuttosto soddisfatto di quello che Eragon era riuscito a compiere. Mentre Oromis serviva il pranzo, Eragon disse: «So perché è giusto combattere Galbatorix, anche se potrebbe significare la morte di migliaia di persone.»

«Davvero?» Oromis si sedette. «Dimmi pure.»

«Perché Galbatorix ha causato più sofferenze negli ultimi cento anni di quante ne potremmo mai vedere in una sola generazione. E diversamente da un qualsiasi tiranno, non possiamo aspettare che muoia. Potrebbe governare per secoli, o millenni, continuando a perseguitare e tormentare il popolo, se non lo fermiamo. Se diventasse abbastanza forte, potrebbe marciare sui nani, o persino qui nella Du Weldenvarden, e uccidere o sottomettere entrambe le razze. E...» Eragon strofinò la base del palmo contro il bordo del tavolo, «... perché sottrargli le due uova che possiede è l'unico modo per salvare i draghi.»

Il bollitore cominciò a fischiare, sempre più stridente, tanto che a Eragon ronzavano le orecchie. Oromis si alzò per togliere il bollitore dal fuoco e versò l'acqua per l'infuso di more. Le rughe intorno ai suoi occhi si addolcirono. «Adesso» disse «hai capìto.»

«Ho capìto, ma non mi da alcuna gioia.»

«Ed è giusto che sia così. Ma adesso avremo la garanzia che non ti ritirerai dalla lotta, quando assisterai alle ingiustizie e alle atrocità che i Varden inevitabilmente commetteranno. Non possiamo permetterci che ti lacerino i dubbi nel momento in cui la tua forza e la tua concentrazione sono più necessari.» Oromis appoggiò i gomiti sul tavolo e giunse i polpastrelli, con lo sguardo fisso sullo specchio ;' scuro del suo infuso, contemplando chissà cosa nei suoi tenebrosi riflessi. «Tu credi che Galbatorix sia malvagio?» •

«Assolutamente!» «E credi che lui si consideri malvagio?» «No, ne dubito.»

Oromis tamburellò le dita fra loro. «Quindi credi anche che Durza fosse malvagio.»

Gli tornarono in mente i frammenti di memorie che aveva intravvisto nella mente di Durza mentre combattevano a Tronjheim, ricordandogli come il giovane Spettro Carsaib, all'epoca - era stato ridotto in schiavitù dagli spiriti che aveva evocato per vendicare la morte del suo mentore, Haeg. «Non era malvagio lui, ma gli spiriti che lo controllavano.»

«E gli Urgali?» continuò Oromis, bevendo un sorso di té. «Sono malvagi?»

Le nocche di Eragon sbiancarono quando strinse il cucchiaio. «Quando penso alla morte, vedo il muso di un Urgali. Sono peggio delle bestie. Le cose che hanno fatto...» Scrollò il capo, incapace di proseguire. «Eragon, che opinione ti faresti degli umani se li dovessi giudicare soltanto dalle azioni dei guerrieri sul campo di battaglia?» «Non è...» Trasse un profondo respiro. «È diverso. Gli Urgali meritano di essere spazzati via, fino all'ultimo.» «Anche le donne e i bambini? Quelli che non ti hanno mai fatto del male e mai te ne farebbero? Gli innocenti? Li stermineresti, condannando l'intera razza all'estinzione?»

«Loro non ci risparmierebbero mai, se ne avessero l'occasione.»

«Eragon!» esclamò Oromis, in tono aspro. «Non voglio mai più sentirti usare una simile scusa, che siccome qualcuno ha fatto o farebbe una cosa, tu puoi fare altrettanto. È spregevole, meschino, indizio di una mente inferiore. Sono stato chiaro?»

«Sì, maestro.»

L'elfo si portò la tazza alle labbra e bevve, continuando a tenere lo sguardo fisso su Eragon. «Cosa sai degli Urgali in realtà?»

«Conosco le loro forze e le loro debolezze, e so come ucciderli. So quanto mi basta di sapere.»

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