Volodyk - Paolini2-Eldest
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«Dei Cavalieri del passato resta soltanto Oromis con Glaedr. Brom e molti altri sono entrati nel vuoto nell'ultimo secolo. Tuttavia una nuova speranza ci è giunta con Eragon e Saphira, ed è più che giusto che loro siano qui adesso, mentre celebriamo il giuramento fra le nostre razze.»
A un cenno della regina, gli elfi sgombrarono una vasta area della radura intorno all'albero di Menoa. Lungo il perimetro, conficcarono nel terreno lunghi pali intagliati da cui pendevano delle lanterne, mentre musici con flauti, arpe e tamburi si disponevano lungo un'alta radice. Guidato da Arya ai bordi del cerchio, Eragon si ritrovò seduto fra lei e Oromis, mentre Saphira e Glaedr erano appostati ai loro lati come statue tempestate di gemme.
Rivolto a Eragon e Saphira, Oromis disse: «Osservate con attenzione, perché questo sarà molto importante per la vostra eredità di Cavalieri.»
Quando tutti gli elfi si furono acquietati, due fanciulle elfiche avanzarono al centro dello spiazzo libero, dandosi la schiena. Erano di una bellezza straordinaria, e identiche in ogni dettaglio, tranne i capelli: una aveva la chioma nera come un pozzo senza fondo, mentre i capelli dell'altra rilucevano come filigrana d'argento.
«Le Custodi, Iduna e Néya» mormorò Oromis.
Dalla spalla di Islanzadi, Blagden gracchiò: «Wyrda!»
Muovendosi all'unisono, le due elfe portarono le mani alle spille che serravano i lembi dei loro bianchi mantelli sotto la gola, le aprirono, e la stoffa impalpabile si afflosciò ai loro piedi. Malgrado fossero nude, le due donne erano coperte dall'iridescente tatuaggio di un drago. Il tatuaggio cominciava con la coda del drago avvolta intorno alla caviglia sinistra di Iduna, le risaliva lungo il polpaccio e la coscia, le passava intorno al busto e continuava sulle spalle di Nèya, e terminava sul suo petto, dove si adagiava la testa del drago. Ogni singola squama era dipinta con un colore diverso; le vibranti sfumature conferivano al tatuaggio l'aspetto di un arcobaleno.
Le fanciulle intrecciarono le mani e le braccia, affinchè il drago apparisse integro, serpeggiando da un corpo all'altro senza interruzioni. Poi alzarono entrambe un piede nudo e lo pestarono sul terreno solido con un soffice thump. E di nuovo: thump.
Al terzo thump, i musici batterono i tamburi seguendo la cadenza. Ancora un thump, e gli arpisti pizzicarono le corde dei loro strumenti dorati; un momento dopo, gli elfi con i flauti si unirono alla pulsante melodia.
Dapprima lente, poi sempre più veloci, Iduna e Néya cominciarono a danzare, segnando il tempo con i piedi sul terreno e ondeggiando in maniera tale da dare la sensazione che non fossero loro a muoversi, ma il drago tatuato sui loro corpi. Giravano in tondo, e il drago tracciava infinite spirali sulla loro pelle.
Quando le gemelle aggiunsero le loro voci alla musica, superando il ritmo martellante con grida feroci, le loro parole evocarono un incantesimo così complesso che il suo significato sfuggì a Eragon. Come il vento turbinante che precede una tempesta, le elfe accompagnarono la magia cantando con una sola voce, una sola mente e un solo intento. Eragon non conosceva le parole, ma si scoprì a mormorarle insieme agli elfi, catturato dall'inesorabile cantilena. Sentì Saphira e Glaedr che mormoravano a labbra chiuse, una profonda vibrazione così potente da riverberargli nelle ossa, da fargli formicolare la pelle e da scuotere l'aria.
Sempre più veloci volteggiavano Iduna e Nèya, finché i loro piedi non scomparvero in una nube di polvere, e le loro mani guizzavano come farfalle, madide di sudore. Le elfe accelerarono fino a raggiungere una velocità sovrumana, e la musica culminò in una frenesia di versi cantati. A un tratto, un lampo di luce attraversò tutta la lunghezza del drago tatuato, dalla testa alla coda, ed esso si risvegliò. Lì per lì Eragon pensò che fosse un'allucinazione, finché la creatura non sbattè le palpebre, dispiegò le ali e mosse gli artigli.
Una vampa di fuoco eruttò dalle fauci del drago, che balzò avanti, staccandosi dalla pelle delle elfe. Si librò in aria, dove rimase sospeso agitando le ali. Soltanto la punta della coda restava ancora collegata alle gemelle, come uno scintillante cordone ombelicale. La bestia gigantesca allungò il collo verso la luna nera e liberò un ruggito selvaggio di epoche remote, poi si volse e scrutò l'assemblea.
Quando gli occhi sinistri del drago si posarono su di lui, Eragon capì che la creatura non era una semplice apparizione, ma un essere senziente, legato alla magia e alimentato da essa. Il mormorio di Saphira e di Glaedr divenne sempre più forte, fino a colmare le orecchie di Eragon. In alto, il fantasma della loro razza calò in circolo sugli elfi, sfiorandoli con le sue ali impalpabili. Si fermò davanti a Eragon, abbracciandolo in uno sguardo sconfinato e vorticoso. Spinto da un irrefrenabile impulso, Eragon alzò la mano destra, con il palmo che gli formicolava.
Nella sua mente risuonò una voce di fuoco. Il nostro dono, affinchè tu compia ciò che devi.
Il drago piegò il collo e con il muso toccò il centro del gedwéy ignasia di Eragon. Una scintilla sprizzò fra di loro, ed Eragon s'irrigidì, mentre un calore incandescente gli pervadeva tutto il corpo, consumandolo. Lampi rossi e neri lo accecarono, e la cicatrice sulla schiena gli bruciò, come marchiata a fuoco. Cercò la salvezza sprofondando in se stesso, dove le tenebre lo avvolsero e lui non ebbe più la forza di resistere.
L'ultima cosa che udì fu la voce di fuoco che diceva: Il nostro dono per te.
In una radura stellata
Eragon si trovò solo al suo risveglio. Aprì gli occhi per fissare il soffitto intagliato della casa sull'albero che lui e Saphira condividevano. Fuori era ancora notte, e il clamore dei festeggiamenti elfici risaliva dalla città scintillante. Prima che notasse altro, Saphira gli entrò nella mente, irradiando apprensione e ansia. Gli arrivò un'immagine di lei al fianco di Islanzadi, sotto l'albero di Menoa; poi la dragonessa gli chiese: Come stai?
Mi sento... bene. Anzi, meglio di quanto non mi sia sentito da un po' di tempo a questa parte. Quanto ho... Soltanto un'ora. Sarei rimasta con te, ma avevano bisogno di Oromis, Glaedr e me per completare la cerimonia. Avresti dovuto vedere la reazione degli elfi quando sei svenuto. Non era mai successo nulla del genere prima d'ora. Sei stata tu, Saphira?
Non è stata soltanto opera mia, o di Glaedr. Le memorie della nostra razza, che hanno preso forma e sostanza grazie alla magia degli elfi, ti hanno infuso le capacità che possediamo noi draghi, poiché tu sei la nostra unica speranza per evitare l'estinzione.
Non capisco.
Guardati allo specchio, suggerì lei. Poi riposati, e all'alba tornerò da te.
Il contatto mentale si dissolse, ed Eragon si alzò in piedi e si stiracchiò, sorpreso dal grande benessere che lo pervadeva. Si recò nel camerino da bagno e prese lo specchio che usava per radersi, portandolo vicino a una lanterna per guardarsi alla luce.
Rimase impietrito.
Era come se le varie alterazioni fisiche che col tempo mutavano l'aspetto di un Cavaliere umano - e che Eragon aveva già cominciato a sperimentare da quando si era legato a Saphira - si fossero completate mentre era svenuto. Il suo volto era liscio e affinato come quello di un elfo, le orecchie appuntite come le loro e gli occhi a mandorla come i loro; la pallida pelle di alabastro emanava un tenue chiarore, come se fosse la lucentezza della magia. Sembro un principe. Eragon non aveva mai usato il termine bellissimo per un uomo, men che mai per se stesso, ma adesso l'unica parola adatta a descriverlo era quella. Eppure non era ancora interamente un elfo. La sua mascella era più pronunciata, la fronte più sporgente, il viso più largo. Era più bello di qualsiasi umano, e più virile di qualsiasi elfo. Con dita tremanti, Eragon si tastò la nuca in cerca della cicatrice.
Non sentì niente.
Si strappò di dosso la tunica e si voltò per esaminarsi allo specchio. La sua schiena era liscia come prima della battaglia del Farthen Dùr. Gli vennero le lacrime agli occhi, mentre faceva scorrere la mano lì dove Durza gli aveva inferto il colpo. In quel momento capì che la schiena non l'avrebbe più tormentato.
Non solo era scomparsa l'infame piaga che aveva scelto di tenere, ma anche tutti gli altri sfregi e le cicatrici, lasciando il suo corpo intatto come quello di un neonato. Eragon si passò un dito sul polso dove si era tagliato affilando la falce di Garrow. Non restava alcuna traccia della ferita. Anche le vaste cicatrici delle piaghe che si era procurato all'interno delle cosce durante il suo primo volo con Saphira erano scomparse. Per un momento, le rimpianse come ricordo della sua vita, ma il rimpianto durò poco quando si rese conto che ogni ferita che aveva subito, anche se piccola, era stata cancellata.
Sono diventato quello che era destino che fossi, pensò, e trasse un profondo respiro di aria inebriante. Posò lo specchio sul letto e indossò i suoi abiti migliori: una tunica cremisi cucita con fili d'oro; una cintura borchiata di giada bianca; caldi gambali felpati; un paio di stivali di stoffa, i preferiti dagli elfi; e i bracciali di cuoio che gli avevano donato i nani.
Eragon scese dall'albero e vagò tra le ombre di Ellesméra, osservando gli elfi che festeggiavano nella febbre della notte. Nessuno di loro lo riconobbe, anche se lo salutarono come fosse uno di loro e lo invitarono a unirsi ai bagordi. Eragon si sentiva fluttuare in uno stato di acuta consapevolezza, i sensi vibranti per le nuove visioni, i nuovi suoni, i nuovi odori, le nuove sensazioni che lo assalivano. Riusciva a vedere nel buio dove prima sarebbe stato cieco. Poteva toccare una foglia e, soltanto col tatto, contare ogni singolo pelo che la ricopriva. Era in grado di identificare ogni odore che gli aleggiava intorno con l'olfatto di un lupo o di un drago. E poteva sentire i passi dei topi nel sottobosco, e il rumore prodotto da una falda di corteccia che cadeva a terra; lo stesso battito del suo cuore era come il rullare di un tamburo.
I suoi vagabondaggi lo condussero oltre l'albero di Menoa, dove si fermò a osservare Saphira in mezzo ai festeggiamenti, anche se non si rivelò ai presenti nella radura.
Dove vai, piccolo mio? gli chiese la dragonessa.
Eragon vide Arya alzarsi dal suo posto accanto alla madre, farsi strada fra gli elfi e poi, come uno spirito della foresta, dileguarsi fra gli alberi. Cammino fra la candela e il buio, rispose lui, e seguì Arya.
Eragon rintracciò Arya seguendo il suo delicato profumo di aghi di pino, il lieve fruscìo prodotto dal contatto dei suoi piedi sul terreno e il mutamento nell'aria lasciato dalla sua scia. La trovò ferma, sola, ai margini di una piccola radura, come una creatura selvatica che osservasse le costellazioni muoversi nel cielo.
Quando Eragon uscì allo scoperto, Arya lo guardò stupita, come se lo vedesse per la prima volta. L'elfa spalancò gli occhi, e sussurrò: «Eragon, sei tu?»
«Sì.»
«Cosa ti hanno fatto?»
«Non lo so.»
Lui si avvicinò, e insieme passeggiarono nella fitta boscaglia, che riecheggiava di musica e voci del festino lontano. Grazie al suo cambiamento, Eragon avvertiva ancora più forte la presenza di Arya, il fruscìo degli abiti sulla sua pelle, il pallido e morbido incavo del collo, e le sue ciglia ricoperte da uno strato d'olio che le rendeva lucide e curve come petali neri bagnati di pioggia.
Si fermarono sulla riva di un piccolo torrente così limpido da essere invisibile nella fioca luce. L'unico indizio che tradiva la sua presenza era il sonoro gorgoglio dell'acqua che scorreva sulle rocce. I pini formavano una specie di grotta con i loro rami, nascondendo Eragon e Arya al mondo e riscaldando l'aria fredda e immobile. L'anfratto sembrava un luogo senza età, come se fosse stato rimosso dal mondo e sottratto, per qualche magia, al soffio inclemente del tempo.
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