Volodyk - Paolini2-Eldest

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Volodyk - Paolini2-Eldest краткое содержание

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Ricordò di essersi seduto in una Valletta, con la schiena appoggiata a Saphira, a osservare la stessa fanciulla elfica che ondeggiava davanti a un pubblico rapito, cantando:

Volerai, volerai, lontano volerai, sui picchi e sulle valli fino alle perdute terre. Volerai, volerai, lontano volerai, e da me più non tornerai.

Lontano, lontano da me tu sarai, e mai più ti rivedrò! Lontano, lontano da me tu sarai, ma per sempre io ti aspetterò. Ricordò una serie infinita di poesie, alcune di argomento triste, altre gioiose, quasi tutte un misto di gioia e tristezza. Ascoltò tutta la poesia di Arya e pensò che era molto bella, e quella di Islanzadi, che era più lunga, ma ugualmente piacevole. Tutti gli elfi si radunarono per ascoltare le loro parole...

Ricordò le meraviglie che gli elfi avevano preparato per la celebrazione, molte delle quali non avrebbe mai pensato possibili, nemmeno con l'ausilio della magia. Indovinelli e giocattoli, opere d'arte e armi, e altri oggetti il cui senso gli sfuggiva. Un elfo aveva creato una sfera di vetro dentro la quale ogni due o tre secondi sbocciava un fiore diverso. Un altro elfo aveva trascorso decenni a viaggiare per la Du Weldenvarden per apprendere i suoni degli elementi, e ora suonava i più belli dalla gola di cento gigli bianchi.

Rhunòn contribuì con uno scudo che non si rompeva, un paio di guanti d'acciaio che consentivano di maneggiare il piombo fuso senza scottarsi e una delicata scultura che raffigurava uno scricciolo in volo ricavata da un solido blocco di metallo e dipinta con tale perizia che l'uccello sembrava vivo.

Una piramide di legno alta otto pollici e costruita con cinquantotto pezzi a incastro fu l'offerta di Orik che entusiasmò gli elfi; essi insistettero perché la smontasse e la rimontasse. «Mastro Barbalunga» lo chiamavano. «Dita ingegnose indicano una mente ingegnosa.»

Ricordò Oromis che lo prendeva in disparte, allontanandolo dalla musica, e di aver chiesto all'elfo: «Che cosa succede?»

«Hai bisogno di schiarirti la mente.» Oromis lo condusse verso un tronco caduto e lo fece sedere. «Resta qui qualche minuto. Ti sentirai meglio.»

«Sto bene. Non ho bisogno di riposare» protestò Eragon.

«Non sei in condizioni di giudicare te stesso, al momento. Resta qui finché non sarai in grado di elencare, dal più piccolo al più grande, tutti gli incantesimi di cambiamento, poi potrai riunirti a noi. Prometti.»

Ricordò creature strane e misteriose, che sciamavano dal cuore della foresta. In gran parte erano animali che erano stati alterati dagli incantesimi accumulati nella Du Weldenvarden e adesso si sentivano attratti dall'Agaeti Blòdhren come un uomo che muore di fame è attratto dal cibo. Sembravano trarre il loro nutrimento dalla presenza della magia degli elfi. Molti osarono rivelarsi soltanto come un paio di occhi scintillanti ai margini dei coni di luce delle lanterne. Un animale che si mostrò fu la lupa con le sembianze di una donna vestita di bianco - che Eragon aveva già incontrato. Sgusciò da dietro un cespuglio di sanguinella, i denti aguzzi snudati in un ghigno divertito, gli occhi gialli che guizzavano intorno. Ma non tutte le creature erano animali. Alcuni erano elfi che avevano alterato la propria forma originale in nome di una migliore funzionalità o di un diverso ideale di bellezza. Un elfo ricoperto da una pelliccia grigia pezzata balzò oltre Eragon e continuò a caracollare intorno, a quattro zampe, oppure su due piedi. La sua testa era stretta e allungata, con orecchie a punta da felino, le braccia lunghe fino alle ginocchia, e morbidi cuscinetti sui palmi delle mani dalle dita affusolate.

Più tardi, due elfe identiche si presentarono a Saphira. Si muovevano con languida grazia e quando si portarono le dita alle labbra nel saluto tradizionale, Eragon vide che le loro dita erano unite da una ragnatela traslucida. «Siamo venute da molto lontano» sussurrarono. Mentre parlavano, tre file di branchie pulsarono ai lati dei loro colli sottili, esponendo il rosa della carne. La loro pelle riluceva, come bagnata d'olio. I lunghi capelli lisci ricadevano oltre le spalle strette. Eragon incontrò un elfo corazzato, ricoperto da squame sovrapposte come quelle di un drago, una cresta ossea sulla testa, una fila di punte aguzze che gli correva lungo la schiena, e due pallide fiamme che baluginavano in fondo alle narici dilatate.

E ne incontrò altri che non erano del tutto riconoscibili: elfi dai lineamenti che tremolavano, come visti attraverso l'acqua; elfi che quando erano immobili non si distinguevano dagli alberi circostanti; elfi alti con gli occhi completamente neri, anche dove avrebbe dovuto esserci il bianco, di una bellezza inquietante che spaventò Eragon, capaci di passare attraverso le cose che toccavano come ombre.

L'esempio più vivido di quelle trasformazioni era l'albero di Menoa, che un tempo era stato l'elfa Linnéa. L'albero parve prendere vita in sintonia con le attività della radura. I suoi rami si muovevano anche se non c'era un filo di vento; a volte si sentivano nel tronco scricchiolii che andavano al passo con la musica, e un'aria di serena benevolenza emanava dall'albero per diffondersi su quelli più vicini...

E ricordò due attacchi di dolore alla schiena; urlava e si contorceva nell'ombra, mentre gli elfi inebriati continuavano a festeggiare intorno a lui, e soltanto Saphira accorse in suo aiuto...

Il terzo giorno dell'Agaetì Blòdhren, o almeno così gli fu detto in seguito, Eragon recitò i suoi versi agli elfi. Si alzò e disse: «Non sono un fabbro, non so intagliare, né tessere, né fabbricare ceramiche, né dipingere. Non posso competere con voi nelle opere che create con la magia. Perciò non mi resta altro che la mia esperienza, che ho tentato di interpretare in una storia, anche se non sono nemmeno un bardo.» Poi, così come Brom cantava le ballate a Carvahall, Eragon intonò:

Nel regno lambito dal mare, Sui monti screziati di blu, D'inverno nacque un uomo Con un unico scopo e nulla più: Uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Sotto querce antiche come il tempo, Allevato con amore e saggezza, Correva coi cervi e con gli orsi, E dagli anziani imparò la fermezza

Per uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Imparò a spiare il predatore oscuro,

Quando sorprende il ricco e il mendicante;

A parare i suoi colpi e combatterlo Con tegole, pietre, ossa e piante; E a uccidere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre. Il tempo passò veloce come un lampo, Finché l'uomo non raggiunse l'età, In cui la febbre nel corpo divampa E nelle vene ribolle voluttà. Incontrò una leggiadra fanciulla,

Che era forte e saggia e virtuosa, Circonfusa dalla Luce di Geda,

Che splendeva sulla fronte radiosa.

Nel suo sguardo intenso e arcano, Nei suoi occhi come la notte scuri Lui intravvide un futuro splendente Dove sarebbero stati sicuri

Di non temere il nemico nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

E così Eragon raccontò di come l'uomo viaggiò fino alla terra di Durza, dove scovò e combattè il nemico, malgrado il freddo terrore che attanagliava il suo cuore. Ma quando alla fine trionfò, l'uomo non inflisse il colpo fatàle, perché ormai aveva sconfitto il nemico e non temeva più il destino dei mortali. Non aveva più bisogno di uccidere il nemico nella terra di Durza. L'uomo rinfoderò la spada e tornò a casa e sposò la sua bella in una sera d'estate. Passarono molti anni felici e contenti finché la sua barba non divenne bianca. Ma...

Nelle buie ore che precedono l'alba,

Il nemico strisciò nella quiete Della stanza dove l'uomo dormiva, Per placar di vendetta la sete.

L'uomo dal cuscino alzò la testa E guardò dritto il nemico che divenne il volto pallido e freddo della Morte, Sovrana della notte perenne.

Nel cuore invecchiato dell'uomo

Una pace serena discese nel profondo;

Da tempo non temeva l'abbraccio della Morte,

L'ultimo abbraccio per ogni uomo al mondo.

Lieve come un sussurro di vento,

il nemico dall'uomo strappò il suo spirito vivido e pulsante, Che per sempre da allora riposò

Nella terra di Durza, La dimora delle ombre.

Eragon tacque e, sentendo gli sguardi su di lui, chinò il capo e andò a sedersi. Provava un certo imbarazzo ad aver svelato così tanti dettagli di sé.

Il nobile elfo Dàthedr disse: «Tu hai scarsa stima di te, Ammazzaspettri. A quanto pare hai scoperto un nuovo talento.» Islanzadi levò una pallida mano. «La tua opera entrerà a far parte della grande biblioteca del Palazzo di Tialdarì, Eragon-finiarel, perché tutti possano apprezzarla. Sebbene il tuo poema sia un'allegorìa, credo che abbia aiutato molti di noi a comprendere meglio le traversie che hai dovuto affrontare da quando ti è apparso l'uovo di Saphira, di cui noi siamo, e in larga misura, responsabili. Ti prego di leggercelo di nuovo affinchè tutti noi possiamo riflettere meglio.» Lusingato, Eragon chinò il capo e obbedì. Poi toccò a Saphira presentare il suo lavoro agli elfi. Si allontanò in volo nella notte e tornò con una pietra nera grande tre volte un uomo, stretta fra gli artigli. Atterrò soltanto sulle zampe posteriori e collocò il macigno al centro di uno spiazzo erboso, perché tutti potessero vederlo. La roccia lucida era stata fusa e in qualche modo plasmata in curve intricate che si avvolgevano su se stesse come onde cristallizzate. Le lingue striate di roccia seguivano disegni così involuti che l'occhio aveva difficoltà a seguire una singola fascia dalla base alla cima, ma saltava da una spirale all'altra.

Dato che era la prima volta che Eragon vedeva la scultura, la ammirò con lo stesso interesse degli elfi. Come ci sei riuscita?

Gli occhi di Saphira scintillarono maliziosi. Leccando la roccia fusa. Poi abbassò la testa e soffiò a lungo fuoco sulla pietra, che si trasformò in un pilastro dorato che saliva verso le stelle, artigliandole con dita splendenti. Quando Saphira chiuse le fauci, i contorni della scultura, sottili come carta, rosseggiarono ardenti, mentre piccole fiammelle tremolavano nelle cavità e nelle fenditure della roccia. Le morbide volute della pietra sembravano muoversi nella luce ipnotica.

Gli elfi esclamarono di meraviglia, battendo le mani e danzando intorno alla roccia. Un elfo gridò: «Mirabile opera, Squamediluce!»

È bellissima, disse Eragon.

Saphira gli sfiorò il braccio col muso. Grazie, piccolo mio.

Poi toccò a Glaedr presentare la sua offerta: una lastra di roccia rossa che aveva scolpito con la punta di un artiglio per raffigurare Ellesméra vista dall'alto. E anche Oromis presentò il suo contributo: la pergamena finita che Eragon lo aveva visto illustrare durante le lezioni. Sulla metà superiore del rotolo si susseguivano colonne di glifi - una copia della Ballata di Vestati il Marinaio - mentre nella metà inferiore era rappresentato il panorama di un regno fantastico, ricco di dettagli e reso con grande abilità artistica.

Arya prese Eragon per mano e lo condusse nella foresta, fino all'albero di Menoa, dove gli disse: «Guarda come il fuoco fatuo si sta spegnendo. Non abbiamo che poche ore prima del sopraggiungere dell'alba, e allora dovremo tutti tornare al mondo della fredda ragione.»

Intorno all'albero si erano radunate frotte di elfi, i volti radiosi di avida aspettativa. Con solenne dignità, Islanzadi affiorò dalla folla e camminò lungo una radice larga quanto un viale, che risaliva piano fino a curvare su se stessa. La regina si fermò su quella sorta di pulpito nodoso, scrutando gli elfi in attesa. «Com'è nostra usanza, e come stabilito alla fine della Guerra dei Draghi dalla regina Tarmunora, dal primo Eragon, e dal drago bianco che rappresentava la sua razza - il cui nome è impronunciabile in qualsiasi lingua - quando legarono il fato degli elfi e dei draghi, ci siamo riuniti per commemorare il giuramento di sangue con canti, e danze, e i frutti del nostro lavoro. Quando si tenne l'ultima celebrazione, tanti anni fa, la nostra situazione era disperata. Da allora in qualche modo è migliorata, grazie agli sforzi congiunti di noi elfi, dei nani e dei Varden, ma Alagaésia resta ancora sotto l'ombra funesta dei Wyrdfell, e dobbiamo continuare a vivere con la vergogna di come tradimmo i draghi.

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