Volodyk - Paolini2-Eldest
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Malgrado i progressi dell'Ala di Drago, le corvette continuavano a guadagnare terreno. Le navi nemiche veleggiavano ormai fianco a fianco col mercantile, a meno di un miglio di distanza, coi remi che si muovevano in perfetta sincronia, due pinne d'acqua che si levavano dalla prua che fendeva l'oceano. Roran non potè che ammirare lo spettacolo. Si rimise il cannocchiale nella camicia; ormai non gli serviva più. Le corvette erano abbastanza vicine da scorgerle a occhio nudo, mentre il gorgo era sempre più oscurato dalle nubi di vapore bianco che eruttava. Attirato verso gli abissi, il vapore formava una sorta di spirale che imitava lo stesso vortice.
Poi l'Ala di Drago virò a sinistra, divergendo dalla corrente mentre Uthar la governava verso il mare aperto. La chiglia rumoreggiò tagliando il mare spumeggiante, e la velocità della nave si dimezzò, mentre l'Ala di Drago combatteva contro il risucchio mortale dell'Occhio del Cinghiale. L'albero di maestra fu scosso da una violenta vibrazione che fece sbattere i denti di Roran, e la coffa sbandò nella direzione opposta, dandogli le vertigini.
Roran si accorse con terrore che rallentavano sempre di più. Si liberò dalle corde e sprezzante del pericolo scavalcò la coffa, si afferrò alle sartie e cominciò a scendere così rapido che a un tratto perse l'appiglio e precipitò per parecchi piedi prima di riuscire ad aggrapparsi di nuovo a una cima. Saltò sul ponte, corse verso il boccaporto di prua e scese al primo banco di remi, dove si unì a Baldor e Albriech che spingevano un lungo remo di quercia.
Non si scambiarono una sola parola, ma continuarono a vogare al suono del loro respiro affannato, al battito frenetico del tamburo, alle grida rauche di Bonden, e al ruggito dell'Occhio di Cinghiale. Roran sentiva il potente gorgo opporre resistenza a ogni colpo di remi.
Nonostante i loro sforzi, l'Ala di Drago sembrava bloccata in un punto morto. Non ce la faremo, pensò Roran. La schiena e le gambe gli dolevano per lo sforzo. I polmoni gli bruciavano. Fra un battito e l'altro del tamburo, sentì Uthar gridare ai marinai sul ponte di orientare le vele per sfruttare il vento infido.
Due file davanti a Roran, Darmen e Hamund lasciarono il posto a Thane e Ridley, poi si distesero al centro del corridòio, tremanti di fatica. Meno di un minuto dopo, qualcun altro crollò sfinito fra i banchi, e fu subito sostituito da Brigit e un'altra donna.
Se sopr•avviveremo, pensò Roran, sarà solo perché siamo così numerosi da poter sostenere questo ritmo per tutto il tempo necessario.
Gli parve di passare un'eternità inchiodato a quel remo, in quello spazio buio e fumoso, a spingere e tirare, spingere e tirare, facendo del suo meglio per ignorare il suo corpo che gridava pietà. Il collo gli faceva male per essere stato troppo a lungo chino sotto il basso soffitto. Il legno scuro del remo era striato di sangue, colato dalle vesciche che gli si erano formate per poi scoppiare. Si strappò di dosso la camicia facendo cadere il cannocchiale, l'avvolse intorno al remo e riprese a vogare.
Alla fine non ce la fece più. Le sue gambe cedettero e Roran cadde di lato, scivolando sul pagliolato, in un bagno di sudore. Orval prese il suo posto. Roran rimase immobile finché non riprese fiato, poi si mise carponi e strisciò verso il boccaporto. Come un ubriaco in preda a una sbornia colossale, risalì a tentoni la scaletta, barcollando a ogni movimento della nave e appoggiandosi alla paratia per riposare. Quando uscì sul ponte, si fermò un istante a inspirare l'aria fresca, poi arrancò verso poppa, con le gambe che minacciavano di tradirlo a ogni passo.
«Come va?» chiese ansimante a Uthar, che manovrava la ruota del timone.
Uthar scosse il capo.
Guardando oltre il parapetto, Roran vide le tre corvette a mezzo miglio di distanza, leggermente spostate a ovest, più vicine al centro dell'Occhio. Sembravano immobili rispetto all'Ala di Drago.
Lì per lì, Roran ebbe l'impressione che la posizione delle quattro navi restasse invariata. Poi avvertì un lieve mutamento nella velocità dell'Ala di Drago, come se la nave avesse superato un punto cruciale e le forze che la bloccavano si stessero arrendendo. Era una differenza sottile, non più di qualche piede al minuto, ma abbastanza perché la distanza fra il mercantile e le corvette aumentasse. A ogni colpo di remi, l'Ala di Drago guadagnava velocità. Le corvette non riuscivano comunque a contrastare la terrificante potenza del gorgo. I remi via via rallentarono finché, una dopo l'altra, le navi furono trascinate all'indietro verso il muro di nebbia, oltre il quale le attendevano le turbinanti pareti d'acqua nera e gli aguzzi scogli sul fondo dell'oceano.
Non riescono a remare, capì Roran. Gli uomini degli equipaggi sono troppo pochi e troppo stanchi. Non potè fare a meno di provare un impeto di compassione per il destino dei marinai sulle corvette.
In quel preciso istante, dalla nave più vicina fu scagliata un freccia, che scoppiò in una vampa di fiamme verdi prima di raggiungere l'Ala di Drago. La freccia doveva essere sostenuta dalla magia per volare così lontano. Colpì l'albero di mezzana ed esplose in globi di fuoco liquido che piovvero incendiando tutto quel che toccavano. Nel giro di pochi secondi, venti piccoli incendi ardevano lungo l'albero di mezzana, la vela, e il ponte di sotto.
«Non riusciamo a spegnerli» gridò uno dei marinai, in preda al panico.
«Tagliate tutto quello che brucia e gettatelo fuori bordo!» ruggì Uthar.
Sfoderando il pugnale da caccia, Roran si mise all'opera per asportare un grumo di fuoco verde dalle tavole ai suoi piedi. Passarono lunghi minuti di tensione, ma in breve tempo i fuochi innaturali furono eliminati e si ebbe la certezza che l'incendio non si sarebbe propagato al resto della nave.
Al grido di "Cessato allarme!", Uthar rilassò la stretta sulla ruota del timone. «Se questo è il massimo che riesce a fare il loro stregone, allora direi che non abbiamo nulla da temere.»
«Riusciremo a superare l'Occhio del Cinghiale, non è vero?» chiese Roran, aspettando con ansia una conferma alle sue speranze.
Uthar squadrò le spalle e sogghignò, orgoglioso e al tempo stesso incredulo. «Non per questo ciclo, ma ci siamo vicini. Non ci allontaneremo da quel mostro finché la marea non si sarà placata. Vai a dire a Bonden di rallentare il ritmo; non voglio che perdano i sensi ai remi se non è necessario.»
E così fu. Roran fece un altro turno ai banchi; il tempo di tornare sul ponte e si accorse che il gorgo stava diventando più piccolo. L'ululato spettrale del vortice si era ridotto al consueto rumore del vento; l'acqua aveva assunto un aspetto placido e piatto che mai avrebbe lasciato supporre la violenza che in genere si scatenava in quel punto; e la nebbia che aveva vorticato sull'abisso si dissolse sotto i caldi raggi del sole, lasciando l'aria tersa e limpida come vetro. Dell'Occhio del Cinghiale, notò Roran quando recuperò il cannocchiale dai banchi, non restava altro che il disco di schiuma giallastra che ruotava sull'acqua.
Al centro della spuma gli parve di scorgere tre alberi spezzati e una vela nera che continuavano a galleggiare in un circolo senza fine. Ma forse era soltanto uno scherzo della sua immaginazione.
O almeno fu ciò che si disse.
Elain lo raggiunse, una mano posata sul ventre gonfio. Con una vocina sottile, gli disse: «Siamo stati fortunati, Roran. Molto più fortunati di quanto avessimo ragione di sperare.»
«Già» mormorò lui.
Verso Aberon
Sotto le ali azzurre di Saphira, la densa foresta si estendeva da un orizzonte pallido all'altro, scolorendo via via dal più intenso dei verdi fino a un porpora sbiadito e caliginoso. Balestrucci, corvi e altri uccelli dei boschi volteggiavano sulle chiome dei pini nodosi, lanciando acute strida d'allarme non appena scorgevano Saphira. La dragonessa sorvolava bassa il fogliame per proteggere i due passeggeri dalle temperature artiche delle maggiori altitudini. Era la prima volta, da quando Saphira era sfuggita ai Ra'zac sulla Grande Dorsale, che lei e Eragon avevano l'opportunità di volare insieme per una grande distanza, senza doversi fermare ad aspettare compagni che viaggiavano via terra. Saphira in particolar modo si godeva il volo, compiaciuta di poter mostrare a Eragon come le lezioni di Glaedr avessero contribuito ad aumentare la sua forza e la sua resistenza.
Dopo l'iniziale imbarazzo, Orik disse a Eragon: «Dubito che mi troverò mai a mio agio per aria, ma capisco perché a te e a Saphira piace tanto. Volare ti fa sentire libero e indipendente, come un falco dalla vista acuta che caccia le prede. Mi batte il cuore, mi batte!»
Per alleviare la noia del viaggio, Orik cominciò a giocare agli indovinelli con Saphira. Eragon si astenne dalla gara perché non era mai stato bravo con gli enigmi; il pensiero macchinoso necessario a risolverli gli sfuggiva. In questo, Saphira era molto più brava di lui. Come tutti i draghi, era affascinata dagli indovinelli e li trovava piuttosto facili da risolvere.
«Gli unici indovinelli che conosco» disse Orik «sono nel linguaggio dei nani. Farò del mio meglio per tradurli, ma il risultato potrebbe suonare grossolano e poco scorrevole.» Poi disse:
Se son alta ho lunga vita, Ma se bassa son finita. Su di me risplende il fuoco, Se Urùr fiata duro poco. Non è giusto, ribattè Saphira. Non so niente dei vostri dei. Eragon non dovette ripetere le sue parole, perché Orik le aveva dato il permesso di proiettarle direttamente nella sua mente.
Orik rise. «Ti arrendi?»
Mai. Per qualche minuto, l'unico suono fu il rumore delle sue ali, finché non chiese: È la candela? «Esatto.»
Una piccola nube di fumo ardente investì la faccia di Orik ed Eragon quando la dragonessa sbuffò. Non me la cavo bene con questi indovinelli. Non sono stata dentro una casa da quando il mio uovo si è schiuso. Ho difficoltà a risolvere gli enigmi che riguardano oggetti domestici. Poi fu il suo turno.
Come si definiscono le più fedeli compagne dei draghi?
L'indovinello si rivelò piuttosto ostico per il nano. Orik borbottò e mugugnò e digrignò i denti per la frustrazione. Dietro di lui, Eragon sogghignava, perché vedeva la risposta a chiare lettere nella mente di Saphira. Alla fine, Orik disse: «Be', allora? Mi dichiaro sconfitto.»
La parola è composta E il suono s'accosta, Le ali è la risposta.
Fu la volta di Orik di protestare: «Non è giusto! Questa non è la mia lingua di origine. Non puoi aspettarti che conosca questi giochi di parole!»
Era un indovinello normalissimo.
Eragon guardò i muscoli del collo di Orik tendersi e gonfiarsi mentre il nano faceva scattare la testa avanti. «D'accordo, se la metti su questo piano, Zannediferro, allora risolvimi questo indovinello che conoscono perfino i bambini dei nani.»
Mi chiamano Forgia di Morgothal e Grembo di Helzvog. La Figlia di Nordvig nascondo morte grìgia diffondo, Col Sangue di Helzvog faccio nuovo il mondo. Chi sono?
Continuarono su questo tono, scambiandosi indovinelli di crescente difficoltà, mentre la Du Weldenvarden scorreva sotto di loro. Di tanto in tanto, nella volta verdeggiante si apriva uno squarcio che rivelava bagliori argentei, tratti dei numerosi fiumi che serpeggiavano per la foresta. Intorno a Saphira, le nuvole assumevano forme dall'architettura fantastica: archi, cupole, pilastri, bastioni scanalati, torrioni alti come montagne; e poi colline e valli immerse in una luce fiammante che dava a Eragon l'impressione di volare in un sogno.
Saphira fu così veloce che al calar della sera si erano già lasciati la Du Weldenvarden alle spalle e avevano raggiunto i prati verdeggianti che separavano la grande foresta dal Deserto di Hadarac. Si accamparono fra l'erba e si strinsero intorno a un piccolo falò, sentendosi terribilmente soli sulla terra. Erano scuri in volto e parlarono poco, perché le parole non facevano che sottolineare il loro ruolo insignificante in quella landa deserta e desolata. Eragon approfittò della sosta per immagazzinare energia nel rubino che ornava il pomo di Zar'roc. La gemma assorbì tutto il potere che le infuse, come anche quello di Saphira, che si prestò volentieri. Eragon giunse alla conclusione che ci sarebbero voluti parecchi giorni per saturare sia il rubino che i dodici diamanti nascosti nella cintura di Beloth il Savio.
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