Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Proprio fedelissima non direi, pensò Eragon. Ha sfidato Morzan per il mio bene, anche se poi ha perso la vita per questo. Oh, se fosse riuscita a liberare anche Murtagh... Quanto al resoconto poco edificante di Jeod, Eragon scelse di credere che Morzan avesse traviato la natura essenzialmente buona di Selena. Non poteva accettare che entrambi i suoi genitori fossero malvagi, o sarebbe impazzito.
«Lo amava» rispose, fissando il torbido fondo della tazza. «All'inizio, di sicuro; forse alla fine un po' meno. Murtagh è suo figlio.»
Jeod inarcò un sopracciglio. «Davvero? Te l'avrà detto lui stesso, suppongo.» Eragon annuì. «Be', questo spiega molte cose. La madre di Murtagh... Sono sorpreso che Brom non mi abbia mai svelato quel segreto.»
«Morzan fece tutto il possibile per nascondere l'esistenza di Murtagh perfino agli altri Rinnegati.»
«Conoscendo la storia di quei furfanti traditori e affamati di potere è probabile che gli abbia salvato la vita. Peccato.»
Tra di loro si insinuò il silenzio, come un timido animale pronto a fuggire al minimo movimento. Eragon continuò a guardare dentro la tazza. Era assillato da una quantità di domande, ma sapeva che né Jeod né nessun altro avrebbe potuto rispondere: perché Brom si era nascosto a Carvahall? Per vegliare su Eragon, il figlio del suo più acerrimo nemico? Era stato uno scherzo crudele dargli Zar'roc, la spada di suo padre? E perché Brom non gli aveva detto la verità sui suoi genitori? Strinse la tazza con più forza e, senza volerlo, la mandò in frantumi.
A quel rumore improvviso trasalirono tutti e tre.
«Aspetta, ti aiuto» disse Helen, correndogli incontro e tamponandogli la tunica con uno straccio. Imbarazzato, Eragon si scusò più volte, e i suoi ospiti lo rassicurarono dicendogli di non preoccuparsi, che non era nulla di grave.
Mentre Helen raccoglieva i cocci di terracotta, Jeod cominciò a rovistare tra i cumuli di libri, pergamene e fogli che coprivano il letto, poi disse: «Ah, per poco non me ne dimenticavo. Ho una cosa per te, Eragon, che potrebbe rivelarsi utile. Se solo riuscissi a trovarla...» Con un grido di gioia si raddrizzò sventolando un libro, che consegnò al giovane.
Era il Domia abr Wyrda, il Dominio del Fato, la storia di Alagaësia scritta da Heslant il Monaco. Eragon l'aveva visto per la prima volta nella biblioteca di Jeod a Teirm, e non si aspettava di poterlo ammirare ancora. Assaporando la sensazione, passò le mani sulla copertina di pelle intarsiata, lisa, poi aprì il libro e ammirò le ordinate file di rune scritte in lucido inchiostro rosso. Impressionato dall'immensa quantità di conoscenza che reggeva tra le mani, Eragon gli chiese: «Davvero vuoi che lo tenga io?»
«Sì» disse Jeod, facendosi da parte mentre Helen recuperava un frammento di tazza da sotto il letto. «Credo che potresti trarne vantaggio. Sei coinvolto in eventi che sono storia, Eragon, e le difficoltà che stai affrontando hanno radici lontane, che risalgono a fatti occorsi decenni, secoli, millenni fa. Se fossi in te, coglierei ogni opportunità per imparare la lezione che la storia ha da insegnarci: potrebbe aiutarti a risolvere i tuoi problemi di oggi. Per quanto mi riguarda, leggere i resoconti del passato mi ha dato spesso il coraggio e l'acume necessari a scegliere la giusta via.»
Eragon ardeva dal desiderio di accettare il dono, tuttavia esitò. «Brom diceva che il Domia abr Wyrda era l'oggetto di maggior valore che avevi in casa. E il più raro... E poi che ne sarà del tuo lavoro? Non ti serve per le tue ricerche?»
«Sì, è un libro raro e di immenso valore» convenne Jeod, «ma solo entro i confini dell'Impero, perché Galbatorix ne brucia ogni copia che trova e manda alla forca gli sfortunati proprietari. Qui all'accampamento i cortigiani di re Orrin me ne hanno già rifilate sei copie, e direi che questo non si possa definire un importante centro culturale. Tuttavia non me ne separo a cuor leggero, ma solo perché tu possa farne un uso migliore di quanto riuscirei a fare io. I libri devono andare dove sono più apprezzati e non restare silenziosi a impolverarsi su mensole abbandonate, non trovi?»
«Giusto.» Eragon chiuse il volume e di nuovo seguì con le dita l'intricato profilo della scritta sulla copertina, affascinato dai contorti ghirigori intagliati nella pelle. «Grazie. Lo custodirò come un tesoro finché sarà in mio possesso.» Jeod chinò il capo e si appoggiò alla parete della tenda con aria soddisfatta. Eragon voltò il libro ed esaminò l'iscrizione sul dorso. «A che ordine religioso apparteneva Heslant?»
«A una piccola setta segreta chiamata Arcaena, originaria della zona vicino a Kuasta. Il loro ordine, che sopravvive da almeno cinque secoli, crede che ogni forma di conoscenza sia sacra.» Un accenno di sorriso diede ai lineamenti di Jeod un'espressione misteriosa. «Si occupano di raccogliere ogni informazione possibile e di proteggerla in attesa di un'epoca in cui, secondo loro, si abbatterà una non meglio precisata catastrofe che distruggerà ogni traccia di civilizzazione in Alagaësia.»
«Mi pare una religione un po' strana» commentò Eragon.
«Non sono tutte così, viste da fuori?» ribatté Jeod.
«Anch'io ho un regalo per te. Be', in realtà è per tua moglie.» Helen inclinò la testa da un lato e aggrottò le sopracciglia con fare interrogativo. «Tu vieni da una famiglia di commercianti, vero?» La donna fece cenno di sì con il capo. «Anche tu avevi fiuto per gli affari?»
Un lampo balenò negli occhi della donna. «Quando mio padre morì, se non avessi sposato lui» - e indicò Jeod con un gesto della spalla - «avrei ereditato l'attività di famiglia. Sono figlia unica, mio padre mi ha insegnato tutto ciò che sapeva.»
Era quello che Eragon sperava. «Hai detto di essere soddisfatto della tua vita qui con i Varden, no?» chiese poi a Jeod.
«Nel complesso sì.»
«Capisco. Però hai rischiato tanto aiutando me e Brom, e ancora di più Roran e gli altri abitanti di Carvahall.»
«I Pirati di Palancar.»
Eragon ridacchiò, poi proseguì. «Senza il tuo intervento, di sicuro l'Impero li avrebbe catturati. E a causa del tuo atto di ribellione hai perso quanto di più caro avevi a Teirm.»
«L'avremmo perso comunque. Ero in bancarotta e i Gemelli mi hanno tradito. Era solo questione di tempo prima che Lord Risthart mi facesse arrestare.»
«Forse; comunque hai aiutato Roran. Chi può biasimarti se nel contempo pensavi a salvarti la pelle? Resta il fatto che hai rinunciato alla tua vita a Teirm per rubare l'Ala di Drago con Roran e gli altri abitanti. E ti sarò sempre grato per il tuo sacrificio. Questo è il mio ringraziamento...»
Eragon passò un dito sotto la cintura, estrasse la seconda delle tre sfere d'oro e la consegnò a Helen, che la prese fra le mani con dolcezza, come se fosse un pulcino di pettirosso. Mentre la fissava meravigliata e Jeod tendeva il collo per sbirciare, Eragon disse: «Non è una fortuna, ma se sarete accorti, riuscirete a farla fruttare. Ciò che ha fatto Nasuada con il pizzo mi ha insegnato che la guerra offre ottime occasioni per arricchirsi.»
«Oh, sì» replicò Helen, senza fiato. «Le guerre sono la delizia dei mercanti.»
«Per esempio, ieri sera a cena Nasuada mi ha riferito che i nani sono a corto di idromele e, come potrai immaginare, hanno i mezzi per comprarne tutti i barili che vogliono, anche se il prezzo fosse mille volte più alto di prima della guerra. Ma il mio è solo un suggerimento. Se vi date da fare, potreste trovare altra gente più avida ancora di loro con cui entrare in affari.»
Quando Helen corse ad abbracciarlo, Eragon fece un passo indietro, barcollando. I capelli di lei gli solleticarono il collo. All'improvviso intimidita, Helen si allontanò, poi fu pervasa dall'eccitazione di prima, portò la sfera color miele davanti al naso e disse: «Grazie, Eragon! Oh, grazie!» Indicò l'oro. «So come utilizzarlo. Con questo costruirò un impero perfino più grande di quello di mio padre.» Fece sparire la sfera scintillante nel pugno chiuso. «Tu credi che la mia ambizione superi le mie capacità? Aspetta e vedrai. Non fallirò!»
Eragon le fece un inchino. «Spero che trarremo tutti beneficio dal tuo successo.»
Helen si inchinò a sua volta e gli rispose: «Sei molto generoso, Ammazzaspettri. Grazie ancora.» Eragon notò che le si tendevano i muscoli del collo.
«Sì, grazie» intervenne Jeod, alzandosi dal letto. «Non credo che ce lo meritiamo» - Helen gli scoccò un'occhiata furiosa, che lui ignorò - «ma lo apprezziamo molto.»
Improvvisando, Eragon aggiunse: «C'è un regalo anche per te, Jeod, non da parte mia, ma di Saphira. Non appena avrete entrambi un paio d'ore libere, ha accettato di portarti a fare un giro.» Dividere Saphira con altri lo addolorava e sapeva che lei si sarebbe indispettita perché non l'aveva consultata prima di offrire i suoi servigi a qualcuno, ma dopo aver dato l'oro a Helen si sarebbe sentito in colpa se non avesse offerto a suo marito qualcosa di pari valore.
Un velo di lacrime offuscò gli occhi di Jeod. Afferrò la mano di Eragon e gliela strinse, poi, senza lasciarla, disse: «Non posso immaginare un onore più grande. Grazie. Non sai quanto hai fatto per noi.»
Divincolandosi dalla stretta, Eragon raggiunse a passo lento l'ingresso della tenda, scusandosi con più garbo possibile e congedandosi. Alla fine, dopo un'altra tornata di ringraziamenti da parte degli ospiti e un suo modesto: «Non ho fatto proprio niente», riuscì a fuggire.
Fuori, sollevò il Domia abr Wyrda e poi osservò il sole. Saphira sarebbe tornata a breve, ma c'era ancora tempo per sbrigare un'altra faccenda. Prima però doveva tornare nella sua tenda; non voleva rischiare di sciupare il libro portandolo con sé per tutto l'accampamento.
Possiedo un libro, pensò, al settimo cielo.
Si avviò di buon passo, stringendo il volume al petto, seguito a ruota da Blödhgarm e dagli altri elfi.
MI SERVE UNA SPADA!
Nascosto il Domia abr Wyrda al sicuro nella sua tenda, Eragon andò nell'armeria dei Varden, un grande padiglione a cielo aperto zeppo di rastrelliere cariche di lance, spade, picche, archi e balestre. C'erano casse di legno traboccanti di scudi e armature di cuoio. Le cotte, le tuniche, le cuffie e i gambali più costosi erano appesi a ganci di legno. Centinaia di elmi conici scintillavano come argento lustro. Balle di frecce erano allineate lungo il perimetro e tra loro sedevano una ventina di arcieri, o forse più, impegnati a riparare i pennacchi danneggiati durante la battaglia delle Pianure Ardenti. Un flusso costante di uomini entrava e usciva di corsa: chi portava armi e cotte a far sistemare, chi nuove reclute da equipaggiare, chi trasportava attrezzature varie da una parte all'altra dell'accampamento. Sembrava che gridassero tutti a squarciagola. E nel bel mezzo di quel caos Eragon scorse la persona che sperava di incontrare: Fredric, il maestro d'armi dei Varden.
Si avviò verso di lui, Blödhgarm al suo fianco. Non appena furono sotto il tetto di tela, tutti i presenti ammutolirono, gli occhi fissi sui due nuovi arrivati. Poi ripresero le loro attività, ma più svelti e a voce più bassa.
Alzando un braccio in segno di benvenuto, Fredric corse loro incontro. Come sempre indossava l'irsuta corazza di pelle di bue che puzzava quasi quanto l'animale vivo, e a tracolla sulla schiena aveva un'immensa spada a doppia impugnatura; l'elsa gli spuntava dalla spalla destra. «Ammazzaspettri!» ringhiò. «Come posso aiutarti in questo bel pomeriggio?»
«Mi serve una spada.»
Dalla folta barba di Fredric spuntò un sorriso. «Ah, mi chiedevo se saresti mai venuto a trovarmi per questo. Quando sei partito per l'Helgrind senza una lama, ho pensato che di certe cose potessi ormai fare a meno, e che per combattere ti bastasse la magia.»
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