Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«Rahna fu soddisfatta, così la fece diventare bella. Quando Maghara tornò al villaggio, tutti la ammirarono. Grazie al suo nuovo viso, l'ariete che amava la scelse come compagna ed ebbero molti figli e vissero felici per sette anni. Poi Rahna andò da lei e le disse: "Hai trascorso sette anni insieme all'ariete che volevi. Sei felice?" E Maghara rispose: "Sì." Allora Rahna continuò: "Sono venuta a riscuotere la mia ricompensa." Si guardò intorno nella casa di pietra, afferrò il primogenito di Maghara e disse: "Prendo lui." Maghara implorò Colei che ha le Corna Dorate di risparmiarlo, ma lei fu irremovibile. Alla fine Maghara prese la mazza del compagno e fece per colpire la dea, ma l'arma le si frantumò fra le mani. Per punizione Rahna la privò della bellezza e se ne andò con il primogenito verso il suo palazzo, dove risiedono i quattro venti. Chiamò il bambino Hegraz, lo allevò e lo fece diventare uno dei più potenti guerrieri che mai abbiano camminato su questa terra. La morale della storia è che non bisogna mai opporsi al proprio destino, perché si finisce sempre col perdere ciò che abbiamo di più caro.»
Eragon guardò il fulgido profilo della luna crescente apparire sopra l'orizzonte a est. «Raccontami dei vostri villaggi.»
«Cosa vuoi sapere?»
«Tutto. Quella volta, quando entrai nella tua mente e in quella di Khagra e di Otvek, trovai centinaia di immagini, ma ne ricordo solo una manciata e comunque non nei dettagli. Sto cercando di dare un senso a ciò che vidi allora.»
«Potrei dirti un sacco di cose» grugnì Garzhvog. Con gli occhi grevi e pensierosi, si passò lo stuzzicadenti improvvisato attorno a una zanna e disse: «Prendiamo dei tronchi e scolpiamo su di essi i musi degli animali e le montagne, poi li conficchiamo nel terreno accanto alle nostre case per spaventare gli spiriti delle foreste. A volte sono così ben fatti che sembrano vivi. Quando entri in uno dei nostri villaggi, ti senti addosso gli occhi degli animali...» Trattenne l'osso fra le dita, poi continuò a muoverlo avanti e indietro nella bocca. «Accanto alla soglia di ogni capanna appendiamo il namna. È un lembo di stoffa grande quanto la mia mano aperta. Ce ne sono di tutti i colori e descrivono la storia della famiglia che vive in quella capanna. Solo i tessitori più anziani e abili possono aggiungere qualche particolare o ripararne uno se è danneggiato...» L'osso gli scomparve nel pugno. «Nei mesi invernali, chi ha una compagna lavora con lei al tappeto del focolare. Ci vogliono almeno cinque anni per finirlo, dunque alla fine sai se hai scelto la compagna giusta.»
«Non ho mai visto uno dei vostri villaggi» disse Eragon. «Devono essere ben nascosti.»
«E ben difesi, anche. Pochi di coloro che vedono le nostre case sopravvivono per raccontarlo.»
Concentrandosi sul Kull, Eragon gli chiese, con una punta di nervosismo nella voce: «Come hai fatto a imparare la nostra lingua? C'erano esseri umani tra voi? Li tenevate come schiavi?»
Garzhvog ricambiò lo sguardo senza battere ciglio. «Noi non abbiamo schiavi, Spadarossa. Ciò che so lo strappo dalle menti degli uomini contro cui combatto e poi lo condivido con il resto della mia tribù.»
«Hai ucciso molti umani, vero?»
«Anche tu hai ucciso molti Urgralgra, Spadarossa. Ecco perché dobbiamo essere alleati; altrimenti la mia razza non sopravviverà.»
Eragon incrociò le braccia. «Quando io e Brom eravamo sulle tracce dei Ra'zac, passammo da Yazuac, un villaggio vicino al fiume Ninor. Trovammo tutti gli abitanti ammucchiati al centro, morti. In cima alla pila di cadaveri c'era un neonato infilzato su una lancia. Fu la cosa più brutta che avessi mai visto. E a ucciderli erano stati gli Urgali.»
«Prima che mi spuntassero le corna» replicò Garzhvog, «mio padre mi portò in uno dei nostri villaggi lungo la frangia occidentale della Grande Dorsale. Trovammo la nostra gente torturata, bruciata e massacrata. Gli abitanti di Narda ci avevano scoperti e avevano attaccato di sorpresa il villaggio insieme a molti soldati. Della nostra tribù non si salvò nessuno... È vero che amiamo la guerra più di altre razze, Spadarossa, e spesso questa è stata la nostra rovina. Le donne non ci prendono nemmeno in considerazione come compagni se prima non dimostriamo il nostro valore in battaglia e non abbiamo ucciso almeno tre nemici. E la gioia che si prova nel combattere è impareggiabile. Ma benché amiamo le imprese d'armi, non significa che non siamo consapevoli dei nostri errori. A meno che la nostra razza non riesca a cambiare, se dovesse sconfiggere i Varden, Galbatorix ci ucciderà tutti, mentre sarete tu e Nasuada a ucciderci nel caso in cui foste voi ad avere la meglio su quel traditore dalla lingua biforcuta. Non ho forse ragione, Spadarossa?»
Eragon annuì. «Sì.»
«Non è bene rimuginare sugli errori del passato, dunque. Se non riusciamo a superare ciò che hanno fatto i nostri popoli, non ci sarà mai pace tra umani e Urgralgra.»
«Immaginiamo di sconfiggere Galbatorix e che Nasuada dia alla tua razza la terra che avete chiesto. Come dovremmo comportarci se fra vent'anni i vostri figli cominciassero a saccheggiare e a uccidere per fare colpo sulle femmine? La vostra storia insegna che è andata così ogni volta che gli Urgali hanno siglato accordi di pace.»
Con un profondo sospiro, Garzhvog rispose: «In quel caso c'è da sperare che ci siano ancora degli Urgralgra oltreoceano, e che siano più saggi, perché di noi in questa landa non resterà più nessuno.»
Per tutta la notte nessuno dei due proferì più parola. Garzhvog si rannicchiò su un fianco e dormì con l'immensa testa posata a terra, mentre Eragon si avvolse nel mantello, sedette con la schiena appoggiata al ceppo e fissò le stelle che a rilento andavano e venivano nel suo mondo di sogni a occhi aperti.
Alla fine del giorno dopo arrivarono in vista dei Monti Beor. All'inizio non erano altro che forme spettrali all'orizzonte, spigolosi pannelli bianchi e viola; ma via via che però calava la sera, la distante catena montuosa acquistò consistenza, ed Eragon riuscì a distinguere la scura striscia di alberi che correva lungo la base e, sopra, quella ancora più ampia e scintillante di neve e ghiaccio, a sua volta sormontata dalle vette di nuda pietra grigia, così alte che non vi cresceva alcuna vegetazione e nemmeno vi cadeva la neve. Eragon rimase sopraffatto dalle dimensioni dei Monti Beor, proprio come la prima volta che li aveva visti. L'istinto continuava a dirgli che non poteva esistere nulla di così immenso, eppure gli occhi non lo ingannavano. Le montagne erano alte in media dieci miglia, alcune perfino di più.
Eragon e Garzhvog non si fermarono per la notte ma continuarono a correre con il buio e per tutto il giorno dopo. Al mattino il cielo era terso; a causa della presenza dei Monti Beor, però, il sole non si vide prima di mezzogiorno, quando fece capolino all'improvviso fra due picchi, e raggi di luce grandi quanto le montagne si riversarono sulla terra ancora avvolta in quello strano crepuscolo. Allora Eragon si fermò sulla riva di un ruscello e contemplò la vista, rapito e silenzioso, per diversi minuti.
Via via che aggiravano la vasta catena montuosa, il viaggio cominciò a sembrargli disagevole come quando era volato da Gil'ead al Farthen Dûr con Murtagh, Saphira e Arya. Gli parve anche di riconoscere il luogo dove si erano accampati dopo aver attraversato il Deserto di Hadarac.
I giorni e le notti si alternavano interminabili con insostenibile lentezza e strabiliante velocità, perché ogni ora era identica a quella prima, il che induceva Eragon a chiedersi se la loro impresa si sarebbe mai conclusa e se ampie parti di essa fossero mai davvero accadute.
Quando arrivarono alla bocca dell'enorme crepaccio che divideva in due le montagne per molte leghe, da nord a sud, svoltarono a destra e passarono in mezzo ai freddi picchi imperturbabili. Arrivati al fiume Zannadorso, che sgorgava dalla stretta vallata che portava al Farthen Dûr, guadarono le gelide acque e proseguirono verso sud.
Quella sera, prima di avventurarsi a est nel cuore delle montagne, si accamparono vicino a un laghetto e riposarono le membra esauste. Garzhvog uccise un altro cervo con la fionda, stavolta un maschio, e mangiarono entrambi a volontà.
Saziata la fame, mentre era chino a riparare un buco sul fianco dello stivale, Eragon sentì un ululato spettrale che gli fece battere il cuore all'impazzata. Si guardò intorno nel paesaggio buio e, allarmato, scorse il profilo di una grossa bestia che saltellava sui ciottoli intorno al laghetto.
«Garzhvog» chiamò Eragon a fior di labbra, poi fece per prendere il falcione dallo zaino. Il Kull raccolse da terra un sasso grande come un pugno, caricò la tasca di cuoio della fionda e poi, ergendosi in tutta la sua altezza, aprì le fauci e ululò nella notte finché nella landa circostante non risuonò l'eco del suo coraggioso grido di sfida.
La bestia si fermò, poi riprese a camminare più lentamente, annusando il terreno qua e là. Quando entrò nell'alone di luce del fuoco, Eragon trattenne il respiro. Di fronte a loro c'era un lupo grigio grande come un cavallo, con due sciabole al posto delle zanne e ardenti occhi gialli che seguivano ogni loro movimento. Le zampe del lupo erano larghe come scudi.
Uno Shrrg!
pensò.
Mentre il gigantesco lupo perlustrava l'accampamento, muovendosi quasi senza far rumore nonostante la stazza, Eragon pensò a come si sarebbero comportati gli elfi con un animale selvatico e declamò nell'antica lingua: «Fratello Lupo, non è nostra intenzione farti del male. Stanotte il nostro branco riposa, non caccia. Ti invitiamo a condividere con noi il nostro cibo e il calore del nostro rifugio fino a domattina.» Sentendolo, lo Shrrg si fermò e ruotò le orecchie in avanti.
«Spadarossa, che cosa fai?» grugnì Garzhvog.
«Non attaccare per primo.»
La bestia dal massiccio dorso avanzò piano, facendo vibrare la punta del
grosso naso umido. Avvicinò il muso irsuto al fuoco, incuriosito dal dimenarsi delle fiamme, poi raggiunse i resti di carne e viscere sparsi a terra dove Garzhvog aveva macellato il cervo. Si accucciò e addentò i bocconi di cibo, poi si alzò e, senza voltarsi, si allontanò nelle profondità della notte.
Eragon si rilassò e ripose il falcione nel fodero. Garzhvog, tuttavia, rimase in piedi dov'era, le labbra scoperte in un ringhio, le orecchie tese e lo sguardo concentrato in cerca di anomalie nell'oscurità circostante.
Alle prime luci dell'alba i due lasciarono l'accampamento e si avviarono di corsa verso est, entrando nella valle che li avrebbe condotti al Monte Thardûr.
Mentre passavano sotto i rami della fitta foresta che proteggeva l'interno della catena montuosa, l'aria divenne molto più fresca e il soffice letto di aghi di pino per terra attutì i loro passi. Gli orridi alberi scuri che li sovrastavano altissimi sembravano osservarli mentre si facevano strada tra i grossi tronchi e aggiravano le radici contorte che spuntavano dalla terra umida, alte due, tre e spesso quattro piedi. Grandi scoiattoli neri zampettavano tra i rami, squittendo a gran voce. Un folto strato di muschio ricopriva gli alberi morti e caduti. Felci e lamponi e altre frondose piante verdi crescevano rigogliose accanto a funghi di ogni forma, dimensione e colore.
Non appena Eragon e Garzhvog si ritrovarono all'interno della lunga vallata, il mondo rimpicciolì. Attorno a loro incombevano gigantesche montagne, tanto grandi quanto opprimenti, e il cielo era una remota, irraggiungibile striscia di mare blu, così lontana come Eragon non l'aveva mai vista. Poche nubi sfilacciate sfioravano le spalle delle montagne.
Circa un'ora dopo mezzogiorno, quando tra gli alberi riecheggiò una serie di terribili ruggiti, i due rallentarono. Eragon sguainò il falcione e Garzhvog raccolse da terra una liscia pietra di fiume e la caricò nella tasca della fionda.
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