Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«È un orso delle caverne» dichiarò. Un verso furioso e acuto, simile al rumore di metallo contro metallo, sottolineò le sue parole. «E c'è anche un Nagra. Dobbiamo stare attenti, Spadarossa.»
Procedettero lentamente, e ben presto scorsero degli animali sul dorso di una montagna, parecchie centinaia di piedi più su di dove erano loro in quel momento. Un branco di cinghiali rossicci con larghe zanne taglienti correvano in modo disordinato davanti a un'immensa massa di pelo marrone-argenteo, dotata di artigli uncinati e denti aguzzi, che si muoveva a gran velocità. All'inizio la distanza ingannò Eragon, ma poi paragonò gli animali agli alberi accanto a loro e si rese conto che rispetto ai cinghiali uno Shrrg non era altro che un nanerottolo, e che l'orso era grande quasi quanto la sua casa nella Valle Palancar. I cinghiali lo avevano azzannato ai fianchi, che sanguinavano, ma a quanto pareva l'attacco era riuscito solo a farlo infuriare ancora di più. Ritto sulle zampe, l'orso ruggì e schiacciò un cinghiale con una delle sue immense zampe, scaraventandolo da parte e squarciandogli il manto. Per tre volte la bestia tentò di rialzarsi e per tre volte l'orso la colpì, finché quella non cedette e rimase immobile. Mentre l'orso si chinava per banchettare con la preda, gli altri cinghiali si rifugiarono strillando sotto gli alberi, risalirono la montagna e si allontanarono.
Sbalordito dalla forza dell'orso delle caverne, Eragon seguì Garzhvog che entrava lentamente nel campo visivo dell'animale. Alzando il muso insanguinato dal ventre della vittima, l'orso li guardò con i suoi occhietti luccicanti, poi decise che non costituivano una minaccia e riprese a mangiare.
«Credo che nemmeno Saphira riuscirebbe ad avere la meglio su un mostro del genere» mormorò Eragon.
Garzhvog emise un piccolo grugnito. «Un drago sputa fuoco. Un orso delle caverne no.»
Nessuno dei due distolse lo sguardo dall'orso finché non fu scomparso dietro gli alberi, e perfino allora tennero le armi a portata di mano, non sapendo quali altri pericoli avrebbero potuto incontrare.
Quando ormai il giorno scivolava nel pomeriggio, udirono un altro suono. Qualcuno rideva. Eragon e Garzhvog si fermarono, poi l'ariete alzò un dito e con sorprendente rapidità si infilò in un fitto muro di vegetazione, strisciando verso la risata. Eragon lo seguì, Camminando con cautela, trattenendo il respiro per paura che questo tradisse la loro presenza.
Sbirciò attraverso un cespuglio di foglie di sanguinella e accanto a un sentiero battuto che correva sul fondo della vallata vide tre bambini nani che, tra strilli e risate, giocavano a lanciarsi dei legnetti. Non c'erano adulti nei paraggi. Eragon rimase a distanza di sicurezza, poi sbuffò ed esaminò il cielo: a circa un miglio da lì scorse diversi pennacchi di fumo bianco.
Garzhvog gli si accucciò accanto, spezzando un ramoscello, e si guardarono negli occhi. «Spadarossa, qui ci separiamo» disse l'ariete.
«Non verrai alla Rocca di Bregan con me?»
«No. Il mio compito era proteggerti. Se ti accompagno oltre, i nani non avranno più fiducia in te. Il Monte Thardûr è vicino e sono sicuro che nessuno oserà farti del male durante il tragitto.»
Eragon si strofinò la base del collo e guardò prima Grazhvog e poi il fumo a est. «Tornerai subito dai Varden?»
Con una risatina sommessa, Garzhvog rispose: «Sì, ma forse non così veloce come all'andata.»
Senza sapere che cosa dire, con la punta dello stivale Eragon staccò il bordo marcio di un ceppo, sotto cui apparve una covata di larve bianche aggrovigliate nei cunicoli che avevano scavato. «Non farti mangiare da uno Shrrg o da un orso... Altrimenti poi mi tocca scovare quella bestiaccia e ucciderla, e non ne ho proprio il tempo.»
Garzhvog avvicinò i pugni alla fronte ossuta. «Che i tuoi nemici si prostrino davanti a te, Spadarossa.» Poi si alzò, si voltò e si allontanò a grandi balzi. Ben presto la foresta inghiottì la sagoma ingombrante del Kull.
Eragon si riempì i polmoni della fresca aria di montagna, poi si fece strada nella fitta boscaglia. Quando emerse dal folto di felci e sanguinella, i minuscoli bambini nani rimasero pietrificati, un'espressione cauta sui faccini rubicondi. Allargando le braccia, Eragon disse: «Sono Eragon Ammazzaspettri, Figlio di Nessuno. Cerco Orik, figlio di Thrifk, alla Rocca di Bregan. Potete portarmi da lui?» Vedendo che i bambini non rispondevano, si rese conto che non capivano la sua lingua. «Sono un Cavaliere dei Draghi» continuò, parlando piano e sottolineando ogni parola. «Eka eddyr aí Shur'tugal... Shur'tugal... Argetlam.»
Ai bambini si illuminarono gli occhi. «Argetlam!» esclamarono pieni di stupore. «Argetlam!» Gli corsero incontro, avvolgendogli le gambe con le loro braccine corte, e gli tirarono i vestiti, gridando di gioia. Eragon li fissò e si rese conto che gli si stampava in volto uno sorriso sciocco. I bambini lo afferrarono per le mani e lui si lasciò guidare lungo il sentiero. Anche se non capiva nulla, continuavano a parlargli nella lingua dei nani e a raccontargli ciò che non poteva comprendere, ma si divertì ad ascoltare.
Quando uno di loro - una femmina, forse - protese le braccia verso di lui, Eragon la prese e se la issò sulle spalle, e non appena lei gli tirò i capelli sussultò. La piccola proruppe in una risata acuta e dolce, ed Eragon sorrise di nuovo. Così equipaggiato e accompagnato, si incamminò verso il Monte Thardûr e da lì alla Rocca di Bregan, dove viveva Orik, il suo fratello adottivo.
♦ ♦ ♦
PER IL MIO AMORE
Roran fissò il tondo sasso levigato che teneva fra le mani. Si accigliò, frustrato.
«Stenr rïsa!» grugnì a fior di labbra.
Il sasso si rifiutò di muoversi.
«Che stai facendo, Fortemartello?» gli chiese Carn, lasciandosi cadere sul ceppo accanto a Roran.
Roran infilò il sasso nella cintura, poi accettò il pane e il formaggio che gli aveva portato lo stregone e rispose: «Niente. Cercavo di distrarmi.»
Carn annuì. «Tutti lo fanno prima di una missione.»
Mentre Roran mangiava, il suo sguardo vagò tra i compagni d'armi. Erano trenta, lui compreso, tutti guerrieri dalla scorza dura. Ognuno aveva un arco e molti anche una spada, ma solo in pochi avevano deciso di combattere con una lancia, una mazza o un martello. Roran intuì che sette o otto dovevano essere all'incirca suoi coetanei, mentre gli altri erano molto più vecchi. Il più anziano era il capitano, Martland Barbarossa, il deposto duca di Thun: aveva visto trascorrere tanti inverni che ormai la sua leggendaria barba era diventata argentea, anzi, sembrava ricoperta di ghiaccio.
Dopo essersi unito al contingente di Martland, Roran si era presentato nella sua tenda. Il duca era basso e, avendo trascorso una vita a cavalcare e a maneggiare spade, aveva membra forti. La barba che gli aveva meritato il soprannome era folta e ben curata e gli arrivava a metà del petto. Dopo aver osservato Roran, il conte aveva detto: "Lady Nasuada mi ha detto grandi cose di te, ragazzo, e ho sentito molto altro dai miei uomini, per non parlare di voci, pettegolezzi, dicerie e cose simili. Lo sai com'è che funziona, no? Non c'è dubbio, hai compiuto gesta degne di nota: affrontare i Ra'zac nel loro covo, per esempio, è stata un'impresa davvero non da poco. Certo, potevi contare sull'aiuto di tuo cugino, eh? Forse con la gente del tuo villaggio sei abituato a fare il bello e il cattivo tempo, ma adesso sei uno dei Varden, ragazzo. Anzi, adesso sei uno dei miei guerrieri. Non siamo la tua famiglia. Non siamo i tuoi vicini di casa. E non dare per scontato che siamo tuoi amici. Il nostro compito è eseguire gli ordini di Nasuada, e li eseguiremo, qualunque sia il nostro giudizio in merito. Finché presterai servizio sotto di me, farai ciò che ti dico, quando te lo dico e come te lo dico, o giuro sulle ossa della mia povera mamma... che possa riposare in pace... che ti frusterò di persona fino a spellarti vivo, e non m'importa un fico secco di chi sei parente. Hai capito?"
"Sissignore!"
"Ottimo. Se ti comporterai bene, dimostrerai di avere buon senso e soprattutto se venderai cara la pelle, tra i Varden potrai fare carriera in fretta: basta essere determinati. Tuttavia sarò io a decidere se ritenerti degno di comandare un manipolo di uomini. Ma non credere nemmeno per un istante... per un solo maledetto istante, capito?... di potermi adulare e conquistarti così i miei favori. Che io ti piaccia o che tu mi odi sono affari tuoi. L'unica cosa che mi interessa è che tu ci sappia fare."
"Tutto chiaro, signore!"
"Sì, lo spero proprio, Fortemartello. Lo scopriremo presto. Adesso va', presentati da Ulhart, il mio braccio destro."
Roran ingoiò gli ultimi tozzi di pane e li accompagnò con un sorso di vino preso dalla bisaccia. Avrebbe preferito consumare un pasto caldo, quella sera, ma erano in pieno territorio nemico e se avessero acceso il fuoco i soldati dell'Impero avrebbero potuto individuarli. Con un sospiro allungò le gambe. Negli ultimi tre giorni aveva cavalcato Fiammabianca dal tramonto all'alba e gli facevano male le ginocchia.
Nei recessi della mente, giorno e notte Roran sentiva una debole ma costante pressione, un prurito che lo spingeva sempre nella stessa direzione: Katrina. La fonte di quella sensazione era l'anello che gli aveva dato Eragon. Gli era di grande conforto sapere che grazie a esso lui e Katrina si sarebbero sempre potuti ritrovare in qualunque punto di Alagaësia, anche se fossero diventati entrambi sordi e ciechi.
Accanto a sé sentì Carn borbottare frasi nell'antica lingua e sorrise. Era il loro stregone, mandato per assicurarsi che non venissero uccisi da un mago nemico con un semplice cenno della mano. Da qualche compagno Roran aveva appreso che non era molto potente, anzi, per lanciare un incantesimo doveva sforzarsi, e non poco, ma compensava la propria debolezza inventando formule magiche di straordinaria astuzia e insinuandosi nelle menti degli avversari con abilità. Carn era magro, sia di viso sia di corpo, teneva gli occhi sempre socchiusi e aveva l'aria nervosa e impulsiva. A Roran era piaciuto subito.
Di fronte a lui, altri due uomini, Halmar e Ferth, erano seduti davanti alla loro tenda. Halmar diceva all'altro: «Allora, quando i soldati vennero a prenderlo, lui radunò gli uomini all'interno della sua proprietà e diede fuoco alle pozze d'olio che i servi avevano versato, intrappolando così i soldati e facendo credere a chi arrivò dopo che fossero tutti morti carbonizzati. Ma ci pensi? Uccise cinquecento soldati in un colpo solo, e senza sguainare nemmeno la spada!»
«Come fece a fuggire?» chiese Ferth.
«Il nonno di Barbarossa era un gran bastardo, oh, sì, ma era anche molto astuto. Aveva fatto scavare un tunnel che dal palazzo arrivava fino al fiume più vicino. Passando di lì, Barbarossa riuscì a mettere in salvo la sua famiglia e tutti i suoi servitori, poi li portò nel Surda, dove re Larkin diede loro rifugio. Passarono molti anni prima che Galbatorix scoprisse che erano ancora vivi. Siamo fortunati a essere con lui, puoi starne certo. Ha perso solo due battaglie, e in entrambi i casi per colpa della magia.»
Vedendo arrivare Ulhart in mezzo alla fila di sedici tende, Halmar tacque. Il veterano dal volto arcigno si fermò a gambe larghe, immobile come una quercia con le radici ben piantate in terra, e passò in rassegna le tende per verificare che non mancasse nessuno all'appello. «Il sole è tramontato, tutti a dormire» ordinò. «Si parte due ore prima dell'alba. Il convoglio dev'essere sette miglia a nord-ovest da qui. Se arriviamo in tempo, li attaccheremo non appena cominciano a muoversi. Uccidiamo tutti, appicchiamo il fuoco e poi torniamo indietro. Sapete come fare, no? Fortemartello, tu vieni con me. Fai qualche sciocchezza e ti sventro come un pesce con un amo aguzzo.» Gli uomini ridacchiarono. «Forza, andate a dormire.»
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