Volodyk - Paolini3-Brisingr
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A fluide, ampie falcate corse sotto il cancello di legno massiccio che proteggeva l'entrata meridionale della città-montagna e sentì le guardie gridare: «Salute a te, Argetlam!» Dopo una ventina di iarde, dato che il cancello era incassato nella base di Tronjheim passò fra i due giganteschi grifoni d'oro che fissavano con occhi vacui l'orizzonte e sbucò all'aperto.
L'aria fresca e umida profumava di pioggia appena caduta. Era mattina, ma un grigio crepuscolo avvolgeva la piatta distesa di terra che circondava Tronjheim, dove non cresceva erba, ma solo muschi, licheni e qualche sporadico fungo velenoso dall'odore pungente. In alto, il Farthen Dûr s'innalzava per oltre dieci miglia fino alla stretta apertura da dove filtrava una pallida luce indiretta nell'immenso cratere. Eragon provava un po' di soggezione davanti all'imponenza della montagna ogni volta che guardava in alto.
Mentre correva, sentiva il suono monotono del suo respiro e dei suoi rapidi passi leggeri. Era solo, tranne che per un pipistrello curioso che gli svolazzò sopra la testa, emettendo acuti squittii. L'atmosfera tranquilla che permeava la montagna cava lo confortò, liberandolo dalle consuete preoccupazioni.
Seguì il sentiero lastricato che dal cancello sud di Tronjheim conduceva fino alla nera porta, alta trenta piedi, incassata nella parete meridionale del Farthen Dûr. Quando si fermò, due nani spuntarono dalle garitte nascoste e si affrettarono ad aprirgli i battenti, rivelando una galleria che sembrava senza fine.
Eragon si avviò. Pilastri di marmo tempestati di rubini e ametiste fiancheggiavano i primi cinquanta piedi del tunnel; poi la galleria si faceva spoglia e desolata, le pareti lisce intervallate ogni venti iarde da una lanterna senza fiamma, e da qualche porta o cancello sbarrati. Chissà dove conducono, si chiese. Poi immaginò le miglia di pietra che incombevano su di lui e per un momento la galleria gli procurò un insopportabile senso di oppressione. Scacciò in fretta quell'immagine.
A metà strada, la sentì.
«Saphira!» gridò Eragon, sia con la mente che con la voce, e quel nome riecheggiò sulle pareti di pietra con la potenza di una dozzina di voci.
Eragon! Un istante dopo, il debole rimbombo di un ruggito lontano lo raggiunse dal fondo della galleria.
Accelerando ancora di più il passo, Eragon spalancò la mente a Saphira e rimosse ogni barriera perché potessero ricongiungersi senza riserve. Come una corrente d'acqua tiepida, la coscienza di lei si riversò in lui, e quella di lui scorse dentro di lei. Eragon ansimò, inciampò, per poco non cadde. Si lasciarono avvolgere dalle morbide pieghe dei reciproci pensieri, stringendosi con un'intimità che nessun abbraccio fisico avrebbe potuto replicare, permettendo alle proprie identità di fondersi ancora una volta. Il loro più grande conforto era semplice: non erano più soli. Sapere di avere qualcuno che ti vuole bene, che capisce ogni fibra del tuo essere e che non ti abbandonerà mai, nemmeno nella più disperata delle circostanze, dovrebbe rappresentare l'essenza di ogni vero legame, ed Eragon e Saphira godevano di quel privilegio.
Passarono solo pochi istanti prima che Eragon la scorgesse affrettarsi verso di lui, veloce ma non troppo, per evitare di urtare la testa sul soffitto o di graffiarsi le ali contro le pareti. Gli artigli della dragonessa stridettero sul pavimento di pietra quando frenò fino a fermarsi davanti a Eragon, fiera, splendente, magnifica.
Con un grido di gioia, Eragon fece un salto e, incurante delle squame taglienti, le cinse il collo con le braccia, tenendola stretta mentre i piedi gli penzolavano nel vuoto. Piccolo mio, disse Saphira con la sua voce calda. Abbassò la testa per fargli toccare terra, poi sbuffò e disse: Piccolo mio, a meno che tu non voglia strangolarmi, dovresti allentare la stretta.
Scusa. Con un sogghigno, Eragon indietreggiò, poi si mise a ridere e premette la fronte sul suo muso, cominciando a grattarla dietro le mascelle.
Il mugolio gutturale della dragonessa riempì la galleria.
Sei stanca, disse Eragon.
Non ho mai volato tanto lontano così in fretta. Mi sono fermata una sola volta da quando ho lasciato i Varden, e solo perché avevo sete.
Vuoi dire che non dormi e non mangi da tre giorni?
Lei batté le palpebre, nascondendo per un momento i brillanti occhi color zaffiro.
Starai morendo di fame! esclamò Eragon, preoccupato. La ispezionò in cerca di ferite, ma con sollievo non ne trovò.
Sono stanca, ammise lei, ma non ho fame. Non ancora. Quando mi sarò riposata, allora avrò bisogno di mangiare. In questo momento non credo che riuscirei a mangiare nemmeno un coniglio... Mi manca la terra sotto le zampe, mi sembra ancora di volare.
Se non fossero stati separati per tanto tempo, Eragon l'avrebbe rimproverata per la sua imprudenza, ma in quel momento non provò altro che commozione e gratitudine davanti a tanta devozione. Grazie, disse. Non avrei sopportato di aspettare un solo altro giorno per essere di nuovo insieme.
E io lo stesso. La dragonessa chiuse gli occhi e spinse la testa contro le mani di Eragon, che continuava a grattarla dietro la mascella. E poi non potevo mancare all'incoronazione, giusto? Che cos'ha deciso il raduno dei... Prima che Saphira potesse concludere la domanda, Eragon le inviò un'immagine di Orik.
Ah, sospirò lei, comunicandogli la sua soddisfazione. Sarà un bravo re.
Lo spero.
Lo Zaffiro Stellato è pronto perché io lo ripari?
Se i nani non hanno già finito di metterlo insieme, sono sicuro che finiranno entro domani.
Bene. Socchiudendo una palpebra, Saphira scrutò Eragon con il suo sguardo penetrante. Nasuada mi ha raccontato dell'attentato dell'Az Sweldn rak Anhûin. Ti cacci sempre nei guai quando non sono con te.
Il sorriso di Eragon si allargò. E invece quando ci sei?
Inghiotto i guai prima che loro inghiottano te.
Questo lo dici tu. E quando gli Urgali ci tesero un'imboscata a Gil'ead e mi presero prigioniero?
Un pennacchio di fumo si levò dalle fauci di Saphira. Quello non vale. All'epoca ero più piccola e non avevo esperienza. Ora non accadrebbe. E nemmeno tu sei più debole come una volta.
Non sono mai stato debole! protestò Eragon. È solo che ho nemici potenti.
Per qualche ragione Saphira trovò la sua ultima dichiarazione molto divertente; la risata le sgorgò dal profondo del petto, scuotendola tutta, e ben presto anche Eragon si unì a lei. Nessuno dei due riuscì a fermarsi finché Eragon non si ritrovò boccheggiante a pancia all'aria, mentre Saphira cercava di trattenere le fiammate che le guizzavano dalle narici. Poi Saphira fece un verso che Eragon non aveva mai sentito prima, una specie di grugnito spezzato, e attraverso il loro legame provò una stranissima sensazione.
Saphira fece di nuovo quel verso, poi scrollò la testa, come se cercasse di sbarazzarsi di uno sciame di mosche. Accidenti, disse. Mi è venuto il singhiozzo.
Eragon rimase impalato, a bocca aperta. Un istante dopo riprese a ridere ancora più forte, piegato in due, con le lacrime che gli rigavano il volto. Ogni volta che stava per riprendersi, Saphira faceva ancora un singhiozzo, con uno scatto in avanti della testa che la faceva somigliare a una cicogna, e lui ricominciava a ridere come un matto. Alla fine Eragon si tappò le orecchie con le dita e fissò il soffitto, recitando i veri nomi di ogni metallo e ogni pietra che ricordava.
Quando ebbe finito, trasse un profondo respiro e si alzò.
Meglio? chiese Saphira, le spalle scosse da un nuovo singhiozzo.
Eragon si morse la lingua. Meglio... Avanti, andiamo a Tronjheim. Dovresti bere un po' d'acqua. A volte aiuta. E poi dovresti dormire.
Non puoi curare il singhiozzo con un incantesimo?
Forse. Può darsi. Ma né Brom né Oromis mi hanno insegnato come si fa. Saphira grugnì il suo assenso, e un secondo dopo arrivò l'ennesimo singhiozzo. Mordendosi ancora più forte la lingua, Eragon si fissò la punta degli stivali. Andiamo?
Saphira tese la zampa per invitarlo a salire. Eragon si arrampicò in fretta sulla sua schiena e prese posto sulla sella legata alla base del collo della dragonessa.
Insieme ripercorsero la galleria verso Tronjheim, felici e partecipi della rispettiva felicità.
L'INCORONAZIONE
I Tamburi di Derva suonarono, chiamando a raccolta i nani di Tronjheim per assistere all'incoronazione del nuovo re. "In circostanze normali" aveva detto Orik a Eragon la notte prima "quando il raduno dei clan elegge un re o una regina il knurla inizia a governare da subito, ma la cerimonia d'incoronazione si svolge solo dopo tre mesi, in modo da permettere a tutti coloro che vogliono prendervi parte di sistemare i loro affari e raggiungere il Farthen Dûr anche dalle regioni più remote del regno. Non ci succede spesso d'incoronare un re, perciò quando lo facciamo è nostra usanza renderlo un grande evento, con settimane di banchetti e musica, e sfide di ingegno e di forza, e gare di abilità nel forgiare, nell'intagliare e nelle altre forme d'arte... ma questi non sono tempi ordinari."
Eragon ascoltava i giganteschi tamburi, ritto in piedi accanto a Saphira, appena fuori della sala centrale di Tronjheim. Su entrambi i lati del viale lungo un miglio, centinaia di nani affollavano le arcate di ogni livello, spiando Eragon e Saphira con gli scuri occhi luccicanti.
La ruvida lingua di Saphira raspava contro le squame della bocca mentre si leccava le labbra, cosa che faceva da quando aveva finito di divorare cinque grosse pecore. Poi sollevò la zampa sinistra e si strofinò il muso. Le aleggiava intorno un odore di lana bruciata.
Smettila di agitarti, disse Eragon. Ci guardano tutti.
Saphira emise un debole ringhio. Non posso farne a meno. Ho della lana infilata fra i denti. Adesso ricordo perché odio mangiare le pecore. Quelle orribili creature lanuginose che mi fanno venire l'indigestione e le palle di pelo nello stomaco.
Ti aiuterò a pulirti i denti quando avremo finito qui. Ma intanto cerca di stare ferma.
Hmph.
Per caso Blödhgarm ti ha messo dei fiori di epilobio nelle bisacce? Potrebbero calmarti lo stomaco.
Non lo so.
Uhm. Eragon rifletté per un istante. Se non l'ha fatto, chiederò a Orik se i nani hanno delle scorte qui a Tronjheim. Dovremmo...
S'interruppe appena sentì la nota finale dei tamburi spegnersi nel silenzio. Si udiva solo qualche debole fruscio di vesti e un paio di frasi mormorate nella lingua dei nani.
Risuonarono gli squilli di una fanfara di dodici trombe che riempirono la città-montagna col loro richiamo trionfale, e da qualche parte si levò un coro di nani. Al suono di quella musica Eragon si sentì formicolare il cuoio capelluto e il sangue prese a scorrergli più in fretta, come se stesse per andare a caccia. Saphira frustò l'aria con la coda, ed Eragon capì che anche lei provava la stessa cosa.
Ci siamo, pensò.
Insieme, Eragon e Saphira avanzarono nella torreggiante sala centrale della città-montagna e presero posto nell'anello formato dai capiclan, dai capi delle gilde e dalle altre autorità.
Al centro della vasta sala giaceva ricostruito lo Zaffiro Stellato, incorniciato da una grossa intelaiatura di legno. Un'ora prima dell'incoronazione, Skeg aveva mandato un messaggio a Eragon e Saphira per avvertirli che lui e la sua squadra di artigiani avevano appena finito di rimettere insieme gli ultimi frammenti della gemma e che Isidar Mithrim era pronto perché Saphira lo facesse tornare integro come un tempo.
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