Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Il trono di granito nero dei nani era stato trasferito dalla sua collocazione abituale sotto Tronjheim e sistemato su una pedana rialzata accanto allo Zaffiro Stellato, rivolto verso il ramo orientale dei quattro corridoi principali che dividevano Tronjheim. L'est è il punto in cui sorge il sole, e la gemma simboleggiava l'alba di una nuova era. Migliaia di guerrieri nani con le armature di maglia brunita aspettavano sull'attenti in due vaste formazioni di fronte al trono, oppure schierati lungo i lati del corridoio orientale fino al cancello est di Tronjheim, a un miglio di distanza. Molti guerrieri impugnavano lance sormontate da vessilli dai curiosi disegni. Vedra, la moglie di Orik, era in prima fila, davanti al resto dell'assemblea: dopo che il raduno dei clan aveva bandito Grimstborith Vermûnd, Orik l'aveva mandata a chiamare, nel caso che fosse diventato re. Era arrivata a Tronjheim solo quella mattina.
Per mezz'ora le trombe suonarono e il coro invisibile continuò a cantare, mentre Orik incedeva a passi studiati dal cancello est fino al centro di Tronjheim. Aveva la barba spazzolata e arricciata, portava stivaloni lucidi della pelle migliore con speroni d'argento fissati ai talloni, pantaloni di lana grigia, una camicia di seta viola che brillava alla luce delle lanterne, e, sopra la camicia, la cotta di maglia: ogni anello era di puro oro bianco. Il ricco mantello bordato di ermellino, ricamato con l'emblema del Dûrgrimst Ingeitum, ricadeva morbido dalle sue spalle fluttuando in un lungo strascico. Volund, il martello da guerra forgiato da Korgan, il primo re dei nani, gli pendeva da un'alta cintura tempestata di rubini. Con quel sontuoso abbigliamento e la magnifica armatura, Orik sembrava risplendere di luce propria. Eragon rimase abbagliato.
Dietro Orik venivano dodici bambini nani, sei maschi e sei femmine, o almeno così dedusse Eragon dal taglio di capelli. I bambini indossavano tuniche marroni, rosse e dorate, e ognuno di loro teneva fra le mani a coppa una sfera levigata larga sei pollici, ciascuna ricavata da una gemma diversa.
Non appena Orik ebbe raggiunto il centro della città-montagna, la sala si oscurò e tante piccole ombre macchiarono ogni cosa al suo interno. Confuso, Eragon alzò lo sguardo e con sua sorpresa vide una pioggia di petali di rosa cadere dalla cima di Tronjheim. Come morbidi, densi fiocchi di neve, i petali vellutati si posavano sulle teste e sulle spalle dei presenti e sul pavimento, spandendo nell'aria la loro dolce fragranza.
Le trombe e il coro tacquero di colpo quando Orik si piegò su un ginocchio davanti al trono nero e chinò la testa. Alle sue spalle, i dodici bambini si fermarono e rimasero immobili.
Eragon posò una mano sul fianco caldo di Saphira, condividendo con lei un misto di inquietudine ed eccitazione. Non aveva idea di ciò che stava per succedere, perché Orik si era rifiutato di descrivergli la cerimonia da quel punto in poi.
Gannel, capoclan del Dûrgrimst Quan, fece un passo avanti, spezzando l'anello di persone che circondava la sala, e si avvicinò al trono, fermandosi sul lato destro. Il nano dalle grandi spalle indossava una sfarzosa tonaca rossa, dagli orli luccicanti di rune ricamate con filo metallico. In una mano stringeva un lungo bastone sormontato da un puro cristallo appuntito.
Dopo aver sollevato il bastone sopra la testa con entrambe le mani, Gannel lo batté sul pavimento di pietra con un tonfo che riecheggiò per tutta la sala. «Hwatum il skilfz gerdûmn!» esclamò. Continuò a parlare nella lingua dei nani per qualche minuto, ed Eragon ascoltò senza comprendere, dato che il suo traduttore non era con lui. Ma poi la voce di Gannel cambiò registro, ed Eragon riconobbe l'antica lingua. Gannel stava evocando un incantesimo, anche se era molto diverso da tutti quelli che Eragon conosceva. Invece di dirigerlo verso un oggetto o un elemento del mondo circostante, il sacerdote disse, nella lingua del mistero e del potere: «Gûntera, creatore del cielo e della terra e del mare sconfinato, ascolta il grido del tuo fedele servitore! Ti ringraziamo per la tua magnanimità. La nostra razza è florida. Quest'anno, come facciamo sempre, ti abbiamo offerto i migliori montoni delle nostre greggi, fiaschi d'idromele speziato e una parte dei nostri raccolti di frutta, verdura e grano. I tuoi templi sono i più ricchi sulla nostra terra e nessuno può sperare di competere con la tua gloria. O potente Gûntera, re degli dei, ascolta la mia preghiera e concedimi questa grazia. È giunta l'ora di nominare un mortale che governi i nostri affari terreni. Vuoi degnarti d'impartire la tua benedizione su Orik, figlio di Thrifk, e d'incoronarlo secondo la tradizione dei suoi predecessori?»
Lì per lì Eragon pensò che la preghiera di Gannel sarebbe caduta nel nulla, perché quando il nano ebbe finito di parlare non avvertì alcun flusso di magia provenire dal sacerdote. Poi Saphira gli diede un colpetto col muso e disse: Guarda!
Eragon seguì il suo sguardo e, a trenta piedi da terra, notò un'interferenza nella pioggia di petali, una zona vuota, come se un oggetto invisibile occupasse lo spazio. L'interferenza si allargò, arrivando fino al pavimento, e il vuoto circondato di petali assunse la forma di una creatura dotata di braccia e gambe, come un nano o un uomo o un elfo o un Urgali, ma con proporzioni diverse da quelle di ogni altra razza mai vista; la testa era larga quasi quanto le spalle, le braccia massicce arrivavano fin sotto le ginocchia, e se il torace era ampio, le gambe erano corte e storte.
Sottilissimi raggi di luce tremolante si sprigionarono dalla forma, e un attimo dopo apparve l'immagine nebulosa di una gigantesca figura maschile dai capelli arruffati. Il dio, se di un dio si trattava, non indossava nulla a parte un perizoma. La sua faccia scura, dai lineamenti marcati, sembrava esprimere crudeltà e gentilezza in egual misura, come se potesse passare da un estremo all'altro senza alcun preavviso.
Mentre notava quei dettagli, Eragon divenne anche consapevole della presenza di una strana, penetrante coscienza nella sala. Una coscienza dai pensieri arcani e dagli abissi insondabili, una coscienza che lampeggiava e tuonava e ondeggiava cambiando direzione all'improvviso come una nube temporalesca. Eragon si affrettò a sottrarre la mente da quel contatto. Gli formicolò la pelle e fu percorso da un brivido freddo. Non sapeva che cosa aveva sentito, ma ebbe paura e guardò Saphira in cerca di conforto. Lei stava fissando la figura, gli occhi blu da gatta che scintillavano con insolita intensità.
Come un sol uomo, i nani caddero in ginocchio.
Il dio parlò e la sua voce parve una frana di massi, il ruggito del vento sopra i picchi brulli delle montagne, il fragore delle onde contro una scogliera. Parlò nella lingua dei nani, e sebbene Eragon non capisse che cosa stava dicendo, si sentì soggiogato dalla potenza emanata dal discorso. Per tre volte il dio interrogò Orik e per tre volte Orik rispose, con voce fievole a confronto di quella del dio. Soddisfatta delle risposte, l'apparizione tese le braccia risplendenti e posò gli indici sulle tempie di Orik.
L'aria fra le dita del dio tremolò e sulla fronte di Orik si materializzò l'elmo d'oro tempestato di gemme che un tempo portava Rothgar. Il dio batté una mano sulla pancia, emise una risata tonante e poi si dissolse. I petali di rosa ricominciarono a cadere.
«Ûn qroth Gûntera!» proclamò Gannel. Risuonarono gli squilli potenti delle trombe.
Dopo essersi alzato, Orik salì sulla pedana, si voltò verso la folla e poi si sedette sul duro trono nero.
«Nal, Grimstnzborith Orik!» gridarono i nani, battendo sugli scudi con le asce e con le lance, e pestando i piedi sul pavimento. «Nal, Grimstnzborith Orik! Nal, Grimstnzborith Orik!»
«Evviva re Orik!» gridò Eragon. Inarcando il collo, Saphira ruggì il suo omaggio e sputò una vampa di fuoco sopra le teste dei nani, che incenerì una manciata di petali di rosa. A Eragon lacrimarono gli occhi quando fu investito dall'ondata di calore.
Gannel s'inginocchiò davanti a Orik e gli disse ancora qualcosa nella lingua dei nani. Quando ebbe finito, Orik gli toccò la testa e Gannel tornò al proprio posto ai margini della sala. Nado si avvicinò al trono e disse più o meno le stesse cose, e dopo di lui fecero altrettanto Manndrâth e Hadfala e tutti gli altri capiclan, con l'unica eccezione di Grimstborith Vermûnd, che era stato bandito dall'incoronazione.
Credo che si stiano mettendo al servizio di Orik, disse Eragon a Saphira.
Ma non gli avevano già dato la loro parola?
Sì, ma non in pubblico. Eragon vide Thordris avviarsi verso il trono prima di dire: Saphira, secondo te che cosa abbiamo appena visto? Era davvero Gûntera o soltanto un'illusione? La sua coscienza sembrava concreta, e non so come si possa fingere una cosa del genere ma...
Forse era un'illusione, disse lei. Che io sappia, le divinità dei nani non li hanno mai aiutati sui campi di battaglia né in altre occasioni del genere. E non credo che un vero dio accorrerebbe al richiamo di Gannel come un cane ammaestrato. Io non lo farei, e un dio non dovrebbe essere più importante di un drago?... D'altro canto, ci sono molte cose inspiegabili in Alagaësia. È possibile che abbiamo visto un'ombra proveniente da un'epoca ormai dimenticata, una pallida traccia di ciò che era un tempo e che continua a infestare la terra nel desiderio di riprendersi il potere perduto. Chi può saperlo?
Quando l'ultimo capoclan ebbe finito di tributare omaggio a Orik, toccò ai capi delle gilde presentarsi al suo cospetto, e poi Orik fece un cenno a Eragon. Con lenti passi misurati, Eragon avanzò tra le file di guerrieri nani fino a raggiungere la base del trono, dove s'inginocchiò. In quanto membro del Dûrgrimst Ingeitum, riconobbe Orik come proprio re e giurò di servirlo e di proteggerlo; in qualità di emissario di Nasuada, si congratulò con Orik per conto di Nasuada e dei Varden e gli promise la loro amicizia.
Quando Eragon si fu ritirato, molti altri nani si fecero avanti per parlare con Orik, in una processione che parve interminabile. Erano tutti desiderosi di dimostrare la propria lealtà al nuovo re.
La processione durò ore, poi cominciò la presentazione dei regali. Ogni nano offrì in dono a Orik un simbolo del proprio clan o della propria gilda: un calice d'oro traboccante di rubini e diamanti, una cotta di maglia stregata che nessuna lancia avrebbe potuto trapassare, un arazzo di venti piedi intessuto con la morbida lana tosata dalle barbe delle capre Feldûnost, una tavoletta d'agata su cui erano incisi i nomi di tutti gli antenati di Orik, un pugnale ricurvo ricavato dalla zanna di un drago, e molti altri tesori. In cambio, come segno della sua gratitudine, Orik offrì ai nani degli anelli.
Eragon e Saphira furono gli ultimi a presentarsi a Orik. Inginocchiandosi ancora una volta alla base della pedana, Eragon estrasse dalla tunica il bracciale d'oro che la sera prima aveva chiesto ai nani. Lo porse a Orik dicendo: «Ecco il mio regalo, re Orik. Non l'ho fatto io, ma gli ho imposto degli incantesimi per proteggerti. Finché lo porterai non dovrai temere alcun veleno. Se un sicario tenta di ucciderti o di pugnalarti o di lanciare contro di te un oggetto qualunque, l'arma non ti colpirà. Il bracciale ti proteggerà da gran parte degli incantesimi ostili. E possiede anche altre proprietà, che potrebbero tornarti utili quando la tua vita sarà in pericolo.»
Con un cenno del capo, Orik accettò il bracciale e disse: «Ti ringrazio molto per il tuo prezioso regalo, Eragon Ammazzaspettri.» E facendo in modo che tutti vedessero s'infilò la fascia d'oro sul braccio sinistro.
Poi venne il turno di Saphira, che proiettò i suoi pensieri verso tutti i presenti, dichiarando: Ecco il mio regalo, Orik. Oltrepassò il trono, gli artigli che ticchettavano sul pavimento di pietra, e si sollevò poggiando le zampe davanti sul bordo dell'intelaiatura che conteneva lo Zaffiro Stellato. Le robuste travi di legno scricchiolarono sotto il suo peso ma ressero. I minuti passarono senza che accadesse nulla, ma Saphira rimase dov'era, fissando l'enorme gemma.
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