Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Erano partiti da Tronjheim molto prima dell'alba, e nonostante la galleria li avesse rallentati era ancora mattino presto. Lo squarcio di cielo sopra le loro teste, là dove il sole filtrava fra le vette dei monti giganteschi, era solcato da pallidi raggi dorati. Nella valle, densi brandelli di nuvole si aggrappavano alle pendici dei monti come grossi serpenti grigi. Bianche volute di nebbia si levavano dalla superficie vitrea del lago.

Eragon e Saphira si fermarono sulle rive del Fernoth-mérna per bere e riempire le borracce per il viaggio. L'acqua proveniva dalla neve e dal ghiaccio che si scioglievano dalle montagne. Era così fredda che a Eragon fecero male i denti. Strizzò gli occhi e batté i piedi per terra gemendo mentre una fitta provocata dal freddo gli trapassava il cranio.

Quando la sensazione pulsante scemò, guardò oltre il lago. Fra le cortine fluttuanti di nebbia, scorse le rovine di un castello dalla forma irregolare, costruito su uno sperone di nuda roccia. Fitti tralci d'edera strangolavano i muri cadenti, ma a parte questo, la struttura pareva senza vita. Eragon rabbrividì. L'edificio abbandonato emanava un'aura cupa e sinistra, come la carcassa putrescente di qualche orrenda bestia.

Pronto?

gli chiese Saphira.

Pronto,

rispose lui, e montò in sella.

Dal Fernoth-mérna, Saphira volò verso nord, seguendo la valle Odred per uscire dai Monti Beor. La valle non portava direttamente a Ellesméra, situata molto più a ovest, ma non c'era altra scelta che percorrerla, dato che i valichi fra le montagne si trovavano a oltre cinque miglia di altezza.

Saphira volava alla massima quota che Eragon era in grado di sopportare; le era più semplice coprire lunghe distanze nell'atmosfera rarefatta piuttosto che nell'aria densa e umida più vicina al suolo. Per proteggersi dalle temperature glaciali, Eragon aveva indossato diversi strati d'indumenti e si schermava dal vento con un incantesimo che divideva in due la corrente d'aria gelata in modo che gli passasse accanto senza investirlo.

Cavalcare Saphira era tutt'altro che riposante, ma dato che la dragonessa volava a un ritmo costante e fluido, Eragon non doveva concentrarsi per mantenere l'equilibrio come quando lei virava o si tuffava in picchiata o eseguiva una delle sue tante manovre acrobatiche. Il giovane passò il tempo parlando con lei, ripensando a ciò che era accaduto nelle settimane precedenti, e studiando il paesaggio mutevole che scorreva sotto di loro.

Hai usato la magia senza l'antica lingua quando i nani ti hanno attaccato, disse Saphira. È stato un gesto pericoloso.

Lo so, ma non ho avuto il tempo di pensare alle parole. E poi tu non usi mai l'antica lingua quando evochi un incantesimo.

È diverso. Io sono un drago. A noi non serve l'antica lingua per esprimere le nostre intenzioni; noi sappiamo ciò che vogliamo, e non cambiamo idea facilmente come gli elfi o gli umani.

Il sole arancione era a una spanna sopra l'orizzonte quando Saphira oltrepassò l'imboccatura della valle e sbucò sulle desolate praterie che lambivano i Monti Beor. Raddrizzandosi sulla sella, Eragon si guardò attorno e scosse il capo, meravigliato da quanta strada avevano fatto. Se la prima volta avessimo potuto volare a Ellesméra, avremmo trascorso molto più tempo con Oromis e Glaedr. Saphira annuì con la mente.

La dragonessa continuò a volare finché il sole non tramontò, il cielo si riempì di stelle e le montagne divennero una scura macchia viola alle loro spalle. Avrebbe continuato fino al mattino dopo ma Eragon insistette perché si fermassero a riposare. Sei ancora stanca per il viaggio fino al Farthen Dûr. Domani potremo volare anche di notte, e anche tutto il giorno dopo, se necessario, ma stanotte devi dormire.

Anche se a Saphira la sua proposta non piacque, acconsentì e atterrò vicino a un boschetto di salici sulla sponda di un torrente. Quando smontò, Eragon scoprì di avere le gambe così rigide che stava in piedi a stento. Tolse la sella a Saphira, poi srotolò il sacco da notte sul terreno accanto a lei e si raggomitolò con la schiena contro il suo corpo caldo. Non gli serviva una tenda: Saphira lo riparava con un'ala come una mamma falco che protegge la sua covata. Ben presto i due scivolarono nei rispettivi sogni, che si mescolarono in strani modi meravigliosi, poiché le loro menti restavano unite anche nel sonno.

Non appena il primo raggio di luce comparve a est, Eragon e Saphira si rimisero in viaggio, volando alti sopra le pianure verdeggianti.

A metà mattina cominciò a soffiare un feroce vento contrario che li rallentò di molto. Malgrado i suoi sforzi, Saphira non riusciva a innalzarsi al di sopra del vento e per tutto il giorno fu costretta a lottare contro la corrente d'aria avversa. Era una fatica immane, e sebbene Eragon le avesse infuso tutta l'energia che poteva senza rischiare troppo, nel pomeriggio era così provata dalla stanchezza che scese e atterrò su un piccolo poggio isolato nella prateria. Sedette immobile, con le ali distese per terra, ansante, scossa dai brividi.

Sarà meglio fermarci qui per la notte, disse Eragon.

No.

Saphira, non sei in condizione di proseguire. Accampiamoci finché non ti riprendi. Chissà, il vento potrebbe calare.

Eragon sentì l'umido raspare della sua lingua mentre si leccava le labbra, poi l'ansito dei suoi polmoni che lavoravano come mantici.

No, disse lei. Su queste pianure potrebbe soffiare per settimane, o per mesi addirittura. Non possiamo aspettare che si calmi.

Ma...

Non mi arrenderò solo perché sono stanca, Eragon. La posta in gioco è troppo alta.

Allora lascia che ti dia l'energia di Aren. Questo anello ne contiene abbastanza da sostenerti da qui fino alla Du Weldenvarden.

No, ripeté lei. Risparmia Aren per quando non avremo altre risorse. Mi riposerò nella foresta. Potremmo avere bisogno di Aren da un momento all'altro: non dovresti sprecarlo soltanto per alleviare il mio disagio.

Non sopporto di vederti soffrire così.

Un debole ringhio sfuggì dalle fauci di Saphira. I miei antenati, i draghi selvatici, non si sarebbero fatti intimorire da un venticello del genere, e nemmeno io cederò. Detto questo, spiccò il volo e si tuffò di nuovo nella bufera.

Mentre il giorno volgeva al termine e il vento ancora ululava intorno a loro, opponendosi a Saphira come se il destino avesse deciso di non farli mai arrivare alla Du Weldenvarden, Eragon pensò alla nana Glûmra e alla sua fede nelle divinità dei nani, e per la prima volta in vita sua provò il desiderio di pregare. Ritirandosi dal contatto mentale con Saphira - che era così stanca e preoccupata che non ci fece caso - mormorò: «Gûntera, re degli dei, se esisti, e se puoi sentirmi, e se ne hai il potere, allora ti prego, ferma questo vento. So che non sono un nano, ma re Rothgar mi ha adottato nel suo clan e credo che questo mi dia il diritto di pregarti. Gûntera, ti prego, dobbiamo raggiungere la Du Weldenvarden al più presto, non solo per il bene dei Varden, ma anche per il bene del tuo popolo, i knurlan. Ti prego, ti supplico, ferma questo vento. Saphira non può resistere ancora a lungo.» Poi, sentendosi un po' sciocco, Eragon toccò la coscienza di Saphira e trasalì sentendo il bruciore dei suoi muscoli affaticati.

Più tardi, quella notte, quando tutto era freddo e buio, il vento si calmò. Tornò a farsi vivo di tanto in tanto con qualche sporadica folata.

Quando si fece di nuovo mattina, Eragon guardò in basso e vide la dura, arida terra del deserto di Hadarac. Maledizione, imprecò: non erano arrivati lontano quanto aveva sperato. Non arriveremo entro oggi a Ellesméra, vero?

No, a meno che il vento non decida di soffiare in direzione contraria e portarci sulla sua schiena. Saphira continuò a battere le ali con fatica per qualche minuto, poi aggiunse: Però se non avremo altre spiacevoli sorprese dovremmo raggiungere la Du Weldenvarden entro sera.

Eragon borbottò, contrariato.

Atterrarono solo due volte quel giorno. Mentre erano a terra, Saphira divorò un paio di anatre che aveva ucciso con una vampata di fuoco, ma a parte quello non mangiò altro. Per risparmiare tempo, Eragon mangiò la propria razione in sella.

Come aveva predetto Saphira, la Du Weldenvarden comparve in lontananza proprio mentre il sole stava per tramontare: un'immensa distesa verde dove all'esterno predominavano alberi dalle foglie decidue - querce, faggi e aceri - che, procedendo via via verso l'interno, cedevano il posto ai maestosi pini che erano l'anima della foresta.

Il crepuscolo era sceso sul paesaggio quando arrivarono al limitare della Du Weldenvarden e Saphira scivolò in un dolce atterraggio sotto i rami distesi di un'imponente quercia. Ripiegò le ali e rimase seduta, troppo stanca per proseguire. La lingua cremisi le penzolava dalla bocca. Mentre lei riposava, Eragon prese ad ascoltare il fruscio delle foglie sopra la sua testa e il bubbolio dei gufi e lo stridio degli insetti serali.

Quando si fu ripresa, Saphira s'incamminò e passò fra due gigantesche querce coperte di muschio, entrando a piedi nella Du Weldenvarden. Gli elfi avevano reso impossibile per qualunque essere vivente o inanimato entrare nella foresta con mezzi magici, e poiché i draghi non si affidavano solo al proprio corpo per volare, Saphira non poteva entrare in volo, altrimenti le sue ali avrebbero ceduto e sarebbe precipitata.

Qui dovrebbe essere abbastanza lontano, disse Saphira, fermandosi in un piccolo prato a diverse centinaia di piedi dal perimetro della foresta.

Eragon slegò le cinghie che gli serravano le gambe e scivolò lungo il fianco di Saphira. Setacciò il prato finché non trovò una zolla di terra nuda. Con le mani scavò una buca profonda un piede e larga la metà. Richiamò in superficie dell'acqua perché riempisse la buca, poi pronunciò un incantesimo di divinazione.

L'acqua tremolò e acquistò un morbido bagliore dorato, poi sulla superficie apparve l'interno della capanna di Oromis. L'elfo dai capelli d'argento sedeva al tavolo della cucina, intento a leggere una pergamena. Oromis levò gli occhi verso Eragon e annuì, senza tradire alcuna sorpresa.

«Maestro» disse Eragon, e voltò la mano per portarsela al petto.

«Salute a te, Eragon! Vi stavo aspettando. Dove siete?»

«Io e Saphira abbiamo appena raggiunto la Du Weldenvarden... Maestro, so che abbiamo promesso di tornare a Ellesméra, ma i Varden distano solo un paio di giorni dalla città di Feinster e sono vulnerabili senza di noi. Non abbiamo il tempo di volare fino a Ellesméra. Puoi rispondere alle nostre domande adesso, attraverso la pozza d'acqua magica?»

Oromis si appoggiò alla sedia, il volto spigoloso segnato da un'espressione seria e pensierosa. Poi disse: «Non ti posso istruire a distanza, Eragon. Intuisco alcune delle cose che vorresti chiedermi, e sono argomenti che dobbiamo affrontare di persona.»

«Maestro, ti prego. Se Murtagh e Castigo...»

«No, Eragon. Capisco le ragioni della tua fretta, ma i tuoi studi sono importanti quanto proteggere i Varden, se non di più. Se non possiamo farlo in modo appropriato, tanto vale che non lo facciamo affatto.»

Eragon sospirò e incurvò le spalle. «Sì, maestro.»

Oromis annuì. «Glaedr e io vi aspetteremo. Volate veloci e sicuri. Abbiamo molte cose di cui parlare.»

«Sì, maestro.»

Stordito ed esausto, Eragon spezzò l'incantesimo. L'acqua fu riassorbita dalla nera terra. Il giovane si prese la testa fra le mani, fissando la macchia di terra umida fra i suoi piedi. Il respiro di Saphira risuonava forte e affannato al suo fianco. Immagino che dobbiamo andare, disse. Mi dispiace.

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