Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Il respiro di lei s'interruppe per un momento mentre si leccava le labbra. Tutto a posto, non sto per svenire.

Eragon alzò lo sguardo su di lei. Sei sicura?

Sì.

A malincuore, Eragon si alzò e si arrampicò sul dorso della dragonessa. Visto che andiamo a Ellesméra, disse, stringendosi le cinghie intorno alle gambe, tanto vale far tappa all'albero di Menoa. Forse capiremo che cosa voleva dire Solembum. Avrei proprio bisogno di una nuova spada.

Quando Eragon aveva incontrato Solembum per la prima volta a Teirm, il gatto mannaro gli aveva detto: Quando giungerà il momento e ti servirà un'arma, guarda sotto le radici dell'albero di Menoa. Poi, quando tutto ti sembrerà perduto e il tuo potere non basterà, vai alla rocca di Kuthian e pronuncia il tuo nome per schiudere la Volta delle Anime. Eragon ancora non sapeva dove si trovasse la rocca di Kuthian, ma durante il loro primo soggiorno a Ellesméra lui e Saphira avevano avuto diverse occasioni di esaminare l'albero di Menoa. Non avevano però scoperto niente che indicasse loro la posizione dell'ipotetica arma: muschio, terra, corteccia e qualche formica erano le uniche cose che avevano visto fra le radici.

Può darsi che Solembum non parlasse di una spada, osservò Saphira. I gatti mannari amano gli indovinelli quasi quanto i draghi. Se mai esiste, quest'arma potrebbe essere un pezzo di pergamena con un incantesimo, oppure un libro, o un dipinto, o un pezzo appuntito di roccia, o chissà cos'altro. Di sicuro non sarà facile recuperarlo.

Di qualsiasi cosa si tratti, spero di riuscire a trovarla. Chissà quando riusciremo a tornare a Ellesméra.

Saphira spostò un albero caduto che le intralciava il cammino, poi si accovacciò e dispiegò le ali vellutate, i possenti muscoli delle spalle che si contraevano. Eragon lanciò un grido strozzato e si afferrò al pomolo della sella quando lei spiccò un balzo vertiginoso d'inaudita potenza, librandosi sulle chiome degli alberi.

Virando sul mare di rami ondeggianti, la dragonessa puntò a nord-ovest e cominciò a volare verso la capitale degli elfi con un battito d'ali lento e possente.

♦ ♦ ♦

SCONTRO DI ARIETI

L'assalto alla carovana degli approvvigionamenti si svolse come aveva pianificato Roran: tre giorni dopo aver lasciato l'accampamento dei Varden, lui e i suoi compagni a cavallo piombarono dal ciglio di un dirupo e attaccarono sul fianco il convoglio di carri. Nel frattempo, gli Urgali balzarono fuori da dietro i massi sparpagliati sul fondovalle e attaccarono l'avanguardia del convoglio, obbligandolo a fermarsi. I soldati e i conducenti dei carri reagirono con coraggio, ma l'imboscata li aveva colti ancora insonnoliti e disorganizzati, e ben presto le forze di Roran ebbero la meglio. Nell'attacco non morirono né umani né Urgali, e ci furono soltanto tre feriti: due umani e un Urgali.

Roran uccise diversi soldati, ma perlopiù restò in disparte, concentrato a impartire ordini come era suo compito. Era ancora rigido e dolorante per le frustate, e non voleva sforzarsi più del necessario nel timore che le croste che gli ricoprivano la schiena si riaprissero.

Fino a quel momento non aveva avuto difficoltà a mantenere la disciplina fra i venti umani e i venti Urgali. Anche se era evidente che nessuno dei due gruppi si fidava dell'altro - un atteggiamento che lui condivideva, perché guardava gli Urgali con lo stesso sospetto e disgusto di ogni uomo cresciuto dalle parti della Grande Dorsale - erano riusciti a lavorare insieme per tre giorni senza che nessuno alzasse mai nemmeno la voce. Roran sapeva che il fatto che i due gruppi fossero riusciti a collaborare aveva poco a che vedere con il suo valore di capitano. Nasuada e Nar Garzhvog avevano scelto con gran cura i guerrieri che dovevano viaggiare con lui, selezionando solo i più veloci con le armi, quelli dotati di buonsenso e soprattutto di un carattere saldo e pacato.

Tuttavia, dopo l'attacco al convoglio, mentre i suoi uomini erano impegnati ad accatastare i corpi dei soldati e dei conducenti, cavalcando su e giù lungo la linea dei carri per controllare il lavoro Roran sentì dei gemiti provenire dalla coda della carovana. Pensando che un altro contingente di soldati li avesse colti di sorpresa, urlò a Carn e ad altri uomini di raggiungerlo, poi diede di sprone nei fianchi di Fiammabianca e galoppò verso la retroguardia dei carri.

Quattro Urgali avevano legato un soldato nemico al tronco nodoso di un salice e si stavano divertendo a colpirlo e a punzecchiarlo con le spade. Lanciando un'imprecazione, Roran saltò giù da Fiammabianca e con un solo colpo di martello pose fine all'agonia dell'uomo.

Una nuvola di polvere investì il gruppo quando Carn e altri quattro guerrieri sopraggiunsero al galoppo. Tirarono le redini dei loro destrieri e si schierarono ai lati di Roran, tenendo le armi pronte.

L'Urgali più grosso, un ariete di nome Yarbog, si fece avanti. «Fortemartello, perché hai interrotto il nostro divertimento? Lo avremmo fatto ballare ancora per un po'.»

A denti stretti Roran rispose: «Finché siete sotto il mio comando non torturerete i prigionieri senza motivo. Mi avete capito? Molti di questi soldati sono stati costretti con la forza a servire Galbatorix. Molti di loro sono nostri amici, o familiari, o vicini, e anche se dobbiamo combatterli, non vi permetterò di trattarli con inutile crudeltà. Se non fosse per un capriccio del fato, ciascuno di noi umani potrebbe trovarsi al loro posto. Non sono loro il nostro nemico; Galbatorix lo è, ed è anche il vostro.»

L'Urgali corrugò la fronte sporgente, oscurando i gialli occhi infossati. «Ma voi li uccidereste comunque, no? E allora perché noi non possiamo divertirci a vederli contorcersi e ballare prima?»

Roran si domandò se il cranio dell'Urgali fosse troppo spesso per spezzarlo con una martellata. Sforzandosi di contenere la rabbia, disse: «Perché è sbagliato!» Poi indicò il soldato morto. «E se lui fosse stato uno della vostra stessa razza, uno di quelli stregati dallo Spettro Durza? Avreste tormentato anche lui?»

«Certo» disse Yarbog. «Uno dei nostri avrebbe voluto essere tormentato dalle nostre spade in modo da provare il proprio coraggio prima di morire. Non è lo stesso per voi umani senza corna, o non sapete sopportare il dolore?»

Roran non sapeva quanto potesse essere grave fra gli Urgali chiamare qualcuno senza corna, ma sapeva anche che mettere in dubbio il coraggio di qualcuno era offensivo sia per gli Urgali che per gli umani. «Chiunque di noi è capace di sopportare il dolore in silenzio meglio di voi, Yarbog» disse, stringendo la presa su martello e scudo. «Ora, a meno che tu non voglia provare un dolore che non ti immagini neppure, consegnami la spada, poi slega quel poveraccio e portalo fra gli altri corpi. Dopodiché vai ad accudire i cavalli da soma. Te ne dovrai occupare finché non torneremo dai Varden.»

Senza aspettare replica, Roran si volse e, afferrando le redini di Fiammabianca, si preparò a montargli in sella.

«No» grugnì Yarbog.

Roran si bloccò con un piede nella staffa e imprecò fra i denti. Aveva sperato fino all'ultimo che durante la missione non si verificasse mai una situazione del genere. Si voltò e disse: «No? Ti rifiuti di obbedire ai miei ordini?»

Arricciando le labbra per mostrare le corte zanne, Yarbog disse: «No. Ti sfido per il comando di questa tribù, Fortemartello.» L'Urgali gettò indietro la testa massiccia e ululò così forte che tutti gli Urgali e gli umani lasciarono le loro occupazioni e corsero verso il salice, finché tutti e quaranta non si furono ammassati intorno a Yarbog e Roran. «Vuoi che ci occupiamo noi di questa creatura per te?» chiese Carn ad alta voce.

Roran avrebbe preferito che non ci fossero tanti spettatori. Scosse il capo. «No, me ne occuperò personalmente.» Malgrado le sue parole, era contento di avere accanto i suoi uomini, contrapposti alla fila dei grossi Urgali dalla pelle grigia. Gli umani erano più piccoli degli Urgali, ma tutti, tranne Roran, erano a cavallo, il che avrebbe dato loro un piccolo vantaggio se fosse scoppiata una battaglia fra i due gruppi. D'altro canto la magia di Carn sarebbe servita ben poco, perché gli Urgali avevano un loro stregone, uno sciamano di nome Dazhgra, e da quanto Roran aveva visto fra i due era Dazhgra il mago più potente, anche se non era altrettanto esperto nelle varie sfumature delle arti arcane.

Rivolto a Yarbog, Roran disse: «Non è usanza dei Varden assegnare il comando in base a un duello. Se vuoi combattere, combatterò, ma non ci guadagnerai nulla. Se io perdo, Carn assumerà il comando e tu dovrai rispondere a lui.»

«Bah!» esclamò Yarbog. «Non ti sfido per il diritto di comandare la tua stessa razza, ti sfido per il diritto di guidare noi, gli arieti combattenti della tribù Bolvek! Non hai dimostrato il tuo valore, Fortemartello, perciò non puoi rivendicare il comando. Se perdi, diventerò io il capo e non dovremo più esporre la gola a te, o a Carn, o a qualunque altra creatura troppo debole per meritarsi il nostro rispetto.»

Roran valutò la situazione prima di accettare l'inevitabile. Anche a costo della vita, doveva cercare di mantenere l'autorità sugli Urgali, o i Varden li avrebbero persi come alleati. Trasse un profondo respiro e disse: «L'usanza fra quelli della mia razza è che sia la persona sfidata a scegliere l'ora e il luogo del duello, così come le armi da usare.»

Con una risata gutturale, Yarbog replicò: «L'ora è adesso, Fortemartello. E il luogo è questo. E fra quelli della mia razza si combatte con un perizoma e disarmati.»

«Questo non è giusto, perché io non ho le corna» sottolineò Roran. «Accetti di farmi usare il martello per compensare alla mancanza?»

Yarbog ci pensò, poi disse: «Potrai tenere l'elmo e lo scudo, ma niente martello. Le armi non sono ammesse quando si combatte per il comando.»

«Capisco... Bene, se non posso avere il martello, allora farò a meno anche dell'elmo e dello scudo. Quali sono le regole e come si decreta il vincitore?»

«C'è soltanto una regola, Fortemartello: se fuggi, perdi il duello e sei bandito dalla tua tribù. Si vince obbligando l'avversario ad arrendersi, ma visto che io non mi arrenderò mai, combatteremo fino alla morte.»

Roran annuì. Forse è quello che vuole lui, ma io non lo ucciderò, se posso evitarlo. «Cominciamo!» gridò, e batté il martello sullo scudo.

Dietro sue indicazioni, gli uomini e gli Urgali sgombrarono uno spazio al centro della gola e delimitarono un quadrato di dodici passi per dodici con dei paletti. Roran e Yarbog si spogliarono e due Urgali spalmarono del grasso d'orso sul corpo di Yarbog, mentre Carn e Loften, un altro umano, facevano lo stesso con Roran.

«Mettetene parecchio sulla schiena» mormorò Roran. Voleva ammorbidire il più possibile le croste per evitare che si riaprissero le ferite.

Avvicinandosi al suo orecchio, Carn gli chiese: «Perché hai rifiutato lo scudo e l'elmo?»

«Mi rallenterebbero. Dovrò essere veloce come un coniglio spaurito se non voglio essere incornato.» Mentre Carn e Loften gli ungevano le membra, Roran studiò l'avversario in cerca di un punto debole che lo aiutasse a sconfiggere l'Urgali.

Yarbog superava i sei piedi d'altezza. Aveva le spalle larghe, il torace ampio, gli arti gonfi di muscoli. Il collo era grosso quanto quello di un toro per poter sostenere il peso della testa e delle corna ricurve. Il fianco sinistro era segnato da tre cicatrici oblique, là dov'era stato artigliato da un animale. Su tutta la pelle gli crescevano rade setole nere.

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