Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze

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  • Название:
    Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze
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  • Издательство:
    Литагент «АСТ»c9a05514-1ce6-11e2-86b3-b737ee03444a
  • Год:
    2015
  • Город:
    Москва
  • ISBN:
    978-5-17-085092-1
  • Рейтинг:
    3.67/5. Голосов: 91
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Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze краткое содержание

Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze - описание и краткое содержание, автор Франческо Доменико Гверрацци, читайте бесплатно онлайн на сайте электронной библиотеки LibKing.Ru

В книгу вошел сокращенный и незначительно упрощенный текст романа классика итальянской литературы Ф. Д. Гверрацци «Осада Флоренции». Увлекательный сюжет, описание значимых исторических событий и романтическая составляющая – все это делает роман превосходным материалом при изучении итальянского языка.

Текст произведения сопровождается постраничными комментариями, а также небольшим словарем, облегчающим чтение.

Книга может быть рекомендована всем, кто продолжает изучать итальянский язык (Уровень 4 – для продолжающих верхней ступени).

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“Consolatevi… io vado…”

“Va dunque, ma prima ascolta queste mie brevi parole. Sai tu bene che voglia dir pazzo e che dir savio? Se pazzo è quegli che sul pericolo, addormentandosi, confida a mano ignota la spada che può ferirlo, le chiavi della città allo straniero, già non sono io il pazzo. Tu ti pensavi savio dubitando delle mie parole e ricusando l’andare; eppure fa il tuo conto: andando, forse getterai i passi e avviserai la gente di un pericolo vano: e per altra parte forse tu scoprirai un tradimento, la patria pericolante sosterrai, a mille cittadini la roba salverai e la vita. Or, se tu fossi savio, ti par lui che tra queste due vicende si possa tentennare, tra la permanenza e l’andata? Prima di credere pazzo il tuo fratello, pensaci due volte, e sappi che sovente i consigli di coloro che il mondo reputa savi appaiono miserabili all’alienato di mente: adesso vola”.

E Ludovico senz’altre parole aggiungere si poneva tra le gambe la via. Intanto il cielo aveva mutato aspetto, l’aria si era fatta uliginosa, e d’ora in ora l’agitava un vento soffocante come l’alito del deserto; via trasvolando pel cammino abbandonato, Ludovico udiva sibili spaventevoli, gemiti arcani d’ignoti addolorati. Trovato Dante da Castiglione e Lodovico Martelli, Vico con compagni si mise in agguato vicino al palazzo dove si trovava Malatesta Baglioni. Pur troppo Pieruccio aveva scoperto il vero: tre uomini stavano dietro il palazzo, e sovente con empie imprecazioni dimostravano la impazienza loro, come quelli che avevano lungamente aspettato invano.

Alla fine comparve un punto nero dalla lontana, il quale andava ingrandendosi a mano a mano che si accostava. Pervenuto a convenevole distanza, uno di coloro che aspettavano gli messe contro la voce dicendo:

“Come ti chiami?”

“Mi chiamo Odio; e tu?”

“Vendetta.”

“Vieni dunque, sposiamoci; ci sono amiche le tenebre, e gli spettri assisteranno ai nostri sponsali.”

“Quale è il dono delle nozze che mi dai?”

“Io ti darò un pugnale”.

“Il tuo pugnale ì corto”.

“Basta per giungere al cuore dei nostri nemici”.

Allora si accostarono, si strinsero le mani e stavano per cominciare il colloquio, quando, non si potendo più frenare, il Castiglione proruppe:

“Ahi! traditori, siete tutti morti”. E, balzato di un salto fuori della siepe, prese a minacciare i traditori col ferro.

Vico, Pieruccio e il Martelli lo seguono cacciando urli spaventevoli.

Capitolo Decimonono

La sfida

I congiurati, dalla subita apparizione soprafatti, dai forti gridi atterriti, mal potendo distinguere quanta gente e quale venisse loro addosso, si volsero a fuga precipitosa. Il Martelli coll’ardore del veltro si pose alla ventura dietro le tracce di uno fra loro; passarono il borgo di Santo Iacopo; con uguale prestezza la piazza di Santo Spirito traversarono, il canto alla Cuculia e le vie contigue della Fogna, del Leone e dell’Orto; non profferirono parola, imperciocchì la rapidità del corso loro impedisse la voce; erano entrambi gagliardi, entrambi di pié velocissimo, sicché l’uno poneva l’orma dove l’altro la lasciava, e spesso il fuggitivo sentì rimanersi svelti i capelli tra le dita dell’inseguente e dall’alito infiammato di lui avvamparsi le guance; continuano la fuga e la cacciata per Camaldoli, per Borgo San Frediano, lungo le mura, e riescono al Ponte alla Carraia. Qui lo inseguito avendo il buon tratto precorso il suo persecutore, si fermò e, quasi vergognando essersi lasciato vincere dalla paura, gitta via la veste di frate che lo impaccia, e, tratta la daga, si pone a capo del ponte in atto di difesa.

Quantunque il Martelli non avesse gridato accorruomo, pure, correndo vicino alla Porta San Friano, le milizie quivi stanziate udirono il rumore, ed alcuno di loro, mosso da vaghezza o da comando, si pose per buon rispetto a seguitarlo. Lui però travolto da quell’impeto non se n’era accorto, e comecchì al paragone dell’inseguito gli fosse mancata la lena, nondimeno precorreva di assai coloro che gli si erano fatti compagni.

Il fuggitivo, se lo vedendo accostare, stette in forse di ucciderlo e poi riprendere il corso; ma considerando come l’inseguente si avvicinasse lui pure con la spada nuda, nì dalle sembianze apparisse uomo da spacciarsi così ad un tratto, temé perder tempo a chiudersi ogni strada allo scampo, onde ì che, di nuovo voltate le spalle, passasse il Ponte della Carraia.

Il Martelli, confortato dal pensiero di vederselo più vicino, immaginando costui avesse fatto sosta a riprender lena e baldanzoso per riputarsi sul punto di arrestarlo, raddoppia lo sforzo, sicché in quella fuga rovinosa, percorrendo nel buio della notte uno spazio sospeso tra le acque e il cielo, non muovendo altro rumore che quello dei passi velocissimi, si assomigliavano alla visione della donna scapigliata inseguita dallo spirito del cavaliere Giuffredi intorno alla fossa dei carboni ardenti, esposta dal dottore Elinando di santa memoria, a conforto dei buoni e per terrore dei tristi.

Così trasvolando pervennero in via di Parione; colà sul canto che mena alla Vigna Nuova stette una casa onorata di cui adesso non rimangono vestigi.

Sebbene alta fosse la notte, una finestra di cotesta casa appariva illuminata da luce solitaria, quale si addice alla veglia di un filosofo o alla insonnia di un penitente. A quel punto si dirige il fuggitivo; e giuntogli dappresso, manda un fischio acutissimo. Allora fu veduta balenare la luce, come fiamma che si accenda nelle notti di estate, e sembra stella che tramuti luogo . Il fuggitivo scomparve voltando il canto, e Ludovico, di cui all’anelito sofferto per la fatica si aggiunse un palpito più veemente del primo, giunto a capo della via, si volse bramoso e non vide né udì più nulla: il fuggitivo era scomparso. Allora Ludovico pensando alla veste di frate, al luogo, ad una certa rimembranza confusa delle forme del fuggitivo, al lume mosso, un lampo sinistro d’intelligenza gli strisciò sull’anima, sentì riardergli un’ira feroce le viscere. Si avvicinò alla casa di Maria Benintendi.

Nuovi forti colpi e di mano in mano tempestavano alla porticella; sicchì la Maria, timorosa non destassero il vicinato, fattosi cuore, si reca in mano la lampada e scende:

“Ch’è questo, messeri?”

“Aprite in nome della Signoria.”

“Messeri, io sono gentildonna e sola in casa; questa magione appartiene a Niccolò Benintendi, che stanotte è dei Buonuomini al palazzo; – però avete tolto sbaglio, e lasciatemi in pace”.

“Se sola vi trovate o accompagnata, poco c’importa. Noi non iscambiamo dimora; aprite di queto od atterriamo la porta.”

Maria per lo men reo consiglio, paventando peggio, aperse l’uscio. Ludovico Martelli non aveva ad arte alterato la voce; in breve spazio anima e corpo gli aveva così stravolto la sua fiera fortuna ch’egli stesso, non che altri, non sarebbe giunto a riconoscersi per quello che fu; gli occhi a mezzo chiusi e invetriati, come quelli dell’etico; i muscoli del volto rigidamente immobili, la bocca aperta, i labbri cadenti, e d’ora in ora un anelito impetuoso gli prorompeva dalle narici dilatate; spaventevole a vedersi come la testa mozza che il carnefice afferra pei capelli e mostra in testimonio di ferocia ai popoli stupiditi.

E di vero Maria ne rimase spaventata: col capo inclinato verso la spalla, pallida, quasi vinta dal fascino, si pose a salire la scala. Il Martelli poneva il piede dove ella moveva il suo. Pervenuti a mezzo della domestica cappella, si fermarono, l’uno di faccia all’altra, né si guardavano né movevano labbro....

Finalmente Ludovico, continuando nella sua immobilità, con voce che gli usciva dai precordii incominciò a favellare: “Svelami traditore che hai riparato qua dentro....”

“Traditore?” – esclama Maria dimostrando col gesto altissimo sdegno, – “dov’ì il traditore?”

“Non te l’ho detto? Qui”.

“Io non conosco traditori....”

“Donna, che, piena dentro di putredine, tu ti mostrassi di fuori parete scialbata, bene sta: ella è questa la vostra parte, femmine! ma che in breve spazio tu abbi perduto il rimorso e il pudore, ciò, per Dio, mi spaventa. Qual è il verme velenoso che così subito guastò il bell’albero della tua vita? Or dove ti nascondi codardo dal fiato velenoso? Esci fuori…” Nessuno risponde. Dopo lungo silenzio Ludovico continua:

“O patria mia! uomini che non ardiscono mostrare la fronte t’insidiano nell’ombra; quando la notte ì più buia essi aguzzano il pugnale e ti aspettano al varco, come il ladrone sulla pubblica via!”

E di nuovo si tacque, poi con gran voce riprese:

“Esci, codardo, esci”.

Così favellando si aggirava per la stanza, quando all’improvviso levando la faccia vide un cavaliere di truce sembianza appoggiato su l’elsa della spada in atto di quiete minacciosa: lui allora, gli si avventando addosso, interrogò:

“Tu sei un traditore!…”

“Io sono Giovanni Bandini, e sgombrami il passo”.

“Tu di qui non uscirai, se non che morto”.

“Figlio di madre infelice tu sei, se più oltre ti ostini a impedirmi il cammino; ritirati, tu ne hai tempo ancora; io non voglio vederti; sappi che di rado ho replicati i miei colpi; vattene… e vivi”.

“Anzi io rimango, e muori; domani il carnefice ti scriverà l’epitafio su la cima della forca. Bandino, domani manderò la sfida e chiederò il campo a messere lo principe… badate di non ricusarla....”

“Tale e così insopportabile obbligo ho teco per avere salvata la mia vita, che in nessun altra maniera potrei sdebitamene, se non che togliendoti la tua. Il mio odio diventò, pel tuo benefizio, immortale. Apparecchiati a morire.... Addio”.

Capitolo Ventesimosecondo

Il duello

Pagolo Spinelli, soldato vecchio di moltissima esperienza, padrino di Ludovico, con certo suo piglio soldatesco, presentatosi davanti al principe di Orange, il quale, tostochì vide entrare nella sua tenda cotesta nobile comitiva, si era alzato insieme co’ suoi baroni per complirla, proferì pacato le seguenti parole:

“Signor principe, sono qui il mio principale, messere Ludovico Martelli e il principale del capitano Giovanni di Vinci mio collega, messere Dante da Castiglione, i quali si apprestano al vostro cospetto con loro cavalli ed armi, in abito da gentiluomini, per entrare in campo chiuso e combattere messere Giovanni Bandino e messer Roberto Aldobrandi, che qui vedo presenti, loro avversari, col nome di Dio, di Nostra Donna e di San Giorgio il prode cavaliere, secondo il tempo e il luogo da voi medesimo assegnati con vostra patente del dì primo marzo 1529. Loro stanno allestiti a fare il debito loro e vi ricercano che vogliate dar loro parte del campo e sicuranza, dove confidano vincere con lo aiuto di Dio e col favore dei santi. E poichì hanno i miei principali concesso agli avversarii la scelta dell’arme, si protestano di questa capitolazione, la quale, dopo che sarà da me letta, depositerò nelle mani vostre per rimanervi come giudice ad ogni buon fine di ragione”.

Don Ferrante Gonzaga allora si trasse innanzi col conte Pier Maria Rossi di San Secondo, ambedue patrini del Bandini e dell’Aldobrandi, e favellando il primo tal dava risposta alle dichiarazioni del capitano Pagolo Spinelli:

“Signor principe, qui stanno i nostri principali messer Giovanni Bandini e messere Ruberto Aldobrandi, pronti a scendere in campo chiuso e sostenere con lo aiuto di Dio, di Nostra Donna e di san Giorgio, a tutta oltranza, finchì morte ne segua, la querela avuta dagli attori falsa e mendace; protestano accettare tutte e singole le cose contenute nella capitolazione avversaria; protestano voler combattere in camicia, con istocco, manopola scempia di ferro, cioì fino al polso, senza difesa in testa. Più presto fia, e meglio loro aggrada”.

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