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Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze

Тут можно читать онлайн Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze - бесплатно ознакомительный отрывок. Жанр: foreign-prose, издательство Литагент «АСТ»c9a05514-1ce6-11e2-86b3-b737ee03444a, год 2015. Здесь Вы можете читать ознакомительный отрывок из книги онлайн без регистрации и SMS на сайте LibKing.Ru (ЛибКинг) или прочесть краткое содержание, предисловие (аннотацию), описание и ознакомиться с отзывами (комментариями) о произведении.
Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze
  • Название:
    Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze
  • Автор:
  • Жанр:
  • Издательство:
    Литагент «АСТ»c9a05514-1ce6-11e2-86b3-b737ee03444a
  • Год:
    2015
  • ISBN:
    978-5-17-085092-1
  • Рейтинг:
    3.66/5. Голосов: 91
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Франческо Доменико Гверрацци - Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze краткое содержание

Итальянский с любовью. Осада Флоренции / Lassedio di Firenze - описание и краткое содержание, автор Франческо Доменико Гверрацци, читайте бесплатно онлайн на сайте электронной библиотеки LibKing.Ru

В книгу вошел сокращенный и незначительно упрощенный текст романа классика итальянской литературы Ф. Д. Гверрацци «Осада Флоренции». Увлекательный сюжет, описание значимых исторических событий и романтическая составляющая – все это делает роман превосходным материалом при изучении итальянского языка.

Текст произведения сопровождается постраничными комментариями, а также небольшим словарем, облегчающим чтение.

Книга может быть рекомендована всем, кто продолжает изучать итальянский язык (Уровень 4 – для продолжающих верхней ступени).

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“La morte! la morte!” – gridò più alto il pontefice negli orecchi all’imperatore.

“La morte! ” – proruppe Carlo V, – “che fa a me la morte? I codardi soccombono a questo pensiero, gli animosi lo portano come una corona di fiori. È meglio lasciare l’opera interrotta che non incominciata… I monumenti più grandi che il mondo conosca si devono al pensiero della morte – parlo delle Piramidi. La morte sta nelle mani di Dio, l’uso della vita in quelle dell’uomo. La mia anima abbisogna che la testa del suo corpo si posi nella vecchia Europa, il tronco in Africa e in Asia, i piedi in America. Io non anche percorsi la curva ascendente della mia vita, non giungo ancora a trent’anni; e se in questo punto mi toccasse la morte, come Cesare Augusto potrei domandare ai miei amici, ai miei nemici, a voi stessi: parvi ch’io abbia ben sostenuta la mia parte nel mondo? Le imprese da me fino a questo punto operate, se non possono la mia fama a quella di Alessandro Magno anteporre, bastano ad avvilupparmi in un sudario che mi salvi dal verme dell’oblio. Se adesso io morissi, il cuore mi assicura che gli uomini direbbero: meritava vivere di più. Papa Clemente, se voi moriste adesso, che cosa pensate il mondo fosse per dire di voi? Lui è vissuto troppo poco, o è vissuto anche troppo?”

Clemente tacque. Guardato prima con molta diligenza un taccuino che si cavò dal seno di sotto alla mezzetta, rispose:

“Più nulla”.

“A quando l’incoronamento?”

“I vostri ufficiali di cerimonie possono concertarne il tempo e le forme col maestro del sacro palazzo”.

“Addio, dunque, Beatissimo Padre”.

E Carlo disparve, le porte si chiusero, Clemente si trovò solo nella stanza. Allora, declinato il capo sul camino, meditò per lunghissima ora: all’improvviso si muove e si pone davanti alla sedia che occupò l’imperatore durante il colloquio:

“Carlo d’Austria!” – cominciò a dire alzando il dito e comprimendolo sopra l’angolo della tempia destra, “le libertà dei comuni di Spagna, i privilegi delle città dei Paesi Bassi, le prerogative degli Stati Germanici ti avviluppano dentro rete validissima. Tu ti sforzi con ogni ingegno per divorarli; bada, Maestà, il tarlo rodendo si scava la tomba. La tua potenza non uguaglia il tuo orgoglio, i vasti concetti della tua mente non posano sopra anima in proporzione vigorosa; se pieno di forza rassomigli al sole di estate, come quel sole ogni giorno il tuo spirito tramonta. Maestà, tu mi hai supplicato per ottenere dalle mie mani una corona; ah semplice che fosti! io sarei venuto in capo al mondo per offrirtela; prostrati, Maestà, umiliati, Perché mi tarda importi questa corona sul capo; io la circonderò di punte invisibili e angosciose, le quali ti penetreranno nel cranio scompigliandoti il pensiero, turbandoti del continuo la coscienza. Io ti adatterò la corona sul capo come il collare al collo dello schiavo; che importa a me di cingertene il collo, la mano, il piede o la testa? Non per questo tu diventi meno servo alla chiesa romana! Affrettati a prostrarti, Maestà: io m’innalzerò tanto, quanto tu l’abbasserai; e allorchì, Maestà, avrai baciato la polvere dei miei calzari, ti travaglierai indarno per dominarmi sul capo. Rendimi grande con la tua viltà e in processo di tempo se vorrai abbattere l’idolo che tu stesso avrai fatto grande, o non ci riuscirai, o rimarrai infranto sotto la rovina di quello”.

Capitolo Quarto

La incoronazione

Finalmente il santo padre cinse a Carlo le chiome della corona imperiale. Carlo allora, giusta le formalità, si prostrava curvandosi al bacio dei piedi santi. Era però convenuto che il papa non gli lascerebbe compiere l’atto, e rilevatolo a mezzo, lo avrebbe stretto tra le braccia e baciato nel volto. Ma come resistere alla compiacenza di vedersi innanzi prostrato un signore di tante provincie? Non tutti i giorni si trovano imperatori da rinnovare tale ossequio; e poi, Clemente lo aveva già detto, si sarebbe di tanto rialzato il sacerdozio quanto abbassato l’impero. Si dimenticava pertanto del convenuto: il coronato stette lunga pezza nell’attitudine dello schiavo: in quel punto la corona gli pesò sul capo come se fosse stata una montagna; allora gli parve che il mondo, poc’anzi da lui sorretto nella mano, adesso di tutto il suo peso gli gravitasse sul corpo: come il serpente della Scrittura, lui si nudrì di cenere e la sentì amara, senza misura amara; sicché il suo cervello, compresso dal pentimento, dalla umiliazione e dalla rabbia, stillò una goccia di sudore, la quale, come quella dell’anima dannata dello scolare apparsa al suo maestro di filosofia, secondo che racconta frate Jacopo Passavanti [6]nello Specchio della vera penitenza , avrebbe avuto virtù di traforare da una parte all’altra con insanabile piaga i piedi del pontefice, se per avventura ci fosse caduta sopra.

Fuori del tempio il popolo urlava, insaniva, fremeva a guisa di baccante scapigliata; Perché nessuna scintilla d’intelletto gli balenasse su l’anima, qui ì pane, qui copia di vino, camangiari e giullari. Sopra una colonna di marmo stava l’aquila imperiale; la quale da uno de’ suoi becchi versava vino rosso, dall’altro vino bianco, e giù intorno alla base della colonna vedevi prostesi uomini deturpati da oscena ubbriachezza. Sicché l’Alamanni [7]a questo spettacolo ebbe a dire: Ecco l’aquila imperiale rende oggi a spiluzzico alla gente italica il sangue che loro bevve a lunghi sorsi in tanti anni e le lacrime che le fece in copia versare; ma gliele rende stemperate nel veleno della stupidità.

Ahi! popolo, io che ho viscere di umanità e sono parte di te, conosco le tue miserie e le compiango. Bevi, procurati un sonno uguale alla morte; le tue gioie consistono nel non sentire i tuoi dolori. Ora tu sei condotto in piazza, come l’orso ammansito, per sollazzare i tuoi sovrani padroni.

Dalle finestre, dai terrazzi lui ordina che ti siano gettati pane e carne. Potessi cibarti per un anno e approvigionarti lo stomaco, come la cittadella che teme l’assedio, saresti meno infelice; ma domani l’insolito cibo ti recherà molestia, forse anche la morte. Feste, forni e forche; ecco la somma dei paterni argomenti con i quali ti governano i tuoi signori. Domani tornerai a logorarti nelle consuete officine, a bagnare di sudore i solchi dei campi; quivi travagliati da mattina a sera, e l’opera delle tue mani, il sudore della tua fronte devotamente consegna ai re e ai sacerdoti tuoi. Questi ti lasceranno la vita, ti lasceranno un pane, il cielo che ti copre e il sole che ti scalda… o che non basta? Indiscreto! Via, ti lasceranno tanto spazio di terra da riporci dentro le tue ossa, perché non le rodano i cani, ed ancora perché morto tu col fetore non gli offenda dopo che vivo tanta recasti loro gravezza e molestia.

Capitolo Quinto

Papa Clemente VII

Clemente papa ora se ne sta ridotto nella stanza più riposta del suo palazzo: essa [8]era di forma ottagona con bellissime colonne di ordine ionico. Da quattro lati ci fanno capo altrettante porte di rare modanature come sapeva condurre la eccellenza dell’arte così comune in quei tempi; gli altri sodi appariscono ornati di quadri rappresentanti martiri di santi, membra segate, capi fessi, brindelli laceri, che infondono, piuttosto che riverenza, ribrezzo; intorno all’architrave superiore si innalza una parete che gli architetti chiamano tamburo, e sul tamburo una cupola elegante a imitazione delle forme immaginate dal divino Brunellesco. Il servo andasse ad aprire la porta, dicendo:

“Ecco gli oratori fiorentini.”

Si apersero le porte, e comparvero Nicolò Capponi, Luigi Soderini, Jacopo Guicciardini e Andreuolo di messer Otto Nicolini, oratori del comune di Firenze. Giunti appena che furono al Pontefice, e si prostrarono al bacio dei santi piedi: ma Clemente, rilevandoli con la voce e con i gesti favellava:

“Alzatevi, messere Nicolò e voi messere Andreuolo; su via, messeri Luigi e Iacopo, sedetevi. L’imperatore ha da curvarsi al cospetto nostro e baciarci i piedi: voi poi siete parenti, amici, tutti figli della medesima madre. Messere Nicolò, che cosa fanno Piero e Filippo vostri? Venite, parliamo di Firenze nostra in famiglia. A quale stato la povera città si trova condotta adesso?”

“Dentro”, – rispose severo messere Nicolò, – “non si patisce difetto di animo né di vettovaglia né d’armi: i barbari fuori, raccolti ai nostri danni, tagliano le viti, ardono gli ulivi, le case distruggono, i popoli uccidono o sperdono. Tanta e sì grande ingiuria appena potrebbe cagionare il terremoto; più poca ne farà il giorno finale; dappertutto seminano il deserto…”

“O Firenze mia, dove ti porteranno questi sconsigliati? Vediamo, fratelli, di rinvenire fra noi modo che valga a salvarla dalla rovina. Accordiamoci a cacciare via i barbari che la divorano… queste immani bestie tedesche, che dalla voce e dall’aspetto non hanno niente di umano, come scriveva la buona anima del nostro messere Nicolò....”

“Padre Santo, fuori di misura piacevole riesce allo spirito nostro contristato”, – riprese a dire il Capponi, —“l’intendere la buona mente della Santità Vostra verso la patria comune… vostra [9]madre e mia. Brevi i patti della pace e consentanei al giusto. La libertà si conservi, si restituisca il dominio, del presente reggimento nulla s’innuovi”.

“Libertà!” – interruppe il Pontefice a mano a mano infervorandosi nel dire: “e parvi libertà questa dove senza ragione parte dei cittadini s’imprigionano, molti più si perseguitano, alcuni si mettono crudelissimamente a morte? Vi sembrano modi civili ardere il palazzo Salviati a Montughi, ardere il nostro a Careggi, proporre di spianare l’altro a Firenze e farci una piazza in vituperio della casa Medici chiamata dei Muli? Ditemi si ì onesto e ordinato quando nella città i più tristie senza pena penetrano nei tempi di Dio, le immagini votive dei miei maggiori riducono in pezzi, me tamburano e vogliono dichiarare ribelle, me vicario di Cristo appiccano in casa Cosimino? Non parliamo di questo. Or via, nobili uomini, alsoltatemi: io voglio avere un reggimento Firenze dove, senza offendere la libertà, uno della mia famiglia, o Ippolito o Alessandro, sia considerato come principale cittadino, voi altri ottimati della città gli componiate un senato il quale insieme con lui attenda alle pubbliche bisogne. Poichì le fortune e la virtù di per sì stesse distinguono l’uomo e il cittadino della povertà e dalla ignoranza, sanzioniamo con legge quanto apparisce necessità di natura”.

“I padri nostri si legarono una volta, combatterono i grandi e li vinsero: adesso noi, degeneri dalla virtù paterna, vorremo al nostro posto istituirci grandi e porre nella nostra terra il mal germe di prossima discordia?…”

Clemente soprastette alquanto prima di rispondere, imperciocchì vedeva ogni arte riuscirgli meno; finalmente, tenendo la faccia dimessa a terra favellò:

“Rimettetevi dunque nelle mie braccia: io mi comporterò con voi non come sudditi ribelli, ma come figliuoli [10]traviati.”

Iacopo Guicciardini, sentendosi divampare il sangue, l’ira prorompergli dai precordi, gridò: “Sudditi ribelli! Alla croce di Dio, da quando in qua siete voi re di Firenze, Giulio dei Medici? Cristo solo governa come principe la nostra città.... Aprite, Giulio, l’animo vostro intero. Ormai non ingannate nessuno, nì uomini nì santi. Voi intendete assoluto signore dominare su Firenze. Voi vorreste che le nostre teste siano scalini per salire sul trono e quindi le prime ad essere calpestate. Portiamo via, liberi uomini, da questa reggia, che non ci subisse sul capo, dacchì l’ira di Dio ci gravita sopra. Fin qui le preghiere e gli scongiuri furono carità patria, adesso sarebbero turpitudine e miseria. Il David del Buonarotti si moverà prima a difendervi che il cuore di questo Filisteo si ammolisca. Venite a giurare nella chiesa di Santa Maria del Fiore di liberare la patria o seppellirci sotto le rovine di lei”. E concitato lo sdegno, da dolore e da impeto inestimabile, pone la mano sul battente della porta per uscire.

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