Volodyk - Paolini2-Eldest

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Le donne portavano i capelli sciolti, che ricadevano sulle loro spalle in morbide onde d'argento e d'ebano intrecciate di fiori freschi. Tutte possedevano una delicata, eterea bellezza che dissimulava la loro forza straordinaria; sembravano prive di qualsiasi difetto. Gli uomini erano altrettanto attraenti, con zigomi alti, nasi diritti e palpebre pesanti. Sia i maschi che le femmine indossavano rustiche tuniche verdi e marroni, bordate con i colori dell'autunno: arancio, ruggine e oro.

Questo è davvero il Popolo Leggiadro, pensò Eragon, e si toccò le labbra in segno di saluto.

Come un sol uomo, gli elfi si inchinarono. Poi sorrisero e levarono risate di gioia sfrenata. Dal centro della folla, una donna intonò:

Gala O Wyrda brunhvitr, Abr Berundal vandr-fódhr, Burthro laufsblàdar ekar undir, Eom kona dauthleikr... Eragon si tappò le orecchie con le mani, temendo che la melodia fosse un incantesimo simile a quello che aveva udito a Sìlthrim, ma Arya scosse il capo e gli scostò le mani dal volto. «Non è magia.» Poi si rivolse al cavallo. «Ganga.» Lo stallone nitrì e trottò via. «Congedate i vostri cavalli. Non abbiamo più bisogno di loro ed essi meritano di riposarsi nelle nostre stalle.»

La canzone crebbe d'intensità mentre Arya avanzava lungo un sentiero lastricato di frammenti di tormalina verde, che serpeggiava fra i cespugli di malvone e le case e gli alberi per poi attraversare un ruscello. Gli elfi danzavano intorno al gruppo, girando su se stessi e ridendo come bambini giocosi; di tanto in tanto qualcuno saltava su un ramo per correre sopra le loro teste. Lodavano Saphira con nomi quali Lungartiglio oppure Figlia dell'Aria e del Fuoco o anche la Possente.

Eragon sorrideva estasiato. Potrei restare a vivere qui, si disse, pervaso da un grande senso di pace. Nascosto nel cuore della Du Weldenvarden, con tanto spazio aperto e tanti anfratti sicuri, dimentico del resto del mondo... Sì, gli piaceva molto Ellesméra, molto più di qualsiasi città dei nani. Indicò una costruzione situata in un pino e chiese ad Arya: «Come fate?»

«Cantiamo alla foresta nell'antica lingua e le diamo la nostra forza per crescere nelle forme che desideriamo. Tutti i nostri manufatti sono realizzati così.»

Il sentiero terminava davanti a un fitto intrico di radici che formavano una serie di nudi gradini. Salirono verso un portale incassato in una parete di giovani alberelli. Il cuore di Eragon accelerò quando i battenti si spalancarono, all'apparenza da soli, per rivelare un'enorme sala alberata. Centinaia di rami si intrecciavano a formare un soffitto a nido d'ape; lungo ciascuna delle due pareti erano disposti dodici scranni.

Su di essi erano seduti ventiquattro elfi, fra dame e signori.

D'aspetto nobile e saggio, con volti lisci senza traccia di età e occhi sagaci che scintillavano di eccitazione, gli elfi si protesero con le mani strette sui braccioli degli scranni, e fissarono il gruppo di Eragon con evidente stupore e speranza. Diversamente dagli altri elfi, portavano spade alla cintura - le impugnature tempestate di berilli e granati - e cerchietti sulla fronte.

In fondo spiccava un padiglione bianco che ospitava un trono di radici nodose, su cui era seduta la regina Islanzadi. Bella come un tramonto d'autunno, altera e orgogliosa, con due scure sopracciglia oblique come ali spiegate, labbra rosse e lucenti come bacche di agrifoglio e capelli neri come la notte cinti da un diadema di diamanti. La sua veste era cremisi. Intorno ai fianchi portava una cintura di filigrana d'oro, e sulle spalle un mantello di velluto che ricadeva in terra in morbide pieghe. Malgrado il suo aspetto imperioso, la regina sembrava fragile, come se nascondesse un grande dolore.

Accanto alla mano sinistra c'era un trespolo ricurvo che terminava con una croce cesellata. Su di esso se ne stava appollaiato un corvo dal candido piumaggio, che spostava impaziente il peso da una zampa all'altra. Tese il collo e scrutò Eragon con straordinaria intelligenza, poi emise un lungo verso rauco e gridò: «Wyrda!» Eragon rabbrividì per la potenza di quell'unica parola gracchiante.

La porta si chiuse dietro i sei, non appena entrarono nella sala avvicinandosi alla regina. Arya s'inginocchiò sul pavimento coperto di muschio e chinò la testa per prima, poi Eragon, Orik, Lifaen e Nari la imitarono. Perfino Saphira, che non si era mai inchinata davanti a nessuno, nemmeno davanti ad Ajihad o a Rothgar, abbassò la testa. Islanzadi si alzò e scese dal trono; lo strascico del mantello fluttuò sulle radici del podio. Si fermò davanti ad Arya, le posò le mani tremanti sulle spalle e disse, con un profondo vibrato: «Alzati.» Arya obbedì, e la regina scrutò il suo volto con tensione crescente, come se stesse cercando di decifrare un testo oscuro.

Alla fine Islanzadi le gettò le braccia al collo, gridando: «Ti ho trattata ingiustamente, figlia mia!»

La regina Islanzadi

Eragon s'inginocchiò al cospetto della regina degli elfi e dei suoi consiglieri in quella sala meravigliosa fatta di tronchi di alberi viventi, in una terra quasi mitica, e l'unica cosa che riusciva a pensare, sbalordito, era: Arya è una principessa! In un certo senso, i conti tornavano - l'elfa aveva sempre avuto una certa aria regale - ma il suo rammarico era profondo, poiché era un'altra barriera fra loro, se mai fosse riuscito ad abbattere le altre. La scoperta gli riempì la bocca col sapore della cenere. Rammentò la profezìa di Angela, secondo cui avrebbe amato una donna di nobile stirpe, e che non era in grado di prevedere se sarebbe andata a finire bene o male.

Percepì anche la sorpresa di Saphira, poi il suo divertimento. La dragonessa disse: A quanto pare abbiamo viaggiato in compagnia di sangue reale senza saperlo.

Perché non ce l'ha detto?

Perché probabilmente questo l'avrebbe messa in pericolo.

«Islanzadi Dròttning» disse Arya in tono formale.

La regina si ritrasse come se l'avessero schiaffeggiata, poi ripetè nell'antica lingua: «Figlia mia, ti ho tratta ingiustamente.» Si coprì il volto. «Da quando sei scomparsa, non ho quasi mangiato o dormito. Ero angosciata per la tua sorte, e temevo di non rivederti mai più. Che terribile, terribile sbaglio ho commesso... Potrai perdonarmi?» Gli elfi riuniti bisbigliarono turbati.

Arya rispose dopo quella che parve un'eternità. «Per settant'anni ho vissuto e amato, combattuto e ucciso senza mai parlarti, madre mia. Benché le nostre vite siano lunghe, questo non è certo un breve periodo.»

Islanzadi si ricompose e alzò il fiero mento, percorso da un lieve tremito. «Non posso disfare il passato, Arya, anche se lo desidero con tutto il cuore.»

«E io non posso dimenticare quanto ho subito.»

«E non devi.» Islanzadi afferrò le mani della figlia. «Arya, io ti voglio bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te.»

Per un terribile momento parve che Arya non volesse rispondere, o peggio, che intendesse rifiutare l'offerta. Eragon la vide esitare e scoccare occhiate fugaci ai presenti. Poi l'elfa abbassò gli occhi e disse: «No, madre. Non me ne andrò.» Islanzadi accennò un sorriso incerto, poi abbracciò di nuovo la figlia. Questa volta Arya ricambiò il gesto, e sui volti degli elfi si dipinsero sorrisi soddisfatti.

Il corvo bianco saltellò sul trespolo, gracchiando: «E sul portale venne inciso a ricordare quel che sarà il motto familiare, Che tra noi ci si possa sempre amare!»

«Zitto, Blagden» intimò Islanzadi al corvo. «Tieni per te le tue rime strampalate.» Liberandosi dall'abbraccio, la regina si rivolse a Eragon e Saphira. «Vi prego di scusarmi per essere stata scortese e avervi ignorati, voi che siete i nostri ospiti più importanti.»

Eragon si toccò le labbra e poi torse la mano destra portandola al petto, come gli aveva insegnato Arya. «Islanzadi Dròttning. Atra esterni ono thelduin.» Non c'erano dubbi su chi dovesse parlare per primo.

Gli occhi neri di Islanzadi si spalancarono. «Atra du evarìnya ono varda.»

«Un atra mor'ranr lifa unin hjarta onr» rispose Eragon, completando il rituale. Capì che gli elfi erano rimasti di stucco nel vedere che conosceva bene le loro usanze. Nella mente, ascoltò Saphira che ripeteva il saluto alla regina. Quando finì, Islanzadi domandò: «Drago, qual è il tuo nome?»

Saphira.

Un lampo di riconoscimento comparve sul volto della regina, ma non fece alcun commento. «Benvenuta a Ellesméra, Saphira. E il tuo, Cavaliere?»

«Eragon Ammazzaspettri, maestà.» Questa volta, gli elfi seduti alle loro spalle mormorarono in maniera più che evidente; perfino Islanzadi parve sorpresa.

«Un nome potente» disse in tono pacato, «che di rado imponiamo ai nostri figli... Benvenuto a Ellesméra, Eragon Ammazzaspettri. Ti aspettavamo da tempo.» Poi si rivolse a Orik, lo salutò e infine tornò a sedersi sul trono, drappeggiandosi lo strascico del mantello di velluto sul braccio. «La tua presenza qui, Eragon, dopo così breve tempo dalla scomparsa dell'uovo di Saphira, come anche l'anello che porti al dito e la spada al tuo fianco, mi fanno supporre che Brom sia morto e che il tuo addestramento con lui sia rimasto incompleto. Avrei piacere di ascoltare innanzitutto la tua storia, compresa la morte di Brom e le circostanze che ti hanno fatto incontrare mia figlia. Poi, nano, vorrò conoscere i motivi della tua missione qui, e infine tu, Arya, mi racconterai le tue peripezìe, fin dall'agguato nella Du Weldenvarden.»

Non era la prima volta che Eragon narrava le proprie avventure, e non ebbe difficoltà a ripeterle davanti alla regina. Nelle rare occasioni in cui la memoria lo tradiva, interveniva Saphira a fornire dettagliate descrizioni degli eventi. Più di una volta, lasciò che fosse lei a raccontare. Quando ebbero finito, Eragon estrasse la pergamena di Nasuada dallo zaino e la consegnò a Islanzadi.

La regina prese la pergamena, ruppe il sigillo di cera rossa e, dopo aver finito di leggere la missiva sospirò, chiudendo gli occhi per qualche istante. «Ora comprendo quanto sia stata grande la mia follia. Mi sarei risparmiata molte sofferenze se non avessi ritirato i miei guerrieri e ignorato i messaggèri di Ajihad, dopo aver saputo che Arya era caduta in un'imboscata. Non avrei mai dovuto incolpare i Varden della sua morte. Per essere tanto vecchia, sono ancora troppo stolta...»

Seguì un lungo silenzio, poiché ovviamente nessuno osava assentire o dissentire. Facendo appello a tutto il suo coraggio, Eragon disse: «Dato che Arya è tornata sana e salva, vorresti concedere di nuovo il tuo aiuto ai Varden? Nasuada non può farcela da sola, e io mi sono votato alla

sua causa.»

«La mia controversia con i Varden è sabbia nel vento» disse Islanzadi. «Non temere. Li aiuteremo come facevamo un tempo, anzi, di più, grazie a te e alla loro vittoria sugli Urgali.» Tese la mano aperta. «Vorresti darmi l'anello di Brom, Eragon?» Senza esitare, lui si sfilò l'anello e lo porse alla regina, che lo prese con le dita affusolate. «Non avresti dovuto portarlo, Eragon, poiché non era destinato a te. Tuttavia, grazie all'aiuto che hai reso ai Varden e alla mia famiglia, ora ti nomino Amico degli Elfi e ti concedo questo anello, Aren, affinchè tutti gli elfi, ovunque tu vada, sappiano che sei degno di fiducia e di aiuto.»

Eragon la ringraziò e si rimise l'anello al dito, profondamente consapevole dello sguardo della regina, che lo fissava in maniera inquietante, come volesse sondargli l'anima. Aveva la sensazione che lei sapesse tutto quello che lui avrebbe potuto dire o fare. La regina dichiarò: «Sono anni che nella Du Weldenvarden non abbiamo notizie di gesta simili a quelle che hai compiuto. Noi siamo abituati a uno stile di vita più lento rispetto al resto di Alagaèsia, e mi preoccupa che siano accadute così tante cose senza che una sola parola raggiungesse le mie orecchie.»

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