Volodyk - Paolini2-Eldest
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«Cosa hai deciso in merito al mio addestramento?» Eragon scoccò un'occhiata furtiva agli elfi seduti, chiedendosi se uno di loro potesse essere Togira Ikonoka, la presenza che lo aveva raggiunto mentalmente e liberato dall'influenza nefasta di Durza dopo la battaglia del Farthen Dùr, e che lo aveva incoraggiato ad andare a Ellesméra. «Comincerà a tempo debito. Purtroppo, temo che istruirti sia vano, finché la tua infermità persiste. A meno che tu non riesca a vincere la magia dello Spettro, non sarai altro che un debole fantoccio. Potrai ancora esserci utile, ma solo come ombra della speranza che abbiamo nutrito per secoli.» Islanzadi parlò senza astio, eppure le sue parole colpirono Eragon come un maglio. Sapeva che la regina aveva ragione. «Non è certo colpa tua se ti trovi in queste condizioni, e mi addolora dar voce a questi pensieri, ma devi comprendere la gravita della tua invalidità... Mi rincresce.» Poi Islanzadi si rivolse a Orik. «È passato molto tempo dall'ultima volta che la tua razza è entrata nei nostri palazzi, nano. Eragon-finiarel ha spiegato i motivi della tua presenza, ma tu hai qualcosa da aggiungere?»
«Soltanto i più cordiali e rispettosi saluti da parte del mio re, Rothgar, e la preghiera, ormai superflua, di riprendere i contatti con i Varden. Inoltre, sono qui per assicurarmi che il patto che Brom ha stretto fra voi e gli umani venga rispettato.»
«Noi rispettiamo sempre le promesse, che vengano pronunciate in questa o nell'antica lingua. Accetto i saluti di Rothgar che ricambio di buon grado.» Alla fine - Eragon era sicuro che la regina desiderava farlo da quando avevano messo piede nella sala - Islanzadi chiese ad Arya: «Ora, figlia mia, dimmi. Cosa ti è accaduto?»
Arya cominciò a raccontare, con voce lenta e monocorde, prima della sua cattura, poi della lunga prigionia e delle torture patite a Gil'ead. Saphira ed Eragon avevano evitato di proposito i dettagli delle violenze da lei subite, ma Arya sembrava non avere difficoltà a parlarne. Quelle descrizioni impassibili suscitarono in Eragon la stessa rabbia di quando aveva visto le sue ferite la prima volta. Gli elfi rimasero in assoluto silenzio durante tutto il racconto, anche se le mani si contraevano sulle impugnature delle spade e i lineamenti si alteravano in espressioni tese di gelida collera. Una lacrima solitària scese lungo la guancia di Islanzadi.
Un nobile elfo si alzò e avanzò flessuoso lungo il corridòio muschioso fra gli scranni. «So di parlare a nome di tutti, Arya Dròttningu, quando dico che il mio cuore è straziato dal dolore per quanto hai patito. È un crimine che travalica ogni scusa, ogni giustificazione e ogni perdono, e Galbatorix dovrà pagare per questo. Inoltre ti siamo debitori per non aver rivelato allo Spettro dove si trovano le nostre città. Pochi di noi avrebbero sopportato tanto, per così lungo tempo.»
«Ti ringrazio, Dàthedr-vor.»
Islanzadi riprese la parola, e la sua voce risuonò argentina come una campana. «Fermiamoci qui. I nostri ospiti esausti attendono in piedi, e abbiamo parlato soltanto di argomenti spiacevoli. Non permetterò che questa occasione venga sciupata dalle ferite del passato.» Un sorriso glorioso illuminò la sua espressione. «Mia figlia è tornata, un drago e il suo Cavaliere sono comparsi, e voglio vedervi celebrare tutti come si conviene!» Si eresse in tutta la sua statura, magnifica nella tunica cremisi, e batte le mani. A quel suono, gli scranni e il padiglione furono inondati da una pioggia di gigli e di rose, che caddero dall'alto fluttuando come fiocchi di neve colorati, riempiendo la sala con le loro inebrianti fragranze.
Non ha usato l'antica lingua, pensò Eragon.
Mentre tutti gli altri erano intenti ad ammirare la pioggia di petali, soltanto lui si accorse che Islanzadi aveva sfiorato la spalla di Arya per sussurrarle piano: «Non avresti mai sofferto tanto se avessi seguito il mio consiglio. Avevo ragione a oppormi alla tua decisione di accettare lo yawé.»
«Spettava a me prendere quella decisione.»
La regina fece una pausa, poi annuì e tese il braccio. «Blagden.» Con un frullo d'ali, il corvo volò dal suo trespolo e atterrò sulla sua spalla sinistra. L'assemblea s'inchinò al passaggio di Islanzadi che incedeva altera verso il fondo della sala. Aprì il portale alle centinaia di elfi che attendevano all'esterno, e fece un breve discorso nell'antica lingua che Eragon non capì. Gli elfi scoppiarono in un boato di applausi, poi si dispersero in fretta.
«Cos'ha detto?» mormorò Eragon a Nari.
Nari sorrise. «Di aprire i nostri barili più pregiati e di accendere i fuochi, perché stanotte sarà una notte di festeggiamenti e canti. Vieni!» L'elfo prese Eragon per mano e lo condusse dietro la regina, che si era incamminata per il sentiero fra i pini e le siepi di felci. Mentre erano chiusi nella sala, il sole era calato, imbevendo la foresta di una luce ambrata che colava dagli alberi e dalle piante come olio lucente.
Ti rendi conto, vero, disse Saphira, che il re di cui ha parlato Lifaen, Evandar, doveva essere il padre di Arya? Per poco Eragon non inciampò. Hai ragione... E questo significa che è stato ucciso o da Galbatorix o dai Rinnegati. I cerchi si chiudono.
Si fermarono in cima a una collinetta, dove una squadra di elfi aveva approntato un lungo tavolo e delle sedie. Tutto intorno la foresta brulicava di attività. Con l'approssimarsi della sera, in tutta Ellesméra comparvero fuochi dal vivace bagliore, compreso un falò vicino al tavolo.
Qualcuno porse a Eragon un calice fatto con lo stesso strano legno che aveva notato a Ceris. Bevve il chiaro liquore e trasalì nel sentirsi bruciare la gola. Aveva il sapore del sidro aromatico mescolato all'idromele. La pozione gli fece formicolare i polpastrelli e le orecchie, e gli donò un meraviglioso senso di lucidità. «Cos'è?» chiese a Narì. Nari rise. «Faelnirv. Lo distilliamo da bacche di sambuco macinate e raggi di luna filati. Se necessario, un uomo forte può sopravvivere in viaggio per tre giorni bevendo soltanto questo.»
Saphira, dovresti assaggiarlo. La dragonessa annusò il calice, poi aprì la bocca e gli permise di versare il resto del faelnirv nella gola. Sgranò gli occhi e dimenò la coda.
Che delizia! Ce n'è ancora?
Prima che Eragon avesse modo di rispondere, arrivò Orik con aria imbronciata. «Figlia della regina» borbottò, scuotendo il capo. «Vorrei poterlo dire a Rothgar e a Nasuada. Dovrebbero saperlo.»
Islanzadi prese posto su una sedia dall'alto schienale e battè di nuovo le mani. Dall'interno della città arrivò un quartetto di elfi con strumenti musicali. Due avevano arpe di legno di ciliegio, il terzo una siringa di canne, e la quarta nient'altro che la voce, che subito mise all'opera per una canzone gioiosa che solleticò le loro orecchie. Eragon riusciva a capire appena una parola su tre, ma quel poco che comprese lo fece sorridere. Era la storia di un cervo che non riusciva ad abbeverarsi a uno stagno perché una gazza continuava a infastidirlo.
Mentre ascoltava, lasciò vagare lo sguardo fino a posarlo su una gracile fanciulla che si aggirava furtiva alle spalle della regina. Aguzzò la vista e si accorse che i suoi capelli ispidi non erano argentati, come quelli di molti elfi, bensì sbiancati dall'età, e che il suo volto era rugoso come una mela vizza. Non era un'elfa, né una nana, né - Eragon ne ebbe un'acuta percezione - umana. Lei gli sorrise, e lui intravvide una chiostra di denti aguzzi.
Quando la cantante terminò, siringhe e flauti sostituirono la sua voce nel silenzio, ed Eragon si ritrovò assalito da decine di elfi che volevano conoscere lui, ma soprattutto Saphira.
Gli elfi si presentarono con un lieve inchino, portandosi l'indice e il medio alle labbra. Eragon ricambiò insieme all'infinita schiera di saluti nell'antica lingua. Tutti rivolsero al giovane alcune cortesi domande sulle sue avventure, ma riservarono a Saphira gran parte della conversazione.
Lì per lì Eragon fu lieto di lasciar parlare Saphira, dato che era la prima volta che qualcuno mostrava un interesse spiccato a conversare soltanto con lei; ma dopo un po' cominciò a irritarsi di essere ignorato, abituato com'era ad avere gente che lo ascoltava quando parlava. Sorrise fra sé, sconcertato al pensiero di essere diventato troppo dipendente dall'attenzione degli altri da quando si era unito ai Varden, e si sforzò di godersi i festeggiamenti. Poco dopo, l'aroma del cibo si diffuse nella radura e comparvero alcuni elfi con vassoi colmi di ogni prelibatezza. Oltre a grandi pagnotte calde e pile di frittelle al miele, le pietanze erano composte interamente da frutta, verdura e bacche. Queste ultime dominavano in quasi ogni portata, dalla zuppa di mirtilli alla salsa di lamponi alla gelatina di more. Una grande zuppiera di fettine di mele cosparse di sciroppo e spruzzate di fragoline di bosco troneggiava accanto a un pasticcio di funghi ripieno di spinaci, timo e uvetta.
Non c'era alcun tipo di carne, nemmeno pesce o pollame, cosa che ancora lasciava perplesso Eragon. A Carvahall e in tutto l'Impero, la carne era simbolo di lusso e agiatezza. Più oro possedevi, più spesso potevi permetterti bistecche e vitello. Perfino i nobili di rango inferiore mangiavano carne a ogni pasto. Se fosse mancata, avrebbe indicato penuria nei loro forzieri. Ma gli elfi non seguivano questa filosofia, malgrado la loro evidente ricchezza e la facilità con cui potevano cacciare grazie alla magia.
Gli elfi si disposero lungo il tavolo con un entusiasmo che sorprese Eragon. Presto furono tutti seduti: Islanzadi a capotavola insieme a Blagden, il corvo; Dàthedr alla sua sinistra; Arya ed Eragon alla sua destra; Orik di fronte a loro; e poi tutti gli altri, compresi Nari e Lifaen. Non c'era nessuna sedia all'altro capotavola; soltanto un enorme vassoio intagliato per Saphira.
A mano a mano che il pranzo si prolungava, Eragon si sentì trascinato in un nebuloso turbine di chiacchiere e ilarità; era così preso dai festeggiamenti da perdere il senso del tempo, consapevole soltanto delle risa e delle parole sconosciute che gli cinguettavano intorno e dal calore che il faelnirv gli lasciava nello stomaco. Il canto dell'arpa gli accarezzava lieve le orecchie, suscitandogli brividi di eccitazione lungo la schiena. Di tanto in tanto, si scopriva attratto dallo sguardo obliquo e indolente della vecchiabambina, che continuava a fissarlo anche mentre mangiava. Durante una pausa nella conversazione, Eragon si rivolse ad Arya, che non aveva pronunciato più di una decina di parole. Non disse niente, ma si limitò a guardarla, chiedendosi chi fosse in realtà.
Arya si riscosse. «Nemmeno Ajihad lo sapeva.»
«Cosa?»
«Al di fuori della Du Weldenvarden, non ho mai rivelato a nessuno la mia identità. Brom ne era a conoscenza - ci siamo incontrati qui la prima volta - ma lo pregai di mantenere il segreto.»
Eragon si domandò se gli stesse dando spiegazioni per senso del dovere o perché si sentiva in colpa di aver ingannato lui e Saphira. «Brom una volta mi disse che ciò che gli elfi non dicono spesso è più importante di quello che dicono.» «Ci conosceva bene.»
«Ma perché? Sarebbe stato grave se qualcuno avesse saputo?»
Questa volta Arya esitò. «Quando lasciai Ellesméra, non avevo alcun desiderio di ricordare il mio rango. Né mi sembrava rilevante ai fini della mia missione con i Varden e i nani. Non aveva niente a che vedere con chi sono diventata... con chi sono.» Scoccò un'occhiata alla regina.
«Almeno a me e a Saphira avresti potuto dirlo.»
Arya sembrò irritarsi per il tono di rimprovero nella sua voce. «Non avevo ragione di supporre che la mia posizione rispetto a Islanzadi fosse migliorata, e dirvelo non avrebbe cambiato niente. I miei pensieri restano miei e basta, Eragon.» Il giovane arrossì per il significato implicito nella frase: perché mai lei - una principessa elfica con incarichi diplomatici, più vecchia di quanto potevano esserlo suo padre e suo nonno, chiunque fossero - doveva confidarsi con lui, un umano di appena sedici anni?
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