Volodyk - Paolini2-Eldest
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«I manoscritti non concordano su ciò che accadde a quelli del Popolo Grigio quando portarono a compimento l'opera, ma a quanto pare l'incantesimo li prosciugò di tutte le energie e li lasciò l'ombra di se stessi. Si ritirarono nell'anonimato, scegliendo di vivere nelle loro città finché le pietre non divennero polvere, o di prendere un compagno fra le razze più giovani e passare quindi nell'oblio.»
«Allora» disse Eragon «è ancora possibile usare la magia senza l'antica lingua?»
«Come pensi che Saphira sputi fuoco? A quanto dici, non usò alcuna parola quando trasformò la tomba di Brom in diamante, né quando benedisse la bambina nel Farthen Dùr. La mente di un drago è diversa dalla nostra; non hanno bisogno di protezione dalla magia. Non possono usarla consapevolmente, a parte il fuoco, ma quando il dono li tocca, la loro forza è ineguagliabile... Sembri preoccupato, Eragon. Perché?»
Eragon si guardò le mani. «Che cosa significa questo per me, maestro?»
«Significa che continuerai a studiare l'antica lingua, perché con essa puoi realizzare molte cose che altrimenti sarebbero troppo complesse o troppo pericolose. Significa che se vieni catturato e imbavagliato, potrai ancora evocare la magia per liberarti, come ha fatto Vanir. Significa che se vieni catturato e drogato e non riesci a ricordare l'antica lingua, sì, anche allora potrai formulare un incantesimo, se le circostanze lo imporranno. E significa che se vorrai evocare un incantesimo per qualcosa che non ha nome nell'antica lingua, potrai farlo.» Fece una pausa. «Ma guardati dalla tentazione di usare questi poteri. Perfino il più saggio fra di noi non li usa a cuor leggero, per paura della morte, o di peggio.»
La mattina dopo, e per tutte le mattine che rimase a Ellesméra, Eragon duellò con Vanir, ma non perse mai più la pazienza, per quanto potesse fare o dire l'elio.
Né Eragon si sentiva in vena di sacrificare energie a quella rivalità. La schiena lo tormentava sempre più di frequente, spingendolo ai limiti della sopportazione. I violenti attacchi lo resero più sensibile: semplici azioni che prima non gli davano alcun problema adesso lo lasciavano a contorcersi a terra. Perfino la Rimgar cominciò a scatenare le crisi, via via che progrediva nelle posizioni più difficili. Non era raro che soffrisse di tre o quattro attacchi al giorno. Il volto di Eragon si fece scavato; camminava lento e si muoveva con cautela per preservare le forze. Trovava sempre più difficile pensare con lucidità o prestare attenzione alle lezioni di Oromis, e cominciò ad avere vuoti di memoria. Nel tempo libero, riprendeva in mano il rompicapo di Orik, preferendo concentrarsi sugli anelli incatenati piuttosto che sulle proprie condizioni. Quando erano insieme, Saphira insisteva perché le salisse in groppa e si adoperava in ogni modo per farlo stare comodo e risparmiargli la fatica.
Una mattina, mentre si teneva stretto a una delle punte sul suo collo, Eragon disse: Ho trovato un nuovo nome per il dolore.
Quale sarebbe?
L'Obliatore. Perché quando soffri, non esiste nient'altro. Nessun pensiero. Nessuna emozione. Soltanto il bisogno di sfuggire al dolore. Quando è abbastanza forte, l'Obliatore ci priva di tutto ciò che ci rende quello che siamo, finché non siamo ridotti a creature inferiori agli animali, creature con un solo desiderio e un solo scopo: fuggire. Un nome appropriato.
Sto crollando, Saphira, come un vecchio cavallo che ha arato troppi campi. Devi sostenermi con la tua mente, altrimenti rischio di perdermi e dimenticare chi sono.
Non ti lascerò mai.
Quel giorno, Eragon fu colto da tre attacchi consecutivi mentre duellava con Vanir, e altri due durante la Rimgar. Mentre si scioglieva dal gomitolo in cui si era contratto, Oromis disse: «Di nuovo, Eragon. Devi perfezionare l'equilibrio.»
Eragon scosse il capo e sottovoce ringhiò: «No.» Incrociò le braccia per nascondere il tremito.
«Cosa?»
«No.»
«Alzati, Eragon, e riprova.»
«No! Fallo tu, se vuoi. Io ci rinuncio.»
Oromis s'inginocchiò al suo fianco e gli posò una mano fresca sulla guancia. Lo guardò con tanta tenerezza che Eragon capì la profonda compassione che l'elfo nutriva per lui e seppe che, se possibile, Oromis si sarebbe volentieri fatto carico del suo dolore per alleviargli il tormento. «Non abbandonare la speranza» gli disse. «Mai.» A un tratto, Eragon ebbe la sensazione di ricevere un flusso di energia da parte del vecchio elfo. «Siamo Cavalieri. Ci troviamo fra la luce e la tenebra, e siamo noi a mantenere l'equilibrio fra le due. L'ignoranza, la paura, l'odio: sono questi i nostri nemici. Respingili con tutte le tue forze, Eragon, altrimenti perderemo.» Si alzò e tese una mano a Eragon. «Ora alzati, Ammazzaspettri, e dimostra di saper controllare gli istinti della carne!»
Eragon trasse un profondo respiro e si appoggiò su un braccio per alzarsi, facendo una smorfia. Piegò le gambe sotto di sé, fece una pausa, poi si erse in tutta la sua statura e guardò Oromis negli occhi.
L'elfo annuì.
Eragon rimase in silenzio finché non ebbero completato la Rimgar, e mentre si lavava nel ruscello, disse: «Maestro.» «Sì, Eragon?»
«Perché devo sopportare questa tortura? Tu potresti usare la magia per darmi le capacità che mi servono, per plasmare il mio corpo come fai con gli alberi e le piante.»
«Potrei, ma se lo facessi, tu non capiresti come possiedi il corpo che hai e le tue capacità, né come mantenerle. Non esistono scorciatoie per il cammino che hai intrapreso, Eragon.»
L'acqua fredda si chiuse intorno al corpo di Eragon quando si immerse nella corrente. Infilò la testa sotto la superficie, aggrappandosi a uno scoglio per non farsi trasportare via, e rimase a fare il morto a galla, sentendosi come una freccia che fila nell'acqua.
Narda
Roran si appoggiò su un ginocchio e si grattò la nuova barba, intento a osservare Narda sotto di lui. La cittadina era scura e compatta, come una crosta di pane di segala incastrata in una rientranza della costa. Più in là, il mare violetto scintillava sotto gli ultimi raggi del sole morente. L'acqua lo affascinava; era così diversa dal panorama a cui era abituato.
Ce l'abbiamo fatta.
Scendendo dal promontorio, Roran tornò verso la sua tenda, inspirando l'aria salmastra a pieni polmoni. Si erano accampati in alto, sulle colline ai piedi della Grande Dorsale, per evitare di essere scorti da chiunque potesse allertare l'Impero.
Mentre camminava fra i gruppi di compaesani assiepati sotto gli alberi, Roran studiò le loro condizioni con dolore e rabbia. Il lungo viaggio dalla Valle Palancar li aveva lasciati esausti, laceri e malati; i loro volti erano scavati per la carenza di cibo; i loro vestiti erano ridotti a brandelli. Molti si erano fasciati le mani di stracci per proteggerle dal gelo delle dure notti montane. Settimane di trasporto di carichi pesanti avevano incurvato schiene un tempo orgogliosamente diritte. La vista peggiore erano i bambini: magri, e tranquilli in modo innaturale. Meritano di meglio, pensò Roran. Sarei nelle grinfie dei Ra'zac, ora, se non mi avessero protetto. Erano molti quelli che si avvicinavano a lui, in cerca soltanto
di una pacca sulle spalle o una parola di conforto. Alcuni gli offrivano avanzi di cibo, che lui rifiutava o che, quando insistevano, prendeva per dare a qualcun altro. Quelli che si tenevano a distanza, lo fissavano con occhi spenti e infossati. Sapeva quello che dicevano di lui, che era pazzo, che era posseduto dagli spiriti, che nemmeno i Ra'zac avrebbero potuto sconfiggerlo in battaglia.
Valicare la Grande Dorsale si era rivelato più arduo di quanto si era aspettato. Gli unici sentieri nella foresta erano piste di caccia, troppo strette, ripide e tortuose per il folto gruppo. Così si erano visti costretti ad aprirsi la strada a colpi di accetta fra alberi e cespugli, un compito gravoso che non piaceva a nessuno, se non altro perché rendeva più facile all'Impero rintracciarli. L'unico vantaggio della situazione fu che l'esercizio fisico aiutò Roran a recuperare l'uso della spalla ferita, anche se aveva ancora qualche problema ad alzare completamente il braccio.
Altri ostacoli si erano presentati lungo il percorso. Una bufera improvvisa li aveva sorpresi su un valico brullo, troppo alto perché vi crescesse la vegetazione. Tre persone erano morte assiderate nella neve: Hida, Brenna e Nesbit, tutti piuttosto avanti negli anni. Quella notte, per la prima volta, Roran aveva avuto la certezza che tutto il villaggio sarebbe morto per averlo seguito. Subito dopo, un ragazzo si era fratturato un braccio in una caduta, e poi Southwell era annegato in un torrente di montagna. Lupi e orsi avevano attaccato regolarmente il bestiame, incuranti dei falò che i contadini avevano cominciato ad accendere una volta lontani dalla Valle Palancar e dai maledetti soldati di Galbatorix. La fame li aveva tormentati come un parassita tenace, artigliando le loro viscere, divorando la loro forza ed erodendo la loro volontà di proseguire.
Eppure erano sopravvissuti, mostrando la stessa ostinazione e la stessa tenacia dei loro antenati, che erano rimasti nella Valle Palancar nonostante le carestìe, le guerre e le pestilenze. La gente di Carvahall poteva anche impiegare un secolo a prendere una decisione, ma quando lo faceva, niente poteva fermarla.
Ora che avevano raggiunto Narda, l'accampamento era pervaso da un senso di realizzazione e di speranza. Nessuno sapeva cosa li aspettava, ma il fatto di essere arrivati così lontano ispirava loro fiducia.
Non saremo al sicuro finché non lasceremo l'Impero, pensò Roran. E dipende da me garantire l'incolumità di ciascuno di noi. Sono diventato responsàbile dell'intera comunità... Una responsabilità che accettava volentieri, perché gli permetteva sia di proteggere i compaesani da Galbatorix, sia di perseguire il suo obiettivo: 'salvare Katrina. È passato tanto tempo da quando è stata catturata. Sarà ancora viva? Rabbrividì e scacciò quel pensiero terribile. Sarebbe impazzito sul serio se si fosse permesso di indugiare sulla sorte di Katrina.
All'alba, Roran, Horst, Baldor, i tre figli di Loring e Gertrude si avviarono verso Narda. Scesero dalle colline sulla strada maestra, attenti non farsi vedere finché l'impressione di respirare sott'acqua. Roran strinse la presa sul martello che sorvegliavano l'ingresso. Esaminarono il gruppo di Roran con sguardi severi, indugiando sui loro abiti laceri, poi
non emersero sul viale. In pianura, l'aria era più densa; Roran aveva
portava alla cintura avvicinandosi ai cancelli della città. Due soldati abbassarono le asce da guerra e sbarrarono l'accesso.
«Da dove venite?» chiese l'uomo a destra. Non poteva avere più di venticinque anni, ma i suoi capelli erano completamente bianchi.
Gonfiando il petto, Horst incrociò le braccia e disse: «Dalle parti di Teirm, se non ti dispiace.»
«Che cosa siete venuti a fare?»
«Commercio. Siamo stati mandati dai bottegai che vogliono comprare merci direttamente da Narda, invece che attraverso i soliti mercanti.»
«Tu dici, eh? E che tipo di merci?»
Quando Horst esitò, Gertrude disse: «Erbe e medicine, per quanto mi riguarda. Le piante che ho ricevuto da qui o erano troppo vecchie, o ammuffite. Ho bisogno di scorte fresche.»
«I miei fratelli e io» intervenne Darmen «siamo venuti a trattare con i vostri calzolai. Le scarpe fatte in stile nordico vanno di moda a Dras-Leona e Urù'baen.» Sogghignò. «Almeno lo erano quando ci siamo messi in marcia.» Horst annuì con rinnovata fiducia. «Già. E io sono qui per comprare ferro vecchio per il mio padrone.» «Capisco. E quello lì? Tu perché sei venuto?» chiese il soldato, indicando Roran con l'ascia.
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