Volodyk - Paolini2-Eldest

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Certi giorni Eragon e Saphira volavano con Oromis e Glaedr, allenandosi in combattimenti aerei o visitando rovine nascoste nel cuore della Du Weldenvarden. Altri giorni invertivano i ruoli, ed Eragon accompagnava Glaedr, mentre Saphira restava sulla rupe di Tel'naeir con Oromis.

Ogni mattina Eragon si allenava alla scherma con Vanir, e ogni mattina, senza eccezione, subiva uno o più attacchi alla schiena. Per colmo di misura, l'elfo continuava a trattare Eragon con sprezzante condiscendenza; gli scoccava occhiate oblique che in apparenza non eccedevano mai i confini della cortesia, e si rifiutava di arrabbiarsi, per quanto Eragon lo provocasse. Eragon odiava lui e le sue maniere gelide e controllate. Sembrava che Vanir lo insultasse con ogni movimento. E i compagni di Vanir - che, a un primo giudizio, erano di una generazione più giovane di elfi - condividevano il suo velato disprezzo per Eragon, anche se non mostrarono mai altro che rispetto per Saphira. La loro rivalità raggiunse il culmine quando, dopo aver sconfitto Eragon sei volte di fila, Vanir abbassò la spada e disse: «Sei ancora morto, Ammazzaspettri. Che noia. Vuoi davvero continuare?» Il suo tono indicava che sarebbe stato inutile.

«Certo» grugnì Eragon. Aveva già sofferto di un attacco alla schiena, e non aveva voglia di chiacchiere. Eppure quando Vanir disse: «Dimmi, sono curioso: come hai fatto a uccidere Durza quando sei così lento? Non riesco proprio a capirlo» Eragon si sentì costretto a rispondere: «L'ho colto di sorpresa.»

«Perdonami; avrei dovuto immaginare che c'era qualche trucco.»

Eragon strinse i denti. «Se io fossi un elfo e tu un umano, non avresti scampo con la mia lama.»

«Può darsi» ribatte Vanir. Riprese la posizione e nel giro di tre secondi e due fendenti disarmò Eragon. «Ma non credo. Non dovresti vantarti davanti a uno spadaccino migliore di te, altrimenti potrebbe decidere di punirti per la tua impudenza.»

Eragon perse le staffe e attìnse al torrente di magia che scorreva nel suo profondo. Liberò l'energia repressa con una delle dodici parole minori del legare, gridando: «Malthinae!» per incatenare le gambe e le braccia di Vanir e chiudergli la bocca perché non potesse pronunciare un controincantesimo. L'elfo sgranò gli occhi, offeso.

Eragon disse: «E tu non dovresti vantarti con uno che è più esperto di te nelle arti magiche.»

Le sopracciglia scure di Vanir s'incresparono.

Senza una mossa o un sussurro, una forza invisibile colpì Eragon al petto, mandandolo a finire sul prato, a dieci iarde di distanza. Il brusco impatto col terreno lo lasciò senza fiato, e turbò il controllo che Eragon esercitava sull'incantesimo, liberando Vanir. Come ha fatto?

Marciando verso di lui, Vanir disse: «La tua ignoranza ti tradisce, umano. Non sai di cosa stai parlando. E pensare che sei stato scelto per succedere a Vrael, che ti sono stati concessi i suoi alloggi, che hai avuto l'onore di servire il Saggio Dolente...» Scosse il capo. «Mi viene la nausea al pensiero che tali privilegi siano stati concessi a una persona così indegna. Non capisci nemmeno che cosa sia o come funzioni la magia.»

La collera di Eragon montò come una marea cremisi. «Ma cosa ti ho fatto?» esclamò. «Perché mi disprezzi tanto? Preferiresti che non ci fosse nessun Cavaliere a opporsi a Galbatorix?»

«La mia opinione non ha importanza.» «Sono d'accordo, ma vorrei ascoltarla lo stesso.» «Ascoltare, come scrisse Nuala nelle Convocazioni, è il sentiero che conduce alla saggezza soltanto quando è il risultato di una decisione consapevole e non un vuoto di percezioni.»

«Parla chiaro, Vanir, e dammi una risposta onesta!» Vanir sorrise, freddo. «Ai tuoi ordini, Cavaliere.» Avvicinandosi perché soltanto Eragon potesse sentire la sua voce sommessa, l'elfo disse: «Per ottant'anni dopo la caduta dei Cavalieri, non abbiamo avuto speranze di vittoria. Siamo sopravvissuti nascondendoci con l'inganno e la magia, una misura temporanea, perché alla fine Galbatorix sarà abbastanza forte da marciare su di noi e spazzare via le nostre difese. Poi, quando ormai ci eravamo rassegnati al nostro fato, Brom e Jeod salvarono l'uovo di Saphira, e si ripresentò l'occasione di sconfiggere il folle usurpature. Immagina la nostra gioia e il nostro giubilo. Sapevamo che per resistere a Galbatorix, il nuovo Cavaliere avrebbe dovuto essere più potente di qualunque suo predecessore, più potente persino di Vrael. E come fu ricompensata la nostra pazienza? Con un altro umano come Galbatorix. E per di più... storpio. Ci hai condannati tutti, Eragon, nell'istante in cui hai toccato l'uovo di Saphira. Non aspettarti di essere il benvenuto.» Vanir si toccò le labbra con l'indice e il medio, poi passò di fianco a Eragon e si allontanò dal campo di addestramento, lasciandolo riverso a terra.

Ha ragione, pensò Eragon. Non sono adatto a questo compito. Qualunque elfo, persino Vanir, sarebbe un Cavaliere migliore di me.

In un impeto di collera, Saphira dilatò il contatto fra di loro. Credi che io abbia così poco senno, Eragon? Dimentichi che mentre ero nell'uovo, Arya mi presentò a ognuno di questi elfi, come anche a molti bambini Varden, e che io li rifiutai tutti. Non avrei scelto nessuno come mio Cavaliere che non potesse aiutare la tua razza, la mia e quella degli elfi, poiché tutti e tre condividiamo un destino comune. Tu eri la persona giusta, al posto giusto, nel momento giusto. Non scordarlo mai.

Se anche fosse vero, disse lui, era prima che Durza mi ferisse. Adesso non vedo altro che tenebre e male nel nostro futuro. Non mi arrenderò, ma temo che non riusciremo a vincere. Forse la nostra missione non è sconfiggere Galbatorix, ma preparare la strada al prossimo Cavaliere scelto dalle uova rimaste.

Sulla rupe di Tel'naeir, Eragon trovò Oromis seduto al tavolo del capanno, intento a dipingere un panorama con inchiostro nero in fondo al rotolo di pergamena che aveva finito di scrivere.

S'inginocchiò chinando il capo. «Maestro.»

Passarono quindici minuti prima che Oromis finisse di delineare i ciuffi di aghi su un contorto cespuglio di ginepro, mettesse da parte l'inchiostro, ripulisse il pennello intingendolo in un vaso di terracotta colmo d'acqua e si rivolgesse a Eragon, dicendo: «Perché sei venuto così presto?»

«Scusa se ti disturbo, ma Vanir se n'è andato prima di concludere la nostra sessione di allenamento, e non sapevo che altro fare.»

«E perché mai Vanir se ne sarebbe andato, Eragonvodhr?»

Oromis si strinse le mani in grembo, mentre Eragon gli descriveva l'episodio, concludendo: «Non avrei dovuto perdere il controllo, ma l'ho fatto, e sono sembrato ancora più sciocco per questo. Ti ho deluso, maestro.» «Sì» disse Oromis. «Vanir può anche averti provocato, ma non c'era ragione di rispondere a tono. Devi saper controllare meglio le tue emozioni, Eragon. Ti potrebbe costare la vita, se consentissi al tuo temperamento di offuscare il tuo giudizio durante un combattimento. Inoltre questi comportamenti infantili non fanno altro che rafforzare gli elfi che ti si oppongono. Le nostre macchinazioni sono sottili e non lasciano margine a errori.»

«Mi dispiace, maestro. Non accadrà più.»

Mentre Oromis sembrava disposto ad aspettare seduto in attesa dell'ora consueta per eseguire la Rimgar, Eragon colse l'occasione per domandare: «Come ha fatto Vanir a evocare la magia senza parlare?»

«Sei certo che lo abbia fatto davvero? Magari è stato aiutato da un altro elfo.»

Eragon scosse il capo. «Durante il mio primo giorno a Ellesméra, ho visto Islanzadi creare una pioggia di petali col solo battito delle mani. E Vanir ha detto che non capivo come funziona la magia. Che voleva dire?»

«Ancora una volta» disse Oromis, rassegnato, «mi chiedi informazioni per cui non sei ancora pronto. Tuttavia, date le circostanze, non posso rifiutarmi. Sappi soltanto questo: quello che chiedi non era insegnato ai Cavalieri, e non viene insegnato ai nostri maghi, finché non avevano e non hanno padroneggiato ogni altro aspetto della magia, perché è il segreto della vera natura della magia e dell'antica lingua. Coloro che lo conoscono acquisiscono grande potere, certo, ma corrono anche un terribile rischio.» Fece una breve pausa. «Com'è collegata l'antica lingua alla magia, Eragon-vodhr?»

«Le parole dell'antica lingua possono liberare l'energia racchiusa nel tuo corpo e attivare un incantesimo.» «Ah. Questo vuoi dire che certi suoni, certe vibrazioni nell'aria, in qualche modo attingono a questa energia? Suoni che possono essere prodotti per caso da qualunque creatura o cosa?»

«Sì, maestro.»

«E non lo trovi assurdo?»

Confuso, Eragon disse: «Non importa se pare assurdo, maestro; è così. Dovrei forse pensare che è assurdo che la luna cresca o decresca, o che le stagioni cambino, o che gli uccelli volino a sud d'inverno?»

«Naturalmente no. Ma come può il semplice suono realizzare così tanto? Secondo te, particolari combinazioni di tono e volume possono davvero innescare reazioni che ci consentono di manipolare l'energia?»

«Ma è così.»

«Il suono non ha alcun controllo sulla magia. Dire una parola o una frase in questa lingua non conta, l'essenziale è pensarle.» Con un guizzo del polso, una fiammella dorata comparve sul palmo di Oromis, poi scomparve. «Tuttavia, a meno che le circostanze non lo richiedano, pronunciamo ancora i nostri incantesimi ad alta voce per impedire a pensieri raminghi di spezzarli, un pericolo che corre anche il mago più esperto.»

Le implicazioni sconcertarono Eragon. Rammentò quando era quasi annegato sotto le cascate del lago Kóstha-mérna ed era stato incapace di ricorrere alla magia perché l'acqua lo circondava. Se lo avessi saputo allora, avrei potuto salvarmi da solo, pensò. «Maestro» disse, «se il suono non influisce sulla magia, perché il pensiero sì?» Oromis sorrise. «Già, perché? Innanzitutto occorre sottolineare il fatto che noi non siamo la fonte della magia. La magia esiste di per sé, indipendentemente da qualsiasi incantesimo, come i fuochi fatui nelle paludi di Arughia, il pozzo dei sogni nelle grotte di Mani fra i Monti Beor e il cristallo galleggiante di Eoam. La magia allo stato naturale è più insidiosa, imprevedibile e spesso più forte di quella che possiamo evocare.

«Tanti eoni fa, tutta la magia era così. Per usarla, bastava la capacità di percepirla con la mente, una capacità che ogni mago deve possedere, oltre al desiderio e alla forza di usarla. Tuttavia senza la struttura dell'antica lingua gli stregoni non riuscivano a controllare il proprio talento e di conseguenza sconvolsero la terra, uccidendo migliaia di persone. Col tempo scoprirono che esprimere ad alta voce le proprie intenzioni nella loro lingua li aiutava a ordinare i pensieri e a evitare errori fatali. Ma non era un metodo infallibile. Alla fine si verificò un incidente così grave che per poco non distrusse ogni forma di vita nel mondo. Abbiamo notizia dell'evento da frammenti di manoscritti che sopravvissero all'epoca, ma chi o cosa formulò l'incantesimo fatàle ci è ignoto. I manoscritti dicono che in seguito una razza chiamata il Popolo Grigio - non gli elfi, poiché eravamo giovani all'epoca - fece appello a tutte le sue risorse ed evocò un incantesimo, forse il più grande che sia mai esistito o esisterà. Tutti insieme, i membri del Popolo Grigio cambiarono la natura stessa della magia. Fecero in modo che la loro lingua, l'antica lingua, potesse controllare il risultato di un incantesimo, ossia circoscrivere la magia, così che, se uno avesse detto brucia quella porta e per caso avesse guardato verso di me e pensato a me, la magia avrebbe comunque bruciato la porta e non me. E conferirono all'antica lingua le sue due principali caratteristiche: la capacità di impedire a chiunque la parli di mentire e quella di descrivere la vera natura delle cose. Come ci riuscirono, resta un mistero.

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