Volodyk - Paolini2-Eldest
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Infine venne il turno delle persone che, come il resto del carico, furono organizzate in gruppi simmetrici per impedire alla chiatta di capovolgersi. Clovis, Torson e Flint si misero a prua delle rispettive imbarcazioni a gridare ordini alla massa di rifugiati in colonna.
E adesso che cosa succede? si chiese Roran, nel sentire voci concitate sulla spiaggia. Facendosi largo verso l'origine del chiasso, trovò Calitha inginocchiata accanto al suo patrigno, Wayland, intenta a calmare il vecchio. «No! Io non ci salgo, su quella bestia! Non puoi costringermi» gridava Wayland. Agitò le braccia scarne e piantò i tacchi nella sabbia nel tentativo di liberarsi dalla stretta di Calitha. Schizzi di saliva gli uscirono dalle labbra. «Lasciami, ho detto. Lasciami!»
Chinando il capo sotto i suoi colpi, Calitha disse: «Ha perso il senno da quando ci siamo accampati la scorsa notte.» Sarebbe stato meglio se fosse morto sulla Grande Dorsale, visti i problemi che continua a darci, pensò Roran. Si inginocchio accanto a Calitha, e insieme riuscirono a placare il vecchio perché non gridasse e scalciasse più. Come ricompensa per il buon comportamento, Calitha gli diede un pezzo di carne secca, che occupò tutta la sua attenzione. Mentre Wayland si concentrava a masticare la carne, lei e Roran lo guidarono sulla Edeline, dove lo misero in un cantuccio vuoto perché non desse fastidio a nessuno.
«Muovete le chiappe, lumaconi» gridò Clovis. «La marea sta cambiando. Forza, su!»
Dopo un ultimo sussulto di attività, le passerelle furono ritirate, lasciando un gruppo di venti uomini sulla spiaggia davanti a ciascuna chiatta. I tre gruppi si radunarono intorno alle prue e si prepararono a spingerle in acqua. Roran guidava il gruppo della Cinghiale Rosso. Cantando all'unisono, lui e i suoi uomini spinsero l'enorme peso della chiatta, con la sabbia grigia che cedeva sotto i loro piedi, i legni e le cime che gemevano, e il lezzo di sudore nell'aria. Per un momento, i loro sforzi parvero inutili, poi la Cinghiale Rosso sobbalzò e scivolò di un passo. «Ancora!» gridò Roran. Passo dopo passo, avanzarono nel mare, fino a ritrovarsi con l'acqua gelida all'altezza della cintola. Un'onda si infranse su Roran, riempiendogli la bocca di acqua salata; lui sputò, disgustato dal sapore del sale, molto più intenso di quanto si fosse aspettato.
Quando la chiatta si liberò dal fondo sabbioso, Roran nuotò lungo la Cinghiale Rosso e si issò a bordo con una cima che penzolava oltre il parapetto. Nel frattempo, i marinai impiegarono lunghi pali per spingere la Cinghiale Rosso in acque più profonde, come fecero gli equipaggi della Merrybell e della Edeline.
Nell'istante in cui furono a distanza ragionevole dalla spiaggia, Clovis ordinò di ritirare i pali a bordo e di mettere in mare i remi, con i quali i marinai diressero la prua della Cinghiale Rosso verso l'imboccatura dell'insenatura. Issarono la vela, la orientarono per cogliere il vento sull'immensa distesa di mare ondulato. leggero e, all'avanguardia del trio di chiatte, puntarono verso Teirm
Il principio della saggezza
Le giornate che Eragon passava a Ellesméra si susseguivano sempre uguali; lo scorrere del tempo sembrava non influire sulla città fra i pini. Le stagioni non invecchiavano, malgrado i pomeriggi e le serate fossero più lunghi e riempissero la foresta di ombre dense. Fiori tipici di ciascun mese sbocciavano sotto l'influsso della magia elfica, nutriti da incantesimi evocati nell'aria.
Eragon amava Ellesméra, per la sua bellezza e la sua quiete, i leggiadri edifici ricavati negli alberi, le canzoni struggenti che echeggiavano al crepuscolo, le opere d'arte nascoste nelle misteriose dimore, e la riservatezza degli elfi, che si alternava a scoppi di allegria.
Gli animali selvatici della Du Weldenvarden non temevano i cacciatori. Spesso dalla sua camera sospesa fra i rami Eragon osservava un elfo coccolare un cervo o una volpe argentata, o mormorare parole carezzevoli a un orso timido che arrancava ai margini di una radura, riluttante a farsi vedere. Alcuni animali non avevano forma riconoscibile; comparivano di notte, muovendosi furtivi nel sottobosco, e fuggivano se Eragon tentava di avvicinarli. Una volta scorse una creatura simile a un serpente dotato di pelliccia; in un'altra occasione, una donna vestita di bianco che palpitò e scomparve per lasciare il posto a una lupa ghignante.
Eragon e Saphira continuavano a esplorare Ellesméra ogni volta che potevano. Andavano da soli o insieme a Orik, poiché Arya non li accompagnava più, né Eragon aveva avuto modo di parlarle da quando lei aveva infranto il fairth. A volte intrawedeva la sua snella figura fra gli alberi, ma se cercava di avvicinarsi con l'intenzione di porgerle le sue scuse, lei si dileguava, lasciandolo solo fra i pini. Alla fine Eragon capì che doveva prendere l'iniziativa se voleva riuscire a fare pace con lei. Così una sera raccolse un mazzo di fiori che crescevano lungo il sentiero che portava al suo albero e si avviò al Palazzo di Tialdari, dove, nella sala comune, chiese a un elfo indicazioni per raggiungere gli appartamenti di Arya.
La porta scorrevole era aperta al suo arrivo, ma nessuno rispose quando bussò. Provò a entrare, con le orecchie tese a cogliere rumore di passi, mentre si guardava intorno nello spazioso salottino tappezzato di rampicanti. Da un lato si accedeva a una piccola camera da letto, dall'altro si passava in uno studio. Due fairth decoravano le pareti: il ritratto di un elfo fiero e severo dai capelli d'argento, che doveva essere re Evandar, e un altro volto di un giovane elfo che Eragon non riconobbe.
Vagò per l'appartamento, osservando tutto ma non toccando niente, assaporando quel barlume di vita di Arya, assorbendo quello che poteva dei suoi interessi e delle sue passioni. Accanto al letto notò una sfera di vetro con un bocciolo del convolvolo nero conservato all'interno; sulla sua scrivania, pile ordinate di rotoli di pergamena, con titoli come Osilon: rapporti sui raccolti e Attività segnalate dalla torre di guardia di Gil'ead; sul davanzale di un bovindo, tre alberi in miniatura crescevano nella forma di glifi dell'antica lingua, quelli che significano pace, forza e saggezza; e accanto agli alberi, un foglio di carta con una poesia incompleta, coperto da parole sbarrate con un tratto d'inchiostro e appunti scribacchiati. Recitava:
Sotto la luna, la luna splendente, C'è uno stagno, placido e sereno,
Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero.
Cade una pietra, una pietra vivente, E infrange il disco argenteo e sereno, Tra le felci e i rovi, E i pini dal cuore nero. Schegge di luce, lame di luce
Lo stagno increspano di onde diffuse,
Lo specchio d'acqua mite,
Il solitario laghetto.
Nella notte, la notte oscura e truce, Fluttuano le ombre, ombre confuse,
Dove un tempo...
Tornando nell'ingresso, Eragon lasciò i fiori su un tavolinetto e fece per andarsene. Restò impietrito nel vedere Arya sulla soglia. Lei parve sorpresa dalla sua presenza, ma nascose le sue emozioni sotto una maschera impassibile. Si fissarono in silenzio.
Lui prese il mazzo di fiori per offrirglielo. «Non so creare un bocciolo per te, come fece Fàolin, ma questi sono fiori sinceri, i più belli che sono riuscito a trovare.»
«Non posso accettarli, Eragon.»
«Non sono... non sono quel genere di regalo.» Fece una pausa. «Non ci sono scuse, ma non mi ero reso conto che il mio fairth ti avrebbe messa in una situazione tanto penosa. Per questo sono rammaricato e imploro il tuo perdono... Volevo soltanto creare un fairth, non provocare problemi. Io capisco l'importanza dei miei studi, Arya, e tu non devi temere che possa trascurarli per fantasticare su di te.»
Vacillò e si appoggiò alla parete, troppo stordito per reggersi sulle gambe. «Tutto qui.»
Lei lo guardò per lunghi momenti, poi lentamente prese il mazzolino e se lo portò al naso. I suoi occhi non lo abbandonarono mai. «Sono fiori sinceri» disse, scrutandolo da capo a piedi, per poi tornare a guardargli il volto. «Sei stato malato?»
«No. La schiena.»
«Ho saputo, ma non avrei mai pensato...»
Lui si scostò dalla parete. «Devo andare.»
«Aspetta.» Arya esitò, poi lo guidò verso il bovindo, dove lui si sedette sulla panca che correva lungo il bordo. Prese due tazze da una credenza, Arya vi sbriciolò alcune foglie essiccate di ortica, poi riempì le tazze d'acqua e dicendo «Bolli» riscaldò l'acqua per il té.
Porse una tazza a Eragon, che la prese fra le mani strette a coppa per assorbirne il calore. Guardò fuori dalla finestra verso il terreno venti piedi più sotto, dove gli elfi passeggiavano nei giardini reali, parlando e cantando, e le lucciole volteggiavano nel crepuscolo.
«Vorrei...» disse Eragon, «vorrei che fosse sempre così. È tutto così perfetto e sereno.»
Arya mescolò il suo té. «Come sta Saphira?»
«Bene. E tu?»
«Mi sto preparando per tornare dai Varden.»
Eragon trasalì, sconvolto. «Quando?»
«Dopo la Celebrazione del Giuramento di Sangue. Sono rimasta anche troppo, ma mi dispiaceva partire, e Islanzadi voleva che restassi. Inoltre... non ho mai partecipato a una Celebrazione del Giuramento di Sangue, che è la nostra ricorrenza più importante.» Lo guardò da sopra il bordo della tazza. «Non c'è niente che Oromis possa fare per te?» Eragon si strinse nelle spalle. «Ha già tentato tutto quello che sa.»
Bevvero insieme il té, guardando i gruppi e le coppie che passeggiavano per i sentieri dei giardini. «I tuoi studi proseguono bene?» chiese lei.
«Sì.» Nel silenzio che seguì, Eragon prese il foglio di carta scribacchiato ed esaminò le strofe, come se le leggesse per la prima volta. «Scrivi spesso poesie?»
Arya tese la mano per prendere il foglio che lui le porse, e lo arrotolò perché le parole non fossero più visibili. «È nostra usanza che tutti coloro che partecipano alla Celebrazione del Giuramento di Sangue portino una poesia, una canzone, o qualche altra opera d'arte che hanno fatto per condividerla con l'assemblea. Ho appena cominciato a lavorare sulla mia.»
«Mi sembra buona.»
«Perché, hai letto molte poesie...?»
«Sì.»
Arya tacque, poi chinò il capo e mormorò: «Scusami. Non sei più la persona che ho conosciuto a Gil'ead.» «Io...» Eragon s'interruppe e si rigirò la tazza fra le mani, cercando le parole giuste. «Arya... tu partirai presto. Sarebbe un peccato se questa fosse l'ultima volta che ci vediamo prima di quel momento. Non potremmo incontrarci, di quando in quando, come facevamo prima? Potresti mostrare ancora altre meraviglie di Ellesméra a me e a Saphira.» «Non sarebbe prudente» disse lei con voce gentile ma risoluta.
Lui la guardò. «Il prezzo della mia indiscrezione deve quindi essere la nostra amicizia? Non posso negare quello che provo per te, ma preferirei subire un'altra ferita da Durza che permettere alla mia sventatezza di distruggere l'amicizia che c'era fra di noi. Per me è troppo importante.»
Arya bevve l'ultimo sorso di té, prima di rispondere. «La nostra amicizia continuerà, Eragon. Quanto a trascorrere del tempo insieme...» Le sue labbra si curvarono in un flebile sorriso. «Può darsi. Ma dobbiamo aspettare e vedere che cosa ci riserva il futuro, perché sono molto impegnata e non posso prometterti niente.»
Eragon sapeva che le sue parole erano quanto di più vicino a una riconciliazione lei fosse disposta a concedergli, e ne fu lieto. «Certo, Arya Svit-kona» disse, con un inchino del capo.
Si scambiarono altri convenevoli, ma era evidente che Arya si era già spinta fino al limite di quanto intendeva quel giorno, così Eragon tornò da Saphira con il cuore più leggero per quanto era riuscito a ottenere. Ora sarà il destino a decidere cosa accadrà, pensò, srotolando una delle ultime pergamene che gli aveva dato Oromis. Infilando una mano nella saccoccia che portava alla cintura, Eragon trasse un astuccio di steatite che conteneva nalgask, un unguento a base di cera d'api mescolata a olio di noci, e se lo spalmò sulle labbra per proteggerle dal vento gelido che gli tagliava la faccia. Chiuse la piccola borsa e abbracciò il collo di Saphira, affondando la faccia nell'incavo del gomito per ridurre il riverbero delle nubi ammassate sotto di loro. L'instancabile battito d'ali di Saphira gli rimbombava nelle orecchie, più sonoro e più rapido di quello di Glaedr, che stavano seguendo.
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