Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«Sì» rispose Eragon. Si fermò e si accovacciò davanti all'uomo, posando una mano per terra per sostenersi. «Ascoltami bene, perché non lo ripeterò. Hai fatto quello che hai fatto per amore di Katrina, o almeno così dici. Che tu lo ammetta o no, io sono convinto che c'erano altre ragioni per volerla tenere separata da Roran: rabbia, odio, vendetta, e il tuo profondo cordoglio.»
Le labbra di Sloan divennero due sottili linee esangui. «Ti sbagli.»
«No, non credo. Dato che la mia coscienza m'impedisce di ucciderti, la tua punizione sarà la più terribile che sono riuscito a concepire escludendo la morte. Sono convinto che quello che hai detto prima è vero, che Katrina per te è più importante di qualsiasi altra cosa. Perciò la tua punizione sarà non vedere o toccare tua figlia e non parlarle mai più fino alla fine dei tuoi giorni, e vivere sapendo che lei è con Roran e che sono felici insieme, senza di te.»
Sloan inspirò a denti stretti. «Questa è la punizione? Ha! Non puoi applicarla: non hai prigione dove rinchiudermi.»
«Non ho finito. L'applicherò facendoti giurare nella lingua degli elfi, la lingua della verità e della magia, di osservare i termini della tua condanna.»
«Non puoi costringermi a dare la mia parola» ringhiò Sloan. «Nemmeno se mi torturi.»
«Posso, invece, e senza torturarti. In più ti imporrò il desiderio irrefrenabile di viaggiare verso nord finché non raggiungerai la città elfica di Ellesméra, nel cuore della Du Weldenvarden. Potrai cercare di resistere all'impulso, se vuoi, ma per quanto tu ti opponga, l'incantesimo ti irriterà come un prurito irrefrenabile finché non gli obbedirai e arriverai nel regno degli elfi.»
«Non hai il coraggio di uccidermi con le tue mani?» esclamò Sloan. «Sei troppo vigliacco per tagliarmi la gola, così mi farai vagare cieco e smarrito in questa terra desolata finché le intemperie o le bestie non mi uccideranno?» Sputò alla sinistra di Eragon. «Non sei altro che la feccia degenere di un caprone ulceroso. Sei un bastardo, sei un cane rognoso; uno zotico incrostato di letame; una carogna vomitevole, un rospo velenoso; prole deforme e grufolante di una lurida scrofa. Non ti darei la mia ultima briciola di pane se stessi morendo di fame, una goccia d'acqua se stessi bruciando, né una sepoltura da mendicante se fossi morto. Hai una poltiglia putrefatta al posto del midollo e funghi guasti al posto del cervello. Sei soltanto un moccioso senza nerbo!»
Eragon pensò che c'era qualcosa di oscenamente affascinante in quella serie di insulti, ma la sua ammirazione non gli impedì di provare il desiderio di strangolare il macellaio, o almeno di rispondergli a tono. Lo frenò il sospetto che Sloan stesse cercando di farlo infuriare di proposito, affinché uno scatto d'ira lo spingesse a dargli una morte rapida e immeritata.
Invece disse: «Sarò anche un bastardo, ma non un assassino.» Sloan trasse un rapido respiro, ma prima che potesse riprendere il suo torrente di insulti, Eragon aggiunse: «Ovunque andrai, non sentirai la fame, e le bestie selvatiche non ti attaccheranno. Evocherò speciali incantesimi intorno a te, che impediranno a uomini e animali di molestarti e costringeranno gli animali a darti sostentamento quando ne avrai bisogno.»
«Non puoi farlo» mormorò Sloan. Perfino nello scarso chiarore delle stelle, Eragon vide che gli ultimi residui di colore svanivano dal suo viso, lasciandolo pallido come uno straccio. «Non hai i mezzi. Non hai il diritto.»
«Io sono un Cavaliere dei Draghi. Ho gli stessi diritti di un re o di una regina.»
Poi Eragon, che non aveva alcun interesse a prolungare la conversazione con Sloan, pronunciò il vero nome del macellaio a voce abbastanza alta perché l'altro potesse udirlo. Un'espressione di orrore e scoperta deformò il volto di Sloan, che gettò le braccia al cielo e ululò come se lo avessero pugnalato. Il suo grido risuonò indifeso, rauco e disperato: il grido di un uomo condannato per sua stessa natura a un destino a cui non poteva sfuggire. Ricadde in avanti sulle mani e rimase in quella posizione a singhiozzare, il volto coperto dai capelli scarmigliati.
Eragon lo osservò, sconvolto dalla sua reazione. Conoscere il proprio vero nome fa questo effetto a tutti? Anche a me succederà lo stesso?
Poi chiuse il cuore davanti alla disperazione di Sloan e si accinse a fare quanto aveva detto. Ripeté il vero nome di Sloan e parola per parola istruì il macellaio sui giuramenti nell'antica lingua, per assicurarsi che Sloan non avrebbe mai più incontrato o cercato di incontrare Katrina. Sloan si oppose con lacrime e gemiti, digrignando i denti, ma per quanto lottasse non poteva far altro che obbedire ogni volta che Eragon invocava il suo vero nome. E quando ebbero finito con i giuramenti, Eragon evocò i cinque incantesimi che avrebbero guidato Sloan verso Ellesméra, lo avrebbero protetto dalla violenza e avrebbero indotto gli uccelli e gli animali e i pesci che vivevano nei laghi e nei fiumi a nutrirlo. Eragon formulò gli incantesimi in maniera tale che traessero energia da Sloan e non da se stesso.
La mezzanotte era un ricordo sbiadito quando Eragon concluse l'ultimo sortilegio. Ebbro di stanchezza, si appoggiò al bastone di biancospino. Sloan giaceva raggomitolato ai suoi piedi.
«Finito» disse Eragon.
Un gorgoglio lamentoso si levò dalla figura accasciata. Sembrava che Sloan volesse dire qualcosa. Accigliato, Eragon s'inginocchiò al suo fianco. Le guance di Sloan erano macchiate di rosso dove si era scorticato a sangue con le unghie. Gli colava il naso e le lacrime gli scorrevano dall'angolo dell'orbita sinistra, la meno sfregiata delle due. Eragon fu preso da un profondo senso di colpa e di compassione: non gli dava alcun piacere vedere Sloan in quello stato. Era un uomo distrutto, privato di tutto quello che riteneva prezioso nella vita, comprese le sue illusioni, ed era stato Eragon a distruggerlo. Si sentiva sporco, come se avesse fatto qualcosa di vergognoso. È stato necessario, pensò, ma nessuno dovrebbe essere costretto a fare quello che ho fatto io.
Un altro gemito proruppe dalle labbra di Sloan, poi l'uomo disse: «... solo un pezzo di corda. Non volevo... Ismira... No, no, per favore, no...» I rantoli del macellaio si spensero, e nel silenzio Eragon posò la mano sul braccio di Sloan, che si irrigidì a quel contatto. «Eragon» mormorò. «Eragon... sono cieco, e tu mi mandi a vagare da solo in questa terra desolata. Sono un reietto e uno spergiuro. So chi sono e non posso sopportarlo. Aiutami... uccidimi! Liberami da questa agonia.»
D'impulso, Eragon pose il ramo di biancospino nella mano destra di Sloan e disse: «Prendi il mio bastone. Ti guiderà nel tuo viaggio.»
«Uccidimi!»
«No.»
Un grido spezzato sgorgò dalla gola di Sloan, mentre si agitava e tempestava di pugni il terreno. «Sei crudele, crudele!» Senza più energie, il macellaio si raggomitolò ancora di più, ansimando e piangendo.
Chino su Sloan, Eragon avvicinò la bocca all'orecchio del macellaio e mormorò: «Non sono crudele, perciò ti do una speranza. Se raggiungerai Ellesméra, troverai una casa che ti aspetta. Gli elfi si prenderanno cura di te e ti permetteranno di fare ciò che vorrai per il resto della tua vita, ma a un patto: una volta entrato nella Du Weldenvarden, non potrai più uscirne... Sloan, ascoltami. Quando ero tra gli elfi, ho imparato che il vero nome di una persona può cambiare col tempo. Capisci cosa significa? Ciò che sei non è fissato per l'eternità. Un uomo può rinnovarsi, se solo lo vuole.»
Sloan non rispose.
Eragon gli lasciò il bastone accanto. Andò dall'altra parte del bivacco e si distese. Con gli occhi già chiusi, mormorò un incantesimo che lo destasse all'alba e poi si concesse di scivolare nell'abbraccio consolante del suo riposo vigile.
La Landa Grigia era fredda, buia e inospitale quando un basso ronzio risuonò nella mente di Eragon. «Letta» disse, e il rumore cessò. Gemendo mentre si stiracchiava i muscoli indolenziti, si alzò e levò le braccia sopra la testa, scrollandole per far circolare il sangue. La schiena gli faceva così male che si augurò di non dover essere costretto a brandire un'arma troppo presto. Abbassò le braccia e guardò verso Sloan.
Il macellaio se n'era andato.
Eragon sorrise nel vedere una serie di orme, accompagnate dall'impronta rotonda della punta del bastone, che si allontanavano dal bivacco. Le tracce erano confuse e incerte, ma puntavano a nord, verso la grande foresta degli elfi.
Gli auguro di farcela, pensò Eragon, stupito di sé. Gli auguro di farcela, perché vorrà dire che tutti possiamo avere un'occasione per redimerci dai nostri errori. E se Sloan riuscirà a purificare il carattere dai suoi difetti e a riscattarsi dal male che ha fatto, scoprirà che la sua situazione non è disperata come crede. Perché Eragon non aveva detto a Sloan che se avesse dimostrato di pentirsi sinceramente dei suoi crimini, se avesse modificato il suo comportamento e fosse vissuto come una persona migliore, la regina Islanzadi avrebbe ordinato ai suoi stregoni di restituirgli la vista. Tuttavia era una ricompensa che Sloan doveva meritare senza sapere della sua esistenza, altrimenti avrebbe potuto indurre gli elfi a concedergliela anzitempo.
Eragon guardò ancora un po' le impronte, poi spostò lo sguardo sull'orizzonte e disse: «Buona fortuna.»
Stanco ma soddisfatto, volse le spalle alle orme di Sloan e cominciò a correre per la Landa Grigia. Sapeva che a sud-ovest si trovavano le antiche formazioni di arenaria dove Brom riposava in pace nel suo sepolcro di diamante. Avrebbe voluto fare una deviazione per andare a rendergli omaggio, ma non osò, perché se Galbatorix aveva scoperto quel luogo, di certo aveva mandato i suoi agenti anche lì in cerca di Eragon.
«Tornerò» disse. «Te lo prometto, Brom: un giorno tornerò.»
E continuò a correre.
♦ ♦ ♦
LA PROVA DEI LUNGHI COLTELLI
«Ma siamo la tua gente!»
Fadawar, un uomo alto, il naso affilato e la pelle scura, parlava con lo stesso accento forte e con le vocali alterate che Nasuada ricordava di aver sentito durante la sua infanzia nel Farthen Dûr, quando arrivavano gli emissari della tribù di suo padre e lei sedeva sonnecchiando sulle gambe di Ajihad mentre gli uomini parlavano e fumavano erba di cardo.
Nasuada alzò lo sguardo su Fadawar, rimpiangendo di non essere almeno sei pollici più alta per poter guardare negli occhi il condottiero e i suoi quattro attendenti. Era abituata a stare fra uomini che torreggiavano su di lei, ma la sconcertava il fatto di trovarsi in un gruppo di persone con la pelle del suo stesso colore. Era un'esperienza nuova, non essere oggetto degli sguardi curiosi e dei commenti sussurrati della gente.
Era in piedi davanti allo scranno intagliato dove teneva udienza - una delle pochissime vere sedie che i Varden avevano portato con sé nel corso della campagna militare - nel rosso padiglione di comando. Il sole stava per tramontare e i suoi raggi obliqui filtravano da un vetro istoriato, colorando ogni cosa di un'intensa sfumatura cremisi. Un tavolo lungo e basso, coperto di documenti e mappe, occupava metà del padiglione.
Appena fuori dall'ingresso, Nasuada sapeva che i sei elementi della sua guardia personale - due umani, due nani e due Urgali - aspettavano con le armi sguainate, pronti ad attaccare al minimo segnale di pericolo. Jörmundur, il suo ufficiale più anziano e fidato, le aveva assegnato delle guardie personali dal giorno stesso in cui Ajihad era morto, però mai così tante e per tanto tempo. Il giorno dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Jörmundur aveva espresso una profonda e assillante preoccupazione per la sua sicurezza, una preoccupazione, sosteneva, che spesso lo teneva sveglio di notte, con i bruciori di stomaco. Dato che un sicario aveva cercato di ucciderla ad Aberon, e Murtagh era riuscito nell'intento con re Rothgar meno di una settimana prima, era opinione di Jörmundur che Nasuada dovesse istituire un reparto speciale per proteggere se stessa. Lei aveva obiettato che una tale misura era esagerata, ma Jörmundur non aveva voluto sentire ragioni: aveva minacciato di lasciare il proprio incarico se lei si fosse rifiutata di adottare quelle che lui riteneva le dovute precauzioni. Alla fine Nasuada aveva capitolato, ma solo per passare tutta l'ora seguente a discutere sul numero di guardie del reparto. Jörmundur ne avrebbe volute dodici o anche di più, al suo servizio ventiquattr'ore su ventiquattro, mentre lei ne voleva quattro o anche meno. Si accordarono per sei, che a Nasuada sembravano comunque troppe. Temeva di apparire pavida, o peggio, di voler intimidire coloro che le si avvicinavano. Ma ancora una volta le sue proteste caddero nel vuoto. Quando accusò Jörmundur di essere un vecchio fifone cocciuto, lui si mise a ridere e ribatté: «Meglio un vecchio fifone cocciuto che un giovane temerario morto prima del tempo.»
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