Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Dato che i membri della guardia cambiavano ogni sei ore, in tutto i guerrieri impegnati a proteggere Nasuada erano trentaquattro, compresi i dieci supplementari a disposizione per sostituire i compagni in caso di malattia, ferite o morte.
Era Nasuada che aveva insistito per reclutare gli elementi da tutte e tre le razze mortali schierate contro Galbatorix. La sua speranza era di accrescere la solidarietà fra di loro, e di trasmettere l'idea che lei rappresentava gli interessi di tutte le razze sotto il suo comando, non solo degli umani. Avrebbe incluso anche gli elfi, ma al momento Arya era l'unica elfa che combatteva con i Varden e i loro alleati, e i dodici maghi che Islanzadi aveva inviato a proteggere Eragon dovevano ancora arrivare. Con grande disappunto aveva notato che gli umani e i nani mostravano ostilità nei riguardi dei colleghi Urgali, una reazione che aveva previsto ma non era stata capace di evitare o mitigare. Sapeva che ci voleva ben più di una battaglia condivisa per alleggerire le tensioni fra razze che si erano combattute e odiate per più generazioni di quante se ne potessero contare. Però trovava incoraggiante il fatto che i guerrieri del reparto avessero deciso di chiamarsi Falchineri, un gioco di parole che si riferiva sia al colore della sua pelle sia al fatto che gli Urgali la chiamavano Lady Furianera.
Davanti a Jörmundur non lo avrebbe mai ammesso, ma Nasuada aveva ben presto cominciato ad apprezzare il senso di sicurezza che le infondevano le guardie. Oltre a essere esperti nell'uso delle armi da loro scelte - spade per gli umani, asce per i nani, e un variegato assortimento di curiosi armamenti per gli Urgali - molti guerrieri erano anche maghi provetti. E le avevano tutti giurato lealtà imperitura nell'antica lingua. Dal giorno in cui i Falchineri avevano assunto l'incarico non avevano mai lasciato Nasuada da sola con un'altra persona, fatta eccezione per Farica, la sua cameriera.
Almeno fino a quel momento.
Nasuada li aveva fatti uscire dal padiglione perché sapeva che il suo incontro con Fadawar avrebbe potuto condurre a uno spargimento di sangue che il loro senso del dovere li avrebbe indotti a prevenire. Tuttavia non era del tutto disarmata. Aveva un pugnale nascosto fra le pieghe dell'abito e un coltello più piccolo infilato nel corpetto della sottoveste. E poi c'era Elva, la bambina veggente, celata da un pannello di stoffa dietro lo scranno di Nasuada, pronta a intervenire se necessario.
Fadawar batté impaziente il suo scettro sul terreno. L'asta cesellata, alta quattro piedi, era d'oro massiccio, come tutto il resto del suo straordinario assortimento di gioielli: fasce d'oro gli coprivano gli avambracci; un pettorale d'oro martellato gli proteggeva il torace; lunghe e pesanti catene d'oro gli pendevano al collo; dischi d'oro bianco lavorati a sbalzo gli allungavano i lobi delle orecchie; e sulla testa troneggiava una corona d'oro sfavillante di tali proporzioni che Nasuada non poté fare a meno di domandarsi come facesse il collo di Fadawar a sopportare quel peso senza ingobbirsi e in che modo quel monumentale pezzo di architettura restasse fermo al suo posto. Sembrava che avessero dovuto imbullonare l'enorme struttura, alta almeno due piedi e mezzo, al suo piedistallo d'osso per impedirle di crollare.
Gli uomini di Fadawar erano abbigliati allo stesso modo, anche se con meno opulenza. L'oro che ostentavano serviva a proclamare non soltanto la loro ricchezza ma anche la posizione sociale e le gesta compiute, come pure la maestria dei famosi artigiani della loro tribù. Che fossero nomadi o cittadini, i popoli dalla pelle nera di Alagaësia erano da tempo rinomati per la qualità della loro arte orafa, che al suo meglio rivaleggiava con quella dei nani.
Anche Nasuada possedeva alcuni pezzi pregiati, ma aveva scelto di non indossarli. Il suo misero vestiario non poteva competere con lo splendore di Fadawar. Per giunta, credeva non fosse prudente affiliarsi con un gruppo in particolare, per quanto fosse ricco o influente, quando doveva trattare e parlare con tutte le diverse fazioni dei Varden. Se avesse dimostrato parzialità verso l'uno o l'altro gruppo, avrebbe minato la propria capacità di controllarli tutti.
Ed era questo il principale argomento di discussione con Fadawar.
Fadawar batté ancora una volta lo scettro per terra. «Il sangue è la cosa più importante! Prima vengono le responsabilità verso la famiglia, poi verso la tribù, poi verso il capo militare, poi verso gli dei del cielo e della terra, e dopo, soltanto dopo, verso il tuo re e la tua nazione, se li hai. Così Unulukuna ha voluto che vivessero gli uomini, ed è così che dobbiamo vivere se vogliamo essere felici. Sei così sfrontata da voler sputare sulle scarpe del Vegliardo? Se un uomo non aiuta la sua famiglia, da chi potrà sperare di ricevere aiuto? Gli amici vanno e vengono, ma la famiglia è per sempre.»
«Tu mi chiedi» replicò Nasuada «di concedere incarichi di prestigio ai tuoi uomini perché sei cugino di mia madre e perché mio padre è nato fra di voi. Sarei ben felice di accontentarti se i tuoi uomini sapessero ricoprire quelle posizioni meglio di chiunque altro fra i Varden, ma niente di ciò che hai detto finora mi ha convinta. E prima che tu faccia ancora sfoggio della tua aurea eloquenza, sappi che i tuoi appelli al nostro legame di sangue non hanno senso per me. Prenderei in maggior considerazione la tua richiesta se avessi fatto qualcosa di concreto per sostenere mio padre, invece di limitarti a mandare nel Farthen Dûr ninnoli d'oro e vuote promesse. Soltanto ora che ho vinto e che la mia influenza è cresciuta ti sei fatto avanti. Be', i miei genitori sono morti, e io dico che non ho famiglia se non me stessa. Voi siete la mia gente, sì, ma niente di più.»
Gli occhi di Fadawar si ridussero a due fessure. Levò il mento e disse: «L'orgoglio di una donna è sempre insensato. Fallirai senza il nostro appoggio.»
Fadawar era passato alla propria lingua nativa, costringendo Nasuada a rispondere allo stesso modo. Lo odiò per questo. L'eloquio stentato e i toni incerti mettevano in risalto la sua scarsa dimestichezza con la lingua d'origine, segno che non era cresciuta nella loro tribù ed era un'estranea. Una manovra volta a screditare la sua autorità. «I nuovi alleati sono sempre bene accetti» disse Nasuada. «Tuttavia non posso indulgere in favoritismi, né tu dovresti averne bisogno. I tuoi uomini sono prodi e valorosi, perfettamente in grado di scalare i ranghi dei Varden senza dover dipendere dalla carità degli altri. Siete forse cani affamati che implorano gli avanzi della mia tavola, o siete uomini capaci di sfamarsi da soli? Se ne siete capaci, allora non vedo l'ora di lavorare con voi per migliorare la compagine dei Varden e sconfiggere Galbatorix.»
«Bah!» esclamò Fadawar. «La tua offerta è falsa come te. Noi non faremo il lavoro dei servi: noi siamo gli eletti. Tu ci insulti. Te ne stai lì a sorridere, ma il tuo cuore è pieno di veleno di scorpione.»
Nasuada represse un moto di rabbia e cercò di rabbonire il condottiero. «Non intendevo offenderti. Stavo solo cercando di spiegare la mia posizione. Non nutro alcuna animosità nei riguardi delle tribù nomadi, né alcun affetto particolare. È una cosa tanto disdicevole?»
«È peggio che disdicevole, è tradimento bello e buono! Tuo padre ci ha fatto certe richieste sulla base della nostra parentela, e adesso tu ignori i nostri servigi e ci tratti come poveri mendicanti!»
Nasuada si rassegnò. E così Elva aveva ragione... è inevitabile, pensò. Un brivido di paura e di eccitazione la percorse. Se così dev'essere, allora non ho più alcun motivo di continuare questa farsa. Alzando la voce perché risuonasse forte e chiara, dichiarò: «Richieste che non avete assolutamente onorato.»
«Invece sì!»
«Non è vero. Ma se anche lo fosse, la posizione dei Varden è troppo precaria perché io vi dia qualcosa in cambio di niente. Tu mi chiedi dei favori, ma allora dimmi, cos'hai da offrirmi in cambio? Finanzierai la causa dei Varden col vostro oro e i vostri gioielli?»
«Non direttamente, ma...»
«Mi concederai i tuoi artigiani senza che debba pagarti nessun compenso?»
«Non possiamo...»
«E allora come intendi guadagnarti questi favori? Non puoi pagarmi con i tuoi guerrieri: i tuoi uomini già combattono per me, che siano fra i Varden o nell'esercito di re Orrin. Accontentati di quello che hai, capitano, e non pretendere niente di più di quanto ti spetta.»
«Tu stravolgi la verità per i tuoi scopi egoistici. Io pretendo quello che mi spetta! Ecco perché sono qui. Continui a parlare, ma le tue parole sono vuote, mentre con le tue azioni ci tradisci!» I bracciali d'oro tintinnarono mentre gesticolava, come se si stesse rivolgendo a un pubblico di migliaia di persone. «Tu ammetti che siamo la tua gente. Dunque segui ancora le nostre tradizioni e veneri ancora i nostri dei?»
Ci siamo, pensò Nasuada. Avrebbe potuto mentire e dire che aveva abbandonato le vecchie usanze, ma se l'avesse fatto, i Varden avrebbero perduto le tribù di Fadawar, e anche le altre comunità nomadi, una volta che si fosse sparsa la voce. Abbiamo bisogno di loro. Ci serve ogni singolo uomo a disposizione se vogliamo avere una minima possibilità di sconfiggere Galbatorix.
«Sì» rispose.
«Allora io dichiaro che sei inadatta a guidare i Varden e, com'è mio diritto, ti sfido alla Prova dei Lunghi Coltelli. Se vinci, ci inchineremo davanti a te e non metteremo mai più in discussione la tua autorità. Ma se perdi dovrai farti da parte, e io prenderò il tuo posto come capo dei Varden.»
Nasuada notò lo scintillio di avidità negli occhi di Fadawar. È sempre stato questo il suo obiettivo, pensò. Avrebbe invocato la prova anche se avessi accettato le sue richieste. Ad alta voce disse: «Forse ricordo male, ma mi pare che la tradizione dica che il vincitore assumerà il comando delle tribù dell'avversario, oltre a mantenere la propria carica. O mi sbaglio?» Per poco non scoppiò a ridere quando vide l'espressione sgomenta sul volto di Fadawar. Non ti aspettavi che lo sapessi, vero?
«Non ti sbagli.»
«Allora accetto la tua sfida, a patto che, se vinco, la tua corona e il tuo scettro diventino miei. D'accordo?»
Fadawar aggrottò la fronte e annuì. «D'accordo.» Batté lo scettro per terra con una tale violenza che per un istante l'asta rimase in piedi da sola, poi afferrò il primo bracciale del polso sinistro e cominciò a sfilarlo.
«Aspetta» disse Nasuada. Si avvicinò al tavolo che occupava l'altra metà del padiglione, prese una campanella d'ottone e la suonò due volte. Fece una pausa, e poi la suonò altre quattro volte.
Dopo appena un paio di secondi, Farica entrò nella tenda. Squadrò gli ospiti di Nasuada da capo a piedi, poi fece un inchino e disse: «Sì, mia signora?»
Nasuada fece un cenno a Fadawar. «Adesso possiamo procedere.» Poi si rivolse alla cameriera: «Aiutami a togliere il vestito. Non voglio sciuparlo.»
L'anziana donna fu turbata dalla richiesta. «Qui, mia signora? Davanti a questi... uomini?»
«Sì, qui. E sbrigati! Non ho alcuna intenzione di mettermi a discutere con una serva.» Si rese conto di essere stata sgarbata, ma il cuore le batteva fortissimo ed era diventata incredibilmente, terribilmente sensibile: la sottoveste di morbido lino le sembrava ruvida come un sacco di iuta. Non era il momento per dare prova di pazienza e cortesia. La sua attenzione adesso era tutta concentrata sulla prova imminente.
Nasuada rimase immobile mentre Farica scioglieva le stringhe del suo abito, che partivano dalle scapole e arrivavano fino alle reni. Una volta allentate le stringhe, Farica aiutò Nasuada a sfilare le braccia dalle maniche, e il guscio di tessuto drappeggiato le ricadde ai piedi, lasciandola seminuda, coperta appena dalla candida sottoveste. Nasuada ricacciò indietro un brivido mentre i quattro guerrieri la osservavano, sentendosi vulnerabile sotto i loro sguardi cupidi. Li ignorò e fece un passo avanti, scavalcando il vestito che Farica si affrettò a raccogliere dalla polvere.
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