Volodyk - Paolini3-Brisingr
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«Eragon» rispose Nasuada. Aveva l'aria stanca e le guance scavate, come se fosse molto malata. Una ciocca le sfuggì dalla crocchia, arricciandosi verso l'attaccatura dei capelli. Eragon scorse una pesante fasciatura sul braccio che Nasuada levò per appiattire il ricciolo ribelle. «Sei sano e salvo, grazie a Gokukara. Eravamo preoccupati.»
«Mi dispiace di averti dato pensieri, ma avevo le mie ragioni.»
«Me le spiegherai al tuo ritorno.»
«Come desideri» disse lui. «Cosa ti sei fatta? Qualcuno ti ha aggredita? Perché nessuno del Du Vrangr Gata ha guarito le tue ferite?»
«Sono stata io a ordinare di non farlo. Anch'io ti darò le mie spiegazioni quando arriverai.» Sebbene perplesso, Eragon annuì e trattenne le domande che gli bruciavano sulle labbra. Ad Arya, Nasuada disse: «Sono colpita. Lo hai trovato. Non ero sicura che ce l'avresti fatta.»
«La fortuna mi ha assistito.»
«Può darsi, ma sono indotta a credere che le tue doti siano state importanti quanto la generosità della fortuna. Fra quanto pensate di essere qui?»
«Due, tre giorni, se non ci sono imprevisti.»
«Bene. Allora vi aspetterò. Da adesso in poi voglio che mi cerchiate almeno una volta prima di mezzogiorno e una volta prima di notte. Se non avrò vostre notizie, riterrò che siate stati catturati e manderò Saphira con una squadra di soccorso.»
«Potremmo non avere sempre la libertà di usare la magia.»
«Trovate il modo. Ho bisogno di sapere dove siete e se siete al sicuro.»
Arya ci rifletté qualche istante, poi disse: «Se posso, farò come chiedi, ma non se questo dovesse comportare un pericolo per Eragon.»
«Concesso.»
Approfittando della pausa nella conversazione, Eragon disse: «Nasuada, Saphira è vicina a te? Vorrei parlarle... Non ci sentiamo da quando ci siamo separati sull'Helgrind.»
«È andata un'ora fa in perlustrazione. Riuscite a non far spezzare questo incantesimo finché non scopro se è tornata?»
«Vai pure» rispose Arya.
Bastò un passo per far uscire Nasuada dal loro campo visivo, lasciando dietro di sé l'immagine fissa del tavolo e delle sedie del suo padiglione rosso. Per un po' Eragon studiò l'arredamento della tenda, ma poi l'irrequietezza lo portò a distogliere lo sguardo dall'acqua per lasciarlo indugiare sulla nuca di Arya. I lunghi capelli neri le ricadevano oltre una spalla, lasciando scoperta un'ampia porzione della pelle appena sopra la scollatura dell'abito. Eragon rimase a fissarla per quasi un minuto, poi si riscosse e si appoggiò con la schiena al ceppo bruciato.
Dopo un po' ecco un rumore di legno spezzato, e poi uno sfavillio di squame azzurre riempì la pozza d'acqua mentre Saphira si contorceva per entrare nel padiglione. Era difficile stabilire di quale parte di drago si trattasse. Le squame si spostarono; Eragon scorse la parte bassa di una coscia, una delle punte acuminate della coda, la membrana floscia di un'ala ripiegata, e infine lo scintillio di una zanna, mentre la dragonessa si rigirava per trovare una posizione comoda e riuscire a guardare lo specchio che Nasuada usava per le sue arcane comunicazioni. Dai rumori sospetti provenienti dietro la dragonessa, Eragon intuì che stava facendo a pezzi gran parte della mobilia. Alla fine Saphira trovò pace, avvicinò la testa allo specchio - uno dei suoi enormi occhi color zaffiro bastava a riempire l'intera pozza - e scrutò Eragon.
Si fissarono a vicenda per un lungo minuto, senza muoversi. Eragon rimase sorpreso dal sollievo che provò nel vederla. Non si era mai sentito davvero al sicuro da quando si erano separati.
«Mi sei mancata» mormorò.
Lei batté la palpebra una volta.
«Nasuada, sei ancora lì?»
La risposta smorzata provenne da un punto alla destra di Saphira. «Sì, più o meno.»
«Saresti così gentile da riferirmi i commenti di Saphira?»
«Sarei più che lieta di farlo, ma al momento sono incastrata fra un'ala e un palo di sostegno, e non ho modo di liberarmi, a quanto pare. Potresti avere difficoltà a sentirmi. Ma se hai un po' di pazienza ci provo.»
«Sì, te ne prego.»
Nasuada rimase in silenzio per qualche battito di cuore, poi, in un tono tanto simile a quello di Saphira da farlo quasi scoppiare a ridere, disse: «Stai bene?»
«Sono sano come un bue. E tu?»
«Paragonare me stessa a un bovino sarebbe ridicolo e offensivo, ma sto bene, se è questo che mi chiedi. Sono contenta che ci sia Arya con te. È un bene che tu abbia qualcuno con un po' di discernimento a guardarti le spalle.»
«Concordo. L'aiuto è sempre bene accetto quando sei in pericolo.» Pur contento di poter parlare con Saphira, anche se in quel modo bizzarro, Eragon trovava che le parole affidate alla voce fossero un ben misero sostituto del libero scambio di pensieri ed emozioni che condividevano quando erano insieme. Per giunta, in presenza di Arya e Nasuada, Eragon era riluttante ad affrontare temi di natura più personale, come chiederle se lo aveva perdonato per averla costretta a lasciarlo nell'Helgrind. Saphira doveva condividere la sua riluttanza, perché anche lei evitò l'argomento. Chiacchierarono di altre cose meno importanti e infine si salutarono. Prima di allontanarsi dalla pozza, Eragon si sfiorò le labbra con le dita e in silenzio mormorò: Mi dispiace.
Fra le piccole squame che orlavano l'occhio di Saphira si aprirono tanti spazi che lasciavano intravvedere la carne sottostante. La dragonessa batté la palpebra con un movimento rallentato, ed Eragon capì che aveva compreso il suo messaggio e non gli serbava rancore.
Dopo che Eragon e Arya si furono congedati da Nasuada, Arya sciolse l'incantesimo e si alzò. Col dorso della mano si spazzolò il terriccio dal vestito.
Nel frattempo Eragon smaniava, impaziente come non mai: in quel momento non desiderava altro che correre dritto da Saphira e accoccolarsi con lei davanti a un falò.
«Andiamo» disse, e già correva.
♦ ♦ ♦
UNA QUESTIONE DELICATA
I muscoli della schiena di Roran si gonfiarono l'uno dopo l'altro come onde mentre sollevava il macigno da terra. Posò la grossa pietra sulle cosce per un istante, poi, grugnendo per lo sforzo, la issò sopra la testa, a braccia tese. Mantenne la posizione per un intero minuto. Quando le spalle cominciarono a tremargli e a cedere, lasciò cadere il macigno, che atterrò con un tonfo sordo lasciando un'impronta profonda parecchi pollici.
A fianco di Roran, venti guerrieri Varden cercarono di sollevare massi delle stesse dimensioni. Soltanto due ci riuscirono; gli altri decisero che era meglio allenarsi con le pietre più leggere cui erano abituati. Roran era contento che i mesi passati a lavorare nella fucina di Horst sommati agli anni trascorsi alla fattoria gli avessero dato una forza tale da competere con uomini che si esercitavano alle armi fin da quando avevano dodici anni.
Scrollò le braccia che gli bruciavano e trasse qualche respiro profondo, sentendo l'aria fredda sul torace nudo. Si massaggiò la spalla destra, tastando il muscolo rotondo con le dita per avere un'altra conferma che non restava alcuna traccia della ferita che gli aveva inflitto il Ra'zac con un morso. Sogghignò, felice di essere di nuovo sano e tutto intero, un evento che prima non avrebbe ritenuto possibile più dell'esistenza di una mucca ballerina.
Un lamento sofferente lo fece voltare a guardare Albriech e Baldor, che si stavano esercitando alla scherma con Lang, un veterano dalla pelle scura coperta di cicatrici che insegnava l'arte della guerra. Erano due contro uno, ma Lang aveva gioco facile con gli avversari e usando la spada di legno per gli allenamenti disarmò Baldor con un affondo alle costole e menò alla gamba di Albriech un colpo così potente che il giovane cadde gemendo, il tutto nell'arco di un paio di secondi. Roran li capiva: aveva appena concluso anche lui una seduta di allenamento con Lang, e il risultato era una serie di lividi freschi ad accompagnare quelli ormai sbiaditi che si era procurato sull'Helgrind. In genere preferiva il martello alla spada, ma pensava di dover comunque imparare a maneggiare una lama, per ogni evenienza. Usare la spada richiedeva molto più acume e agilità di quanto, secondo lui, fosse necessario in battaglia: una martellata sul polso di uno spadaccino e l'avversario, con o senza armatura, sarebbe stato troppo occupato a cullarsi le ossa rotte per difendersi.
Dopo la battaglia delle Pianure Ardenti, Nasuada aveva invitato gli abitanti di Carvahall a unirsi ai Varden. Avevano tutti accettato la sua offerta. Quelli che l'avrebbero rifiutata non si trovavano lì, perché avevano già scelto di restare nel Surda quando si erano fermati a Dauth, lungo la strada per le Pianure Ardenti. Tutti gli uomini abili di Carvahall avevano preso vere armi - abbandonando le lance e gli scudi che si erano costruiti - e si erano dati da fare per diventare guerrieri degni di Alagaësia. La gente della Valle Palancar era abituata alla vita dura. Maneggiare una spada non era peggio che spaccare legna, ed era molto più facile che dissodare la terra o zappare acri di barbabietole nella canicola dell'estate. Quelli che conoscevano un mestiere continuarono a fare gli artigiani per i Varden, ma nel tempo libero imparavano a maneggiare le armi che erano state loro affidate, perché ogni uomo avrebbe dovuto combattere quando fossero risuonate le trombe di guerra.
Roran si era dedicato agli allenamenti con zelo incrollabile fin da quando era tornato dall'Helgrind. Aiutare i Varden a sconfiggere l'Impero, e quindi Galbatorix, era l'unica cosa che poteva fare per proteggere i suoi compaesani e Katrina. Non era così arrogante da pensare di poter modificare da solo l'esito della guerra, ma aveva fiducia nella propria capacità di poter forgiare il mondo e sapeva che se si fosse impegnato avrebbe potuto accrescere le probabilità di vittoria dei Varden. Doveva restare vivo, però, e questo significava modellare il corpo e conoscere a fondo gli strumenti e le tecniche di combattimento per evitare di soccombere davanti a un guerriero più esperto.
Mentre attraversava il campo di allenamento, di ritorno alla tenda che condivideva con Baldor, Roran passò davanti a una striscia di erba rasata lunga sessanta piedi, dov'era adagiato un tronco di venti piedi, scorticato e levigato dalle migliaia di mani che lo toccavano ogni giorno. Senza rallentare, Roran si voltò, infilò le mani sotto la parte più grossa del tronco e con un sonoro gemito di fatica lo sollevò fino a metterlo in verticale. Poi gli diede una spinta e lo fece capitombolare dall'altro lato. Afferrando la parte più sottile, ripeté l'operazione altre due volte.
Senza più energia per capovolgere ancora il tronco, Roran abbandonò il campo e si avviò a passo spedito verso il labirinto di tende grigie, facendo un cenno a Loring e a Fisk e agli altri che conosceva, come pure a una mezza dozzina di estranei che lo salutarono con trasporto: «Ehilà, Fortemartello!»
«Ehilà!» rispose. Che strano, pensò, essere riconosciuto da persone che non ho mai visto prima. Un minuto dopo, arrivò alla tenda che ormai era la sua casa ed entrò chinandosi. Ripose subito l'arco, la faretra e la spada corta che i Varden gli avevano dato.
Afferrò l'otre d'acqua che teneva accanto alla branda, poi corse fuori alla luce del sole e, stappato l'otre, se ne versò il contenuto sulla schiena e sulle spalle. Il bagno era un evento raro e insolito per Roran, ma quel giorno era un giorno importante, e voleva essere fresco e pulito per ciò che lo aspettava. Con la punta di un bastoncino levigato si grattò via il sudiciume dalle braccia e dalle gambe e da sotto le unghie, poi si pettinò i capelli e si rifilò la barba.
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