Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Eragon si sentì ricoprire la lingua di bile guardando la faccia cerea del soldato. Quando uccidiamo, uccidiamo una parte di noi stessi, pensò. Scosso da brividi in parte di sgomento, in parte di dolore, in parte di disprezzo di sé, tornò dov'era cominciata la schermaglia. Arya era inginocchiata accanto a un cadavere, intenta a lavarsi le mani e le braccia con l'acqua della borraccia del soldato.
«Come mai» gli chiese Arya «sei riuscito a uccidere quell'uomo, ma non hai potuto mettere un dito addosso a Sloan?» Si alzò e lo guardò dritto negli occhi.
Svuotato di ogni emozione, Eragon si strinse nelle spalle. «Era una minaccia. Sloan no. Non è ovvio?»
Arya rimase in silenzio per un po'. «Dovrebbe, ma per me non lo è... Mi vergogno di dover prendere lezioni di moralità da una persona con così scarsa esperienza. Forse sono stata troppo sicura, troppo convinta delle mie scelte.»
Eragon la sentiva parlare, ma le sue parole non gli dicevano niente mentre il suo sguardo vagava sui corpi inerti. È questo che è diventata la mia vita? si chiese. Una serie ininterrotta di battaglie? «Mi sento un assassino.»
«Capisco quanto è difficile per te» disse Arya. «Ricorda, Eragon, tu hai sperimentato soltanto una piccola parte di ciò che significa essere un Cavaliere dei Draghi. Questa guerra finirà prima o poi, e tu capirai che i tuoi doveri vanno ben oltre la violenza. I Cavalieri non erano soltanto guerrieri, ma guaritori, maestri e studiosi.»
Eragon serrò la mascella. «Perché combattiamo contro questi uomini, Arya?»
«Perché si frappongono tra noi e Galbatorix.»
«Allora dovremmo trovare un modo per colpire direttamente Galbatorix.»
«Non esiste alcun modo. Non possiamo marciare fino a Urû'baen finché non avremo sbaragliato il suo esercito. E non possiamo entrare nel suo castello finché non avremo disarmato quasi un secolo di trappole, magiche e meccaniche.»
«Dev'esserci un modo» borbottò Eragon. Rimase dov'era mentre Arya andava a prendere una lancia. Ma quando lei posò la punta della lancia sotto il mento di un soldato ucciso e spinse fino a fargliela entrare nel cranio, Eragon si avventò su di lei e l'allontanò con una spinta. «Che cosa fai?» gridò.
Una collera feroce balenò sul volto di Arya. «Ti perdono solo perché sei sconvolto e non ragioni lucidamente. Rifletti, Eragon! È troppo tardi per negare l'evidenza. Perché è necessario?»
La risposta gli arrivò come una frustata, e a malincuore Eragon rispose: «Perché se non lo facciamo, l'Impero noterà che la maggior parte degli uomini sono stati uccisi a mani nude.»
«Giusto! E gli unici in grado di farlo sono gli elfi, i Cavalieri e i Kull. E dato che perfino un imbecille capirebbe che un Kull non è responsabile di questo massacro, ben presto si renderanno conto che ci troviamo nei dintorni e in meno di un giorno Castigo e Murtagh voleranno qui a cercarci.» Un risucchio liquido accompagnò il gesto di Arya che strappava la lancia dal cadavere. L'elfa la tenne tesa verso Eragon finché lui non la prese. «Anch'io lo trovo ripugnante, perciò aiutami e facciamo in fretta.»
Eragon annuì. Arya recuperò una spada e insieme si misero al lavoro per dare l'impressione che fosse stata una squadra di ordinari guerrieri ad aver ucciso i soldati. Fu un lavoro sporco ma rapido, perché entrambi sapevano con precisione quale tipo di ferite i soldati avrebbero dovuto esibire per trarre in inganno, e nessuno dei due aveva voglia di indugiare. Quando arrivarono all'uomo col torace sfondato da Eragon, Arya disse: «Possiamo fare ben poco per mascherare una ferita come questa. Lasciamolo così e speriamo che pensino che sia stato travolto da un cavallo.» Si spostarono oltre. L'ultimo soldato era il capitano della pattuglia. I suoi baffi ciondolavano inerti e avevano perso parte del loro splendore.
Dopo aver allargato il foro del ciottolo perché sembrasse la tacca triangolare lasciata dalla punta di un martello da guerra, Eragon riposò un istante, contemplando i baffi tristi del capitano, e disse: «Sai, aveva ragione.»
«Su cosa?»
«Sul fatto che mi serve un'arma, un'arma vera. Ho bisogno di una spada.» Asciugandosi le mani con l'orlo della tunica, scrutò la pianura intorno a loro, contando i corpi. «Allora, è fatta. Abbiamo finito.» Senza dire altro, si accinse a raccogliere i pezzi sparsi della sua armatura, li riavvolse negli stracci e li rimise in fondo allo zaino. Poi raggiunse Arya sul poggio dov'era salita.
«Sarà meglio evitare le strade, d'ora in poi» disse lei. «Non possiamo rischiare un altro incontro con gli uomini di Galbatorix.» Indicando la mano destra di Eragon, che grondava sangue sulla tunica, disse: «Dovresti guarirla prima che ci rimettiamo in marcia.» E senza aspettare risposta, gli afferrò le dita paralizzate e disse: «Waíse heill.»
A Eragon sfuggì un gemito involontario mentre le articolazioni delle dita ritornavano nella loro sede, e i tendini lacerati e la cartilagine massacrata riacquistavano il pieno vigore, e i lembi di pelle che gli pendevano dalle nocche tornavano a coprire la carne viva. Quando l'incantesimo fu concluso, il giovane aprì e chiuse la mano per confermare la completa guarigione. «Grazie» disse. Lo sorprese che Arya avesse preso l'iniziativa pur sapendo che lui era del tutto capace di guarirsi da solo.
Lei parve imbarazzata. Distogliendo lo sguardo per contemplare la vastità della pianura, disse: «Sono felice di averti avuto al mio fianco oggi, Eragon.»
«Lo stesso vale per me.»
Arya gli rivolse un fugace, incerto sorriso. Indugiarono sul poggio per un altro minuto; nessuno dei due era ansioso di riprendere il viaggio. Poi lei sospirò e disse: «Dobbiamo andare. Le ombre si allungano. Prima o poi arriverà qualcuno, e quando scopriranno questo banchetto per i corvi ci daranno la caccia.»
Scesero dal poggio e si avviarono verso sud-ovest, deviando dalla strada, e correndo a grandi balzi nell'ondulato mare d'erba. Alle loro spalle, il primo mangiacarogne calò dal cielo.
OMBRE DEL PASSATO
Quella notte Eragon sedeva davanti al piccolo falò, masticando una foglia di tarassaco. Avevano cenato con radici, semi ed erbe raccolte da Arya nella campagna intorno: crude e prive di condimento, non erano certo invitanti, ma Eragon aveva preferito non arricchire la sua razione con un coniglio o un uccello, pur abbondanti nei paraggi, perché non voleva che Arya lo guardasse con disgusto. Per giunta, dopo il feroce scontro con i soldati, il pensiero di stroncare un'altra vita, fosse pure di un animale, gli dava la nausea.
Era tardi, e avrebbero dovuto rimettersi in marcia molto presto l'indomani, ma né lui né Arya davano segno di volersi coricare. Lei era seduta alla sua destra, un po' discosta, con le braccia strette intorno alle gambe raccolte e il mento sulle ginocchia. La gonna le si allargava intorno come la corolla di un fiore.
Il mento affondato nel petto, Eragon si massaggiava la mano destra con la sinistra, nel tentativo di alleviare l'intenso dolore. Mi serve una spada, pensò. Finché non me ne procuro una, devo trovare una protezione per le mani, per non storpiarmi quando colpisco qualcosa. Il problema è che adesso sono così forte che dovrei portare guanti con parecchi strati d'imbottitura, il che è ridicolo. Sarebbero troppo ingombranti, troppo caldi, e poi non posso indossare guanti per il resto della mia vita. Aggrottò la fronte. Stringendo i pugni, studiò come le ossa sporgenti alteravano il gioco di luce sulla pelle, affascinato dalla malleabilità del suo corpo. E che cosa succede se mi capita di combattere mentre porto l'anello di Brom! È di origine elfica, perciò probabilmente non devo temere di spezzare lo zaffiro. Ma se colpisco qualcosa mentre ho l'anello al dito, non mi slogherò solo qualche articolazione, mi fratturerò tutte le ossa della mano... Potrei perfino non riuscire più a riparare il danno... Strinse di nuovo i pugni e li rigirò da una parte e dall'altra, osservando le ombre spostarsi fra le nocche. Potrei inventare un incantesimo per impedire a qualunque oggetto che si avvicini a velocità pericolosa di colpirmi le mani. No, un momento, non va bene. E se fosse un macigno? O una frana? Mi ucciderei nel tentativo di bloccarli.
Be', se guanti e magia non funzionano, mi piacerebbe avere gli Ascûdgamln dei nani, i loro pugni d'acciaio. Con un sorriso ripensò al nano Shrrgnien che si era fatto impiantare in ogni nocca, tranne che nei pollici, un dado di metallo a cui avvitava dei chiodi d'acciaio. I chiodi permettevano a Shrrgnien di colpire qualunque cosa senza timore di farsi male, e si potevano anche svitare a piacimento. L'idea era allettante, ma Eragon non aveva alcuna intenzione di farsi trapanare le nocche. E poi, pensò, le mie ossa sono più sottili di quelle dei nani, troppo, forse, per inserirvi un dado di metallo senza che le articolazioni ne risentano... D'accordo, gli Ascûdgamln non sono una buona idea, ma forse potrei...
Avvicinando la bocca alle mani, mormorò: «Thaefathan.»
Il dorso delle mani cominciò a formicolargli e a prudergli come se le avesse infilate in un cespuglio di ortiche. La sensazione era così intensa e spiacevole che gli fece venir voglia di grattarsi furiosamente. Con un enorme sforzo di volontà, rimase immobile a osservare la pelle delle nocche che si gonfiava, formando un callo bianco spesso mezzo pollice su ciascuna. Somigliavano ai depositi cornei all'interno delle zampe dei cavalli. Quando fu soddisfatto della grandezza e della densità dei noduli, interruppe il flusso di magia e cominciò a esplorare con la vista e il tatto le nuove collinette che si ergevano sulle sue nocche.
Le mani erano più pesanti e rigide di prima, ma riusciva ancora a flettere le dita senza problemi. Saranno brutte, pensò, massaggiando le protuberanze della mano destra contro l'altro palmo, e la gente riderà quando le vedrà, ma non m'importa, perché serviranno allo scopo e mi terranno in vita.
Fremente di eccitazione, colpì la sommità di un masso rotondo che spuntava dal terreno fra le sue gambe. L'impatto gli riverberò nel braccio con un tonfo sordo, ma non gli causò più danni che se avesse colpito una tavola di legno coperta da diversi strati d'imbottitura. Eccitato, prese l'anello di Brom dallo zaino e s'infilò al dito la fredda fascia d'oro, controllando che il callo vicino fosse più alto dello zaffiro. Colpì di nuovo la pietra. L'unico suono fu quello delle pelle asciutta e compatta che urtava contro la dura roccia.
«Che cosa stai facendo?» chiese Arya, alzando lo sguardo attraverso la cortina di lunghi capelli neri.
«Niente.» Le mostrò le mani. «Ho pensato che sarebbe stata una buona idea, visto che probabilmente dovrò ancora colpire qualcuno.»
Arya esaminò le sue nocche. «Ti sarà difficile portare i guanti.»
«Posso sempre tagliarli sul dorso per farcele stare.»
Lei annuì e tornò a fissare il fuoco.
Eragon si appoggiò indietro sui gomiti e allungò le gambe, contento di essersi preparato per qualunque tipo di combattimento gli riservasse l'immediato futuro. Più in là non osava spingersi, per evitare di chiedersi come avrebbero fatto lui e Saphira a sconfiggere Murtagh o Galbatorix, e di farsi artigliare il cuore dal panico.
Concentrò lo sguardo sul falò, cercando di dimenticare le sue angosce e le sue responsabilità in quell'inferno palpitante. Ma la danza delle fiamme lo cullò fino a farlo scivolare in una sorta di apatia, dove frammenti di pensieri, suoni, immagini ed emozioni si agitavano dentro di lui come fiocchi di neve turbinanti in un grigio cielo invernale. E nel vortice gli apparve il viso del soldato che gli aveva chiesto pietà. Eragon lo vide di nuovo piangere, e sentì di nuovo le sue disperate invocazioni, e ancora il rumore del collo che si spezzava come un ramo secco.
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