Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Non importa.»

«Invece importa, perché mi dispiace, e non lo tollero. Amavo Fäolin? Come definire l'amore? Per più di vent'anni abbiamo viaggiato insieme, unici immortali a camminare fra le altre razze dalla vita breve. Eravamo compagni... e amici.»

Eragon si sentì trafiggere da una stoccata di gelosia. La combatté e la dominò, ma quando provò a eliminarla non ci riuscì. La sensazione continuò a tormentarlo come una scheggia di legno sottopelle.

«Per più di vent'anni» ripeté Arya. Continuando a rimirare le costellazioni, si dondolava avanti e indietro, come dimentica della presenza di Eragon. «E poi, in un solo istante, Durza me lo ha portato via. Fäolin e Glenwing sono stati i primi elfi a morire in combattimento dopo quasi un secolo. Quando ho visto Fäolin cadere, ho capito che il vero dolore della guerra non è morire, ma veder morire le persone che ti stanno a cuore. Era una lezione che avevo già imparato nel periodo trascorso coi Varden quando, uno dopo l'altro, gli uomini e le donne che avevo imparato a rispettare morivano di spada, di freccia, di veleno, di incidenti o di vecchiaia. Quei lutti però non erano mai stati così personali, e quando accadde pensai: "Ora morirò anch'io!" Perché qualunque Pericolo avessimo incontrato prima, Fäolin e io li avevamo superati insieme, e se lui non era riuscito a cavarsela, perché io avrei dovuto?»

Eragon si accorse che l'elfa piangeva; grosse lacrime le scendevano dagli angoli degli occhi, lungo le tempie e nei capelli. Alla luce delle stelle, sembravano rivoli d'argento liquido. L'intensità del suo dolore lo turbò. Non aveva mai pensato che fosse possibile suscitare in lei una reazione simile, e non era questa la sua intenzione.

«E poi Gil'ead» continuò lei. «Quei giorni sono stati i più lunghi della mia vita. Fäolin era morto, io non sapevo se l'uovo di Saphira era al sicuro o se per errore lo avevo rimandato da Galbatorix, e Durza... Durza saziava la sete di sangue degli spiriti che lo controllavano facendomi le cose più orribili. A volte, se esagerava, mi guariva per poter ricominciare il mattino dopo. Se mi avesse dato il tempo di riprendermi, forse avrei potuto ingannare il mio carceriere, come hai fatto tu, ed evitare di prendere la droga che m'impediva di usare la magia, ma non ho mai avuto più di un paio d'ore di tregua.

«Come te e me, anche Durza non aveva bisogno di dormire, e ogni volta che ero cosciente e i suoi altri doveri glielo consentivano, era sempre al mio fianco. Quando mi torturava, ogni secondo sembrava un'ora, ogni ora una settimana, ogni giorno un'eternità. Stava attento a non farmi impazzire... Galbatorix non avrebbe apprezzato... ma ci è arrivato vicino. Molto, molto vicino. Cominciai a sentire canti di uccelli in un luogo dove gli uccelli non potevano entrare, a vedere cose che non esistevano. Una volta, quando ero nella mia cella, una luce dorata entrò nella stanza e io mi sentii riscaldare. Quando alzai lo sguardo, mi ritrovai distesa su un ramo alto di un albero vicino al centro di Ellesméra. Il sole stava per tramontare, e tutta la città risplendeva, come divorata da un incendio. Gli Äthalvard cantavano sul sentiero, e tutto era così calmo, pacifico e bello, che sarei rimasta lì per sempre. Ma poi la luce svanì, e io mi ritrovai di nuovo sul pagliericcio... Non ci avevo più pensato, ma una volta un soldato lasciò una rosa bianca nella mia cella. Fu l'unico gesto gentile che qualcuno mi abbia mai riservato a Gil'ead. Quella notte il fiore mise radici e crebbe fino a diventare un cespuglio enorme, che cominciò a risalire lungo il muro, s'insinuò fra i blocchi di pietra del soffitto spezzandoli e uscì dai sotterranei all'aria aperta. Continuò a salire fino a toccare la luna, dove rimase come una grande torre a spirale che prometteva libertà, se solo fossi riuscita a sollevarmi dal pavimento. Tentai con ogni briciolo di energia residua, ma andava oltre le mie forze, e quando distolsi lo sguardo, il cespuglio di rose era svanito... Questo era il mio stato mentale quando tu mi sognasti e io sentii la tua presenza aleggiare su di me. Non c'è da stupirsi se ignorai la sensazione come un'altra illusione.»

Gli rivolse un fievole sorriso. «E poi siete arrivati. Tu e Saphira. Dopo che avevo abbandonato ogni speranza, quando stavo per essere portata a Urû'baen da Galbatorix, arrivò un Cavaliere a salvarmi. Un Cavaliere col suo drago!»

«E il figlio di Morzan» disse lui. «Entrambi i figli di Morzan.»

«Descrivilo come vuoi, ma è stato un salvataggio così improbabile che a volte penso di essere impazzita e di aver immaginato tutto quello che è successo da allora.»

«E avresti immaginato anche tutti i problemi che ho causato restando all'Helgrind?»

«No» disse lei. «Penso di no.» Si tamponò gli occhi con la manica per asciugarli. «Quando mi svegliai nel Farthen Dûr c'erano troppe cose che richiedevano il mio intervento per indugiare sul passato. Ma gli ultimi eventi sono stati così sanguinosi e oscuri che mi sono scoperta a ricordare sempre più spesso ciò che invece non dovrei. Mi mette di malumore, mi deprime, annulla la pazienza per i banali contrattempi della vita.» Cambiò posizione e si mise a gambe incrociate, le mani appoggiate sul terreno per sorreggersi. «Tu dici che io cammino da sola. Gli elfi non sono inclini alle aperte manifestazioni di amicizia come gli umani e i nani, e io sono sempre stata di natura piuttosto solitaria. Ma se mi avessi conosciuta prima di Gil'ead, se mi avessi conosciuta com'ero veramente, non mi avresti considerata così distaccata e altera. All'epoca cantavo e ballavo e non mi sentivo minacciata da un senso di fatalità incombente.»

Eragon tese la mano destra e la posò sulla sinistra di lei. «Le storie sugli eroi dei tempi che furono non dicono mai che è questo il prezzo che si paga quando si affrontano i mostri delle tenebre e i mostri della mente. Continua a pensare ai giardini del Palazzo di Tialdarí, e sono sicuro che ti sentirai meglio.»

Arya consentì quel contatto fra di loro per quasi un minuto, non un minuto di ardore o di passione per Eragon, ma di pacata amicizia. Lui non fece alcun tentativo di corteggiarla, perché teneva alla sua fiducia più di qualsiasi altra cosa al mondo, tranne il legame con Saphira, e si sarebbe gettato nelle fiamme piuttosto che correre il rischio di perderla. Poi, con un impercettibile movimento del braccio, Arya gli lasciò intendere che il momento era passato, e senza rimpianti Eragon ritrasse la mano.

Desideroso di alleviare la pena di Arya come poteva, Eragon si guardò intorno e mormorò a voce così bassa da non essere sentito: «Loivissa.» Guidato dal potere del vero nome, frugò nel terreno ai suoi piedi finché le dita non si chiusero su quello che cercava: un disco fragile e sottile come carta, grande la metà dell'unghia del suo mignolo. Trattenendo il fiato, lo depositò sul proprio palmo destro, al centro del gedwëy ignasia, con tutta la delicatezza possibile. Ripassò quanto gli aveva insegnato Oromis a proposito dell'incantesimo che stava per evocare, per essere certo di non sbagliare, e poi cominciò a cantare alla maniera degli elfi, un canto tenue e fluente:

Eldhrimner O Loivissa nuanen, dautr abr deloi, Eldhrimner nen ono weohnataí medh solus un thringa, Eldhrimner un fortha onr fëon vara,

Wiol allr sjon.

Eldhrimner O Loivissa nuanen...

Eragon continuò a ripetere gli stessi quattro versi rivolgendoli alla piccola scaglia marrone nel suo palmo, che tremò e poi si gonfiò fino a diventare sferica. Sottilissimi tentacoli bianchi lunghi un pollice o due germogliarono dal fondo del bulbo, solleticando Eragon, mentre dalla sommità spuntò un gracile stelo verde che, a un suo cenno, si allungò di quasi un piede. Una singola foglia, larga e piatta, crebbe su un lato dello stelo. Poi la punta dello stelo si ispessì, ricadde su se stessa e dopo un momento di apparente inattività si divise in cinque segmenti che si allargarono a ventaglio trasformandosi nei petali carnosi di un giglio. Il fiore era azzurro pallido, a forma di campana.

Quando ebbe raggiunto la grandezza giusta, Eragon recise il flusso di magia e osservò la sua opera. Cantare le piante era una facoltà che la maggior parte degli elfi acquisiva in tenera età, ma Eragon si era allenato soltanto un paio di volte, e non sapeva se i suoi sforzi avrebbero avuto successo. L'incantesimo lo aveva stancato parecchio: il giglio aveva richiesto una quantità sorprendente di energia per raggiungere in pochi istanti l'equivalente di un anno e mezzo di crescita.

Soddisfatto del proprio lavoro, Eragon porse il fiore ad Arya. «Non è una rosa bianca, ma...» Sorrise e si strinse nelle spalle.

«Non dovevi» disse lei. «Ma sono felice che tu l'abbia fatto.» Accarezzò la corolla e l'avvicinò al viso per annusarla. La sua espressione si addolcì, mentre ammirava il giglio per lunghi minuti. Poi scavò una buca nel terreno, piantò il bulbo e premette di nuovo con la mano la terra intorno al fiore. Toccò ancora i petali e senza smettere di contemplare il giglio disse: «Grazie. Donare un fiore è un'usanza che appartiene a entrambe le nostre razze, ma per noi elfi rappresenta qualcosa di molto più importante che per voi umani. Rappresenta tutto ciò che c'è di buono: vita, bellezza, rinascita, amicizia e altro ancora. Te lo spiego perché tu capisca che cosa significa per me. Non lo sapevi, ma...»

«Lo sapevo.»

Arya lo guardò con espressione solenne, incerta su come interpretare le sue parole. «Perdonami. È la seconda volta che dimentico quanto hai già imparato. Non commetterò più lo stesso errore.»

Arya ripeté il suo ringraziamento nell'antica lingua, e passando a sua volta alla lingua nativa dell'elfa Eragon rispose che era stato un piacere e che era lieto che lei avesse apprezzato il dono. Poi rabbrividì, affamato nonostante avesse appena mangiato. Arya se ne accorse. «Hai consumato troppa energia. Se ne hai ancora dentro Aren, usala per riprenderti.»

Eragon impiegò qualche istante per ricordare che Aren era il nome dell'anello di Brom; lo aveva sentito pronunciare soltanto una volta prima d'allora, da Islanzadi, il giorno che era arrivato a Ellesméra. È il mio anello, adesso, si disse. Devo smettere di pensare che è ancora di Brom. Studiò con occhio critico il grande zaffiro che portava al dito, scintillante nella montatura d'oro. «Non so nemmeno se c'è energia in Aren. Io non ce l'ho mai messa, e non ho mai controllato se Brom l'avesse fatto.» Mentre parlava, espanse la coscienza verso lo zaffiro. Nel preciso istante in cui la sua mente entrò in contatto con la gemma, percepì la presenza di una vasta, ribollente pozza di energia. Con l'occhio interiore vide lo zaffiro pulsare di potere. Si chiese come facesse a non esplodere, con tutta quella forza concentrata nei ristretti confini delle sfaccettature. Dopo che lui ebbe attinto energia per eliminare dolori e ammaccature e ridare forza al corpo, il tesoro celato dentro Aren non era quasi stato intaccato.

Quando sentì la pelle formicolare, Eragon recise il legame con la gemma. Felice della novità e dell'improvviso senso di benessere, scoppiò a ridere, poi raccontò ad Arya cosa aveva scoperto. «Brom deve averci infilato ogni briciolo di energia risparmiata nel suo soggiorno a Carvahall.» Rise di nuovo, stupefatto. «Tutti quegli anni... Con quello che c'è dentro Aren potrei distruggere un intero castello con un solo incantesimo.»

«Sapeva che il nuovo Cavaliere ne avrebbe avuto bisogno quando l'uovo di Saphira si fosse dischiuso» osservò Arya. «E poi sono sicura che Aren fosse un mezzo per proteggersi se avesse dovuto combattere contro uno Spettro o qualche altro formidabile avversario. Non è un caso che sia riuscito a eludere i suoi nemici per buona parte di un secolo... Fossi in te, risparmierei l'energia che ti ha lasciato per un momento di estrema necessità, e ne aggiungerei ogni volta che ti è possibile. È una risorsa preziosissima. Non dovresti sprecarla.»

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