Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Tormentato dai ricordi, strinse i denti e respirò forte dalle narici dilatate. Si sentì ricoprire da un velo di sudore freddo. Si agitò, a disagio, e si sforzò di scacciare il fantasma ostile del soldato, ma fu invano. Vattene! gridò. Non è stata colpa mia. È Galbatorix il responsabile della tua morte, non io. Io non volevo ucciderti!

In un punto remoto della pianura buia, un lupo ululò. Qui e là nelle tenebre, gli risposero una ventina di altri lupi, levando le loro voci in una melodia discorde. Eragon sentì formicolare il cuoio capelluto e le braccia nell'udire quel canto soprannaturale. Poi, per un breve istante, gli ululati si fusero in un'unica nota, simile al grido di battaglia di un Kull alla carica.

Eragon si agitò di nuovo, inquieto.

«Cosa c'è?» gli chiese Arya. «Sono i lupi? Non ci daranno fastidio, lo sai. Stanno insegnando ai cuccioli a cacciare, e non permetteranno ai piccoli di avvicinarsi a creature dall'odore strano come il nostro.»

«Non sono i lupi là fuori» disse Eragon, abbracciandosi le gambe. «Sono i lupi qui dentro.» E si batté un dito sulla fronte.

Arya annuì, un guizzo rapidissimo, da uccello, che tradì il fatto che non era una femmina umana, anche se ne aveva assunto le sembianze. «È sempre così. I mostri della mente sono ben peggiori di quelli che esistono nella realtà. Paura, dubbio e odio fanno più danni di quanti ne faccia qualsiasi bestia selvatica.»

«E l'amore» puntualizzò Eragon.

«E l'amore» ammise lei, «e l'avidità, la gelosia e ogni altra ossessione che tormenta le razze senzienti.»

Eragon pensò a Tenga, solo nelle rovine dell'avamposto di Edur Ithindra, accovacciato davanti alla sua preziosa collezione di libri, alla ricerca ossessiva della risposta che gli sfuggiva. Non disse nulla ad Arya dell'eremita, perché in quel momento non voleva parlare di quel curioso incontro. Invece le domandò: «Non ti senti turbata quando uccidi?»

I verdi occhi di Arya si ridussero a due fessure. «Né io né il resto della mia razza mangiamo carne di animali perché non sopportiamo di nuocere a un'altra creatura per soddisfare la nostra fame, e tu hai l'ardire di chiedermi se uccidere ci turba? Possibile che tu ci comprenda così poco da pensare che siamo assassini a sangue freddo?»

«No, certo che no» protestò lui. «Non era questo che intendevo.»

«E allora esprimiti meglio, e non offendere, se non è questa la tua intenzione.»

Scegliendo le parole con estrema cura, Eragon disse: «Ho fatto più o meno la stessa domanda a Roran prima che attaccassimo l'Helgrind. Quello che voglio sapere è come ti senti quando uccidi. Come dovremmo sentirci?» Guardò il fuoco, accigliato. «I guerrieri che hai ucciso tornano mai a fissarti, veri come lo sono io davanti a te?»

Arya strinse ancora di più le braccia intorno alle gambe, pensierosa. Una lingua di fuoco guizzò verso l'alto, carbonizzando una delle falene che volavano intorno al bivacco. «Ganga» mormorò, agitando un dito. Con uno sfarfallio di ali lanuginose, le altre falene si allontanarono. Senza alzare lo sguardo dai ceppi incandescenti, Arya rispose: «Nove mesi dopo essere stata nominata ambasciatrice, l'unica ambasciatrice di mia madre, in realtà, lasciai i Varden del Farthen Dûr per andare nella capitale del Surda, che era ancora un paese giovane a quei tempi. Poco dopo essere partiti dai Monti Beor, i miei compagni e io ci imbattemmo in una banda di Urgali erranti. Noi avremmo tranquillamente proseguito con le spade nei foderi, ma gli Urgali vollero sfidarci per conquistare onore e gloria fra le loro tribù. La nostra forza era superiore alla loro... fra di noi c'era Weldon, l'uomo che succedette a Brom come capo dei Varden... e fu facile sbarazzarsi di quegli Urgali. Fu la prima volta che presi una vita. Quel gesto mi ossessionò per settimane, finché non mi resi conto che sarei impazzita se avessi continuato a pensarci. Molti perdono la ragione, e sono così pieni di rabbia e dolore che non si può più fare affidamento su di loro, oppure i loro cuori si trasformano in pietra e perdono la capacità di distinguere il bene dal male.»

«Come sei riuscita a superare quello che avevi fatto?»

«Ho studiato le ragioni del mio gesto per determinare se erano giuste. Una volta stabilito che sì, lo erano, mi sono chiesta se la nostra causa era tanto importante da continuare a sostenerla, anche a costo di dover uccidere ancora. E infine ho deciso che ogni volta che mi fossero tornati in mente i morti avrei immaginato di trovarmi nei giardini del Palazzo di Tialdarí.»

«E ha funzionato?»

Arya si scostò i capelli dal viso e se li portò dietro un orecchio rotondo. «Sì. L'unico antidoto al corrosivo veleno della violenza è trovare la pace dentro di noi. È una medicina difficile da ottenere, ma ne vale la pena.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Anche la respirazione aiuta.»

«La respirazione?»

«Devi fare respiri lenti, regolari, come se stessi meditando. È uno dei metodi più efficaci per calmarsi.»

Accogliendo il suggerimento, Eragon cominciò a inspirare ed espirare con piena consapevolezza, attento a mantenere un ritmo costante e a svuotare i polmoni a ogni respiro. Nel giro di un minuto, il nodo che gli attanagliava le viscere si allentò, le rughe della fronte si spianarono e la presenza dei nemici uccisi non gli parve più così concreta... I lupi ulularono ancora, ma dopo un primo fremito d'inquietudine, Eragon li ascoltò senza più timore, perché i loro versi avevano perduto il potere di turbarlo. «Grazie» disse. Arya rispose con un leggiadro movimento del capo.

Regnò il silenzio per almeno un quarto d'ora, finché Eragon disse: «Urgali.» Lasciò la parola in sospeso per qualche istante, un monolito verbale di ambiguità. «Cosa pensi del fatto che Nasuada abbia permesso loro di unirsi ai Varden?»

Arya raccolse un fuscello che le si era impigliato nell'orlo della veste e lo rigirò fra le dita affusolate, studiandolo come se contenesse un segreto. «È stata una decisione coraggiosa, e l'ammiro per questo. Nasuada agisce sempre nell'interesse dei Varden, costi quel che costi.»

«Ha fatto infuriare parecchi Varden quando ha accettato l'offerta di aiuto di Nar Garzhvog.»

«E si è riguadagnata la loro fiducia con la Prova dei Lunghi Coltelli. Nasuada è molto abile, quando si tratta di difendere la sua posizione.» Arya lanciò il fuscello nel fuoco. «Non provo simpatia per gli Urgali, ma neppure li odio. Al contrario dei Ra'zac, loro non sono d'animo malvagio, sono solo molto bellicosi. È una distinzione importante, anche se non offre alcuna consolazione alle famiglie delle loro vittime. Noi elfi abbiamo trattato con gli Urgali prima d'ora, e lo faremo di nuovo quando sarà necessario. Vana speranza, a ogni modo.»

Arya non ebbe bisogno di spiegare perché. Molte delle pergamene che Oromis aveva dato da leggere a Eragon erano dedicate all'argomento Urgali, e una in particolare, I viaggi di Gnaevaldrskald, gli aveva insegnato che tutta la cultura Urgali si basava sul combattimento. Gli Urgali maschi potevano migliorare la propria posizione sociale soltanto razziando un altro villaggio - che fosse di Urgali, di umani, di elfi o di nani importava poco - oppure combattendo contro i propri rivali uno per uno, talvolta fino alla morte. E quando era il momento di scegliere un compagno, le femmine Urgali si rifiutavano di prendere in considerazione un maschio che non avesse sconfitto almeno tre avversari. Di conseguenza, ogni nuova generazione di Urgali non aveva scelta se non sfidare i propri pari, gli anziani e girovagare per il paese in cerca di occasioni per dimostrare il proprio valore. La tradizione era così radicata che ogni tentativo di sopprimerla era fallito. Almeno sono fedeli a se stessi, pensò Eragon. Cosa di cui pochi umani possono vantarsi.

«Come ci è riuscito?» chiese Eragon «Durza è riuscito a tendere l'agguato in cui siete caduti tu, Glenwing e Fäolin con gli Urgali? Non avevate incantesimi di protezione contro gli attacchi fisici?»

«Le frecce erano stregate.»

«Allora quegli Urgali erano stregoni?»

Arya chiuse gli occhi e scosse la testa, sospirando. «No. Era una magia nera inventata da Durza. Se n'è vantato quando ero a Gil'ead.»

«Non so come sei riuscita a resistere per tanto tempo. Ho visto come ti aveva ridotta.»

«Non... non è stato facile. Consideravo le torture che mi infliggeva come una prova del mio impegno, come un'occasione per dimostrare che non avevo commesso uno sbaglio e che meritavo davvero il simbolo dello yawë. In questo modo, ho accolto con gioia quel cimento.»

«Comunque sia, gli elfi non sono immuni al dolore. È sorprendente che tu sia riuscita a tenere segreta l'ubicazione di Ellesméra per tutti quei mesi.»

Una sfumatura di orgoglio tinse la voce di Arya. «Non soltanto l'ubicazione di Ellesméra, ma anche dove avevo mandato l'uovo di Saphira, il mio vocabolario nell'antica lingua e tutto quanto poteva essere d'aiuto a Galbatorix.»

La conversazione languì, e dopo un po' Eragon disse: «Pensi spesso a quello che hai sopportato a Gil'ead?» Quando lei non rispose, aggiunse: «Non ne parli mai. Racconti con freddezza gli eventi, ma non dici mai che cosa hai provato in quei mesi di prigionia o come ti senti adesso.»

«Il dolore è dolore» disse lei. «Non c'è bisogno di descriverlo.»

«Giusto, ma ignorarlo può provocare più danni della ferita che l'ha provocato... Nessuno può subire una cosa del genere e sopravvivere indenne. Non dentro di sé, almeno.»

«Perché dai per scontato che non ne abbia già parlato con qualcuno?»

«Chi?»

«Ha importanza? Ajihad, mia madre, un amico a Ellesméra.»

«Forse mi sbaglio» disse lui, «ma non mi sembri così intima di nessuno. Quando cammini, cammini da sola, anche fra quelli della tua stessa razza.»

Arya rimase impassibile. La sua mancanza di espressione era così assoluta che Eragon si chiese se si sarebbe degnata di rispondergli, un dubbio che si era appena trasformato in convinzione quando lei mormorò: «Non è sempre stato così.»

Vigile, Eragon aspettò senza muovere un muscolo, per paura di fare qualcosa che le cancellasse la voglia di aggiungere altro.

«Un tempo avevo qualcuno con cui parlare, una persona che capiva chi ero e da dove venivo. Un tempo... Lui era più grande di me, ma eravamo spiriti affini, entrambi curiosi del mondo al di fuori della nostra foresta, desiderosi di esplorare e di combattere contro Galbatorix. Nessuno dei due voleva più restare nella Du Weldenvarden... a studiare, a fare magie, a inseguire i propri progetti personali... quando sapevamo che l'Assassino dei Draghi, il reietto dei Cavalieri, stava cercando un modo per distruggere la nostra razza. Lui arrivò a questa conclusione dopo di me... decenni dopo che avevo assunto la carica di ambasciatrice e un paio d'anni prima che Hefring rubasse l'uovo di Saphira... ma nel momento in cui capì, si offrì di accompagnarmi ovunque gli ordini di Islanzadi imponessero.» Batté le palpebre ed esitò per un istante. «Io non volevo, ma alla regina l'idea piacque, e lui era così convincente...» Arricciò le labbra e batté di nuovo le palpebre, gli occhi più brillanti del solito.

Il più dolcemente possibile, Eragon chiese: «Era Fäolin?»

«Sì» rispose lei, con un filo di voce.

«Lo amavi?»

Gettando la testa all'indietro, Arya contemplò le stelle, il lungo collo indorato dal bagliore del fuoco e il volto inargentato dal chiaro di luna. «Me lo chiedi per amicizia o per scopi personali?» All'improvviso scoppiò in una brusca, fredda risata, un suono simile allo scorrere dell'acqua sulla nuda roccia. «Scusa. L'aria fredda della notte deve avermi frastornata. Mi ha fatto dimenticare le buone maniere e indotto a dire parole troppo aspre.»

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