Volodyk - Paolini3-Brisingr

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«Siete feriti?»

Il nano sulla destra, un soldato corpulento con la barba biforcuta, tossì e sputò un grumo di sangue rappreso, poi grugnì: «Niente che il tempo non possa curare. E tu, Ammazzaspettri?»

«Sopravviverò.»

Tastando il terreno a ogni passo, Eragon si avventurò nell'area annerita e si inginocchiò accanto a Kvîstor, sperando di poter salvare il nano dalla stretta della morte, ma dopo aver contemplato di nuovo le sue ferite capì che era impossibile.

Chinò il capo, amareggiato dal ricordo del recente spargimento di sangue. Si rialzò. «Perché la lanterna è esplosa?»

«Sono piene di calore e di luce, Argetlam, e se si rompono tutto fuoriesce all'istante. Quando succede è meglio non farsi trovare nei paraggi» rispose una delle guardie.

Indicando i cadaveri degli assalitori, Eragon chiese: «Sapete a quale clan appartengono?»

Il nano con la barba biforcuta rovistò tra i vestiti e poi esclamò: «Barzûl! Non portano insegne riconoscibili, Argetlam, ma indossano questo.» Mostrò un braccialetto di crini di cavallo intrecciato e luccicanti gemme lisce di ametista.

«Che cosa significa?»

«Questa particolare varietà di ametista» spiegò il nano, picchiettando su una delle gemme con un'unghia sporca di fuliggine «si trova solo in quattro punti dei Monti Beor, tre dei quali appartengono all'Az Sweldn rak Anhûin.»

Eragon si accigliò. «È stato Grimstborith Vermûnd a ordinare questo attacco?»

«Non posso dirlo con certezza, Argetlam. Forse questi braccialetti sono stati lasciati da un altro clan per far ricadere la colpa dell'aggressione su Vermûnd. Ma... se dovessi, scommetterei un carico d'oro che i responsabili sono gli Az Sweldn rak Anhûin.»

«Che siano maledetti, chiunque siano» mormorò Eragon. Per far cessare il tremore alle mani strinse i pugni. Con lo stivale scostò uno dei pugnali multicolori degli assassini. «Gli incantesimi che proteggevano queste armi e quegli... quegli uomini...» - li indicò con un cenno del capo - «... sì, insomma, uomini, nani, qualunque cosa siano, devono aver richiesto un'enorme quantità di energia, e non riesco nemmeno a immaginare quanto debba essere complessa la formula magica. Pronunciarla dev'essere stato difficile e pericoloso...» Eragon fissò le guardie a una a una e poi disse: «Non lascerò che questo attacco e la morte di Kvîstor rimangano impuniti, lo giuro davanti a voi. Quando scoprirò quale - o quali - clan hanno assoldato questi assassini dalla faccia di sterco, quando avrò appreso i loro nomi, i colpevoli rimpiangeranno di aver solo pensato di colpire me e di conseguenza il Dûrgrimst Ingeitum. Ve lo giuro come Cavaliere dei Draghi e membro effettivo del clan, e se qualcuno ve lo chiede, ripeterò il mio giuramento davanti a chiunque.»

I nani si inchinarono e quello con la barba forcuta ribatté: «Ai tuoi ordini, Argetlam. Onori la memoria di Rothgar con le tue parole.»

Poi un altro aggiunse: «Qualunque clan sia stato, ha violato le leggi dell'ospitalità; ha attaccato un ospite. Definirli sorci sarebbe un complimento; sono menknurlan.» Poi sputò per terra, e gli altri lo imitarono.

Eragon camminò fino ai resti del suo falcione. Si inginocchiò nella fuliggine e con la punta di un dito toccò uno dei pezzi di metallo, seguendone il profilo sbeccato. Devo aver colpito lo scudo e la parete con tanta forza da vanificare perfino l'incantesimo che avevo utilizzato per rafforzare l'acciaio, pensò.

E poi: Mi serve una spada.

Mi serve la spada di un Cavaliere.

♦ ♦ ♦

UNA QUESTIONE DI PROSPETTIVA

Il caldo vento del mattino che soffiava sulla pianura, del tutto diverso da quello che soffiava sulle colline, cambiò.

Saphira aggiustò l'angolazione delle ali per compensare il cambio di velocità e di pressione dell'aria che sosteneva il suo peso, migliaia di piedi sopra la terra bagnata dal sole. Chiuse le doppie palpebre per un momento, crogiolandosi nel soffice letto del vento e nel calore dei raggi mattutini che cadevano sul suo lungo corpo sinuoso. Immaginò come la luce facesse scintillare le sue squame, e la meraviglia di quanti la vedevano volare in circolo nel cielo, e canticchiò di piacere, felice, perché sapeva di essere la creatura più bella di tutta Alagaësia. Chi poteva sperare di eguagliare la magnificenza delle sue squame, della sua lunga coda affusolata, delle sue ali, così eleganti e ben fatte, degli artigli ricurvi e delle lunghe zanne bianche con cui poteva spezzare il collo di un bue selvatico in un solo morso? Certo non Glaedr dalle squame d'oro, che aveva perso una zampa in occasione della caduta dei Cavalieri. E nemmeno Castigo o Shruikan, perché erano entrambi schiavi di Galbatorix e la servitù forzata ne aveva distorto la mente. Un drago che non è libero di fare ciò che vuole non è più un drago. E poi erano maschi e per quanto un maschio potesse essere maestoso, non sarebbe mai riuscito a incarnare lo stesso ideale di bellezza. No, era la creatura più meravigliosa di tutta Alagaësia, e così doveva essere.

Saphira si scrollò per l'eccitazione dalla base del collo fino alla punta della coda. Era un giorno perfetto. Il calore del sole la faceva sentire avvolta in un nido di braci. Aveva la pancia piena, il cielo era terso e non doveva occuparsi di null'altro se non di stare in guardia da eventuali nemici desiderosi di combattere, ma lo faceva comunque, per abitudine.

Tanta felicità aveva solo un difetto, ma era un difetto vistoso, e più ci rifletteva più la sua insoddisfazione cresceva; avrebbe voluto che Eragon fosse lì a condividere quella giornata con lei. Grugnì e lanciò a fauci strette una breve fiammata azzurra, riscaldando l'aria davanti a sé, poi serrò la gola, tranciando di netto la corrente di fuoco liquido. Le pizzicava la lingua per via delle fiamme. Quando Eragon, il suo compagno di mente e di cuore, si sarebbe messo in contatto con Nasuada da Tronjheim? Quando le avrebbe chiesto di raggiungerlo? Lei aveva insistito perché obbedisse alla regina e andasse tra quelle montagne, così alte che nemmeno lei riusciva a raggiungerne la vetta, ma era trascorso troppo tempo e ora provava un senso di freddo e vuoto allo stomaco.

È calata un'ombra sul mondo, pensò. Ecco cosa mi ha turbato. Eragon ha un problema. È in pericolo, oppure lo è stato poco fa. E io non posso aiutarlo. Non era un drago selvatico. Da quando il suo uovo si era dischiuso, aveva condiviso la sua vita con Eragon e senza di lui era come se le mancasse metà di se stessa. Se fosse morto perché lei non era lì a proteggerlo, non avrebbe avuto altra ragione di vita se non la vendetta. Sapeva che avrebbe fatto a pezzi i suoi assassini e poi avrebbe sorvolato la nera città del traditore rompiuova che l'aveva tenuta imprigionata per tanti decenni, e avrebbe fatto del suo meglio per ucciderlo, anche se ciò avesse comportato per lei la morte certa.

Saphira grugnì di nuovo e tentò di azzannare un passerotto tanto folle da volare troppo vicino a lei. Lo mancò, e il pennuto schizzò via e continuò per la sua strada indisturbato, inasprendo l'umore già pessimo della dragonessa. Per un momento considerò l'idea di inseguirlo, poi decise che non valeva la pena di affannarsi tanto per quell'insignificante mucchietto di ossa e piume. Non era un granché nemmeno come spuntino.

Seguendo la direzione del vento e piegando la coda dalla parte opposta per facilitare la virata, fece un giro su se stessa ed esaminò il terreno sottostante e le piccole creature che correvano a nascondersi alla sua vista aguzza da cacciatrice. Perfino da quell'altezza - migliaia di piedi - riuscì a contare quante penne aveva sul dorso un piccolo di falco che volava rasente ai campi di grano a ovest del fiume Jiet. Vide l'ammasso sfuocato di pelo marrone di un coniglio che correva a mettersi in salvo nella tana. Distinse il piccolo branco di cervi accucciati sotto i rami dei cespugli di ribes lungo un emissario del fiume Jiet. E udì i versi acuti degli animali spaventati che allertavano i propri simili della sua presenza. Quelle grida incerte la gratificavano; era giusto che il suo cibo avesse paura di lei. Se mai fosse stato il contrario, avrebbe capito che era giunta l'ora di morire.

Una lega più in là, risalendo la corrente, i Varden erano ammassati a ridosso del fiume come un branco di cervi rossi sul ciglio di una scogliera. Erano arrivati al guado il giorno prima e da allora forse un terzo degli uomini e degli Urgali - che erano amici - e dei cavalli - che non poteva mangiare - l'aveva già attraversato. L'esercito si muoveva così a rilento che a volte Saphira si chiedeva se gli umani trovassero il tempo di fare altre cose oltre a viaggiare, considerata la brevità delle loro vite. Sarebbe più comodo se potessero volare, pensò, e si chiese perché non lo facessero. Volare era un gioco da ragazzi; che le altre creature preferissero restare con i piedi e le zampe piantati per terra non cessava mai di meravigliarla. Perfino Eragon rivendicava il proprio attaccamento al suolo, soffice o duro che fosse, anche se sapeva che avrebbe potuto raggiungerla in cielo in qualunque momento solo pronunciando qualche parola nell'antica lingua. E poi non sempre comprendeva le azioni dei bipedi, che avessero le orecchie rotonde o a punta, le corna, o che fossero così bassi che avrebbe potuto schiacciarli con una zampa.

Un fugace movimento a nord-est catturò la sua attenzione, così virò, incuriosita. Vide una fila di quarantacinque cavalli esausti avanzare a fatica verso i Varden. La maggior parte era senza cavaliere, dunque passò un'altra mezz'ora prima che le venisse in mente che si poteva trattare del gruppo di Roran di ritorno dall'incursione, e a quel punto ormai i volti dei cavalieri erano ben visibili. Si domandò che cosa fosse successo per ridurre in quel modo il numero dei soldati e provò una momentanea fitta di inquietudine. Non era legata a Roran, ma Eragon gli voleva bene e tanto bastava perché anche lei se ne preoccupasse.

Espandendo la propria coscienza verso il gruppo scompaginato di Varden, cercò la musica della mente di Arya, e non appena l'elfa si accorse della sua presenza e le concesse di accedere ai suoi pensieri, le disse: Roran arriverà nel tardo pomeriggio. La sua compagnia è stata decimata, però. Durante il viaggio dev'essersi abbattuta su di loro qualche grave calamità.

Grazie, Saphira. Informerò Nasuada.

Non appena si fu allontanata dalla mente di Arya, sentì il tocco indagatore di Blödhgarm, l'elfo con la pelliccia da lupo. Non sono appena uscita dall'uovo, lo rimbrottò. Non devi controllarmi ogni due minuti.

Ti porgo le mie più umili scuse, Bjartskular, ma ormai mancavi da parecchio tempo e qualcuno potrebbe cominciare a chiedersi perché tu e...

Sì, lo so, grugnì lei. Riducendo l'apertura alare, si inclinò verso il basso e prese a scendere piano a spirale verso il fiume ingrossato. Sarò lì tra poco.

Inarcò le ali, che si fecero più tese a mano a mano che il vento premeva con immensa forza contro le membrane. Rallentò fin quasi a fermarsi, poi accelerò di nuovo, galleggiando un centinaio di piedi sopra l'acqua marrone. Battendo le ali di tanto in tanto per restare in quota, risalì il fiume, attenta a eventuali sbalzi di pressione dell'aria fresca che avrebbero potuto sospingerla in una direzione inaspettata o, peggio ancora, contro gli alberi aguzzi o il duro suolo.

Sorvolò i Varden radunati accanto al fiume, abbastanza in alto perché il suo arrivo non spaventasse i loro stupidi cavalli. Poi, planando, atterrò in uno spiazzo vuoto tra le tende che Nasuada aveva ordinato di ricavare apposta per lei e attraversò l'accampamento fino alla tenda di Eragon, dove Blödhgarm e gli altri undici elfi al suo comando la stavano aspettando. Li salutò strizzando l'occhio e schioccando la lingua, poi si accoccolò davanti alla tenda, rassegnata ad appisolarsi in attesa che facesse buio, proprio come avrebbe fatto se lei ed Eragon fossero dovuti partire per una delle solite missioni notturne. Stare lì distesa giorno dopo giorno era noioso, ma anche indispensabile per far credere a tutti che Eragon era ancora tra i Varden; dunque non si lamentava, anche se dopo dodici o più ore passate sulla dura terra a inzaccherarsi le squame si sentiva come se avesse combattuto contro un migliaio di soldati, distrutto una foresta a colpi di zanne, artigli e fiamme, volato fino alla nausea o raggiunto i confini di terra, acqua e aria.

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