Volodyk - Paolini3-Brisingr

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Mentre rifletteva sul da farsi, Eragon vagò senza meta per il dedalo di stanze sotto Tronjheim finché non si ritrovò in una sala polverosa, con cinque archi neri su un lato e il bassorilievo di un orso inferocito alto venti piedi sull'altro. La bestia aveva le zanne d'oro e due rubini rotondi e sfaccettati al posto degli occhi.

«Dove siamo, Kvîstor?» domandò. La sua voce riecheggiò cupa nella stanza. Avvertiva i pensieri di molti nani ai livelli superiori, ma non aveva idea di come raggiungerli.

Il capo delle guardie, un giovane di non più di una sessantina d'anni, fece un passo avanti. «Queste stanze furono scavate millenni fa dal Grimstnzborith Korgan quando Tronjheim era ancora in costruzione. Da allora non le abbiamo usate spesso, tranne quando tutto il nostro popolo si riunisce all'interno del Farthen Dûr.»

Eragon annuì. «Potete riportarmi di sopra?»

«Ma certo, Argetlam.»

Dopo parecchi minuti di cammino a passo sostenuto, si ritrovarono davanti a un'ampia scalinata con i gradini bassi, a misura di nano, che sbucava dal terreno e portava a un passaggio nel quadrante sud-ovest della base di Tronjheim. Da lì Kvîstor guidò Eragon fino a uno dei quattro corridoi - quello meridionale, come gli altri lungo un miglio - che dividevano Tronjheim in corrispondenza dei punti cardinali.

Era lo stesso punto da cui lui e Saphira erano entrati la prima volta parecchi mesi prima, e fu con uno strano senso di nostalgia che lo percorse, diretto al centro della città-montagna. Era come se nel frattempo fosse invecchiato di molti anni.

Il corridoio alto quattro piani brulicava di nani di ogni clan. Eragon era sicuro che si fossero accorti di lui, ma non tutti lo degnarono di attenzione, e meno male: almeno si sarebbe risparmiato lo sforzo di ricambiare altri saluti.

Quando vide una fila di membri dell'Az Sweldn rak Anhûin attraversare il corridoio, si irrigidì. Loro volsero le teste tutti insieme per guardarlo, rabbuiati dietro i veli viola che indossavano sempre in pubblico. L'ultimo nano della fila sputò per terra verso Eragon, poi si infilò sotto un arco e raggiunse i suoi fratelli. Impossibile dire se fosse uomo o donna.

Se Saphira fosse qui, non oserebbero essere così sgarbati, pensò.

Dopo mezz'ora arrivò in fondo al maestoso corridoio. Era già stato lì molte altre volte, ma non appena ebbe superato l'arco fiancheggiato da colonne di onice nera alte quanto tre uomini e sormontate da zirconi gialli e fu entrato nella camera circolare nel cuore di Tronjheim, venne sopraffatto da un senso di timore e meraviglia.

Il diametro della stanza era di circa mille piedi e sul pavimento di lucida corniola era inciso un martello circondato da dodici stelle d'argento, lo stemma del Dûrgrimst Ingeitum e del primo re dei nani, Korgan, che aveva scoperto il Farthen Dûr scavando in cerca di oro. Di fronte a lui, alla sua destra e alla sua sinistra, partivano altri tre corridoi che conducevano ad altrettante sale. Priva di soffitto, la camera saliva fino al picco di Tronjheim, un miglio più in alto, e da lì si apriva nella rocca dei draghi, in cui avevano soggiornato lui e Saphira prima che Arya rompesse lo Zaffiro Stellato, e, più oltre, nel disco blu scuro del cielo, che sembrava distante al di là di ogni umana immaginazione, racchiuso dal cratere del Farthen Dûr, la montagna cava alta dieci miglia che celava Tronjheim al resto del mondo.

Solo una scarsa quantità di luce solare giungeva fino alla base di Tronjheim. La Città dell'Eterno Crepuscolo, la chiamavano gli elfi. Fatta eccezione per un'abbagliante trentina di minuti prima e dopo mezzogiorno in piena estate, era così buio che i nani ne illuminavano gli interni con un numero infinito di lanterne senza fiamma. Ce n'erano a migliaia. Ne splendeva una sul lato esterno di ogni colonna a sostegno degli archi lungo ciascun livello della città-montagna, e ne erano state montate molte altre davanti all'ingresso di stanze misteriose e sconosciute e davanti a Vol Turin, la Scala Infinita, che saliva a spirale fino alla sommità. L'effetto era suggestivo e spettacolare. Le lanterne brillavano di mille colori, e sembrava che l'interno della camera fosse punteggiato di gemme luccicanti.

Tanta meraviglia tuttavia impallidiva di fronte allo splendore di un vero gioiello, il più grande di tutti: Isidar Mithrim. Sul pavimento della camera i nani avevano costruito un'impalcatura di legno del diametro di sessanta piedi, e all'interno della gabbia di quercia fatta su misura stavano ricomponendo con la massima cura e delicatezza, pezzo per pezzo, lo Zaffiro Stellato. I frammenti erano conservati in scatole prive di coperchio riempite di lana grezza, ognuna con un'etichetta che recava scritta una fila di rune filiformi. Le scatole erano disposte lungo una vasta porzione del lato occidentale dell'ampia sala. Almeno trecento nani erano chini sopra di esse e si davano un gran daffare per riunire i frammenti e dare loro un ordine. Vicino all'impalcatura, un altro gruppo si prendeva cura della gemma scheggiata e costruiva strutture lignee.

Eragon li osservò lavorare per qualche minuto, poi si avviò verso la sezione di pavimento che Durza aveva scalfito quando lui e i suoi guerrieri Urgali erano entrati a Tronjheim dai tunnel sotterranei. Con la punta dello stivale batté sulla pietra lucida. Non c'era più alcuna traccia del danno. I nani avevano fatto un lavoro splendido ed erano riusciti a cancellare le cicatrici lasciate dalla battaglia del Farthen Dûr, ma Eragon sperava che avrebbero commemorato l'evento con un cippo o una lapide, perché credeva importante che le generazioni future non dimenticassero il sanguinoso prezzo pagato dai nani e dai Varden nella lotta contro Galbatorix.

Mentre camminava verso l'impalcatura, fece un cenno del capo a un nano smilzo dalle dita agili in piedi sopra una piattaforma affacciata sullo Zaffiro Stellato. Lo conosceva: era Skeg. Apparteneva al Dûrgrimst Gedthrall, ed era a lui che re Rothgar aveva affidato il restauro del tesoro più prezioso del suo popolo.

Skeg gli fece segno di raggiungerlo. Mentre si arrampicava sulle assi grezze, Eragon si ritrovò di fronte una scintillante gamma di spire oblique e appuntite quanto aghi, di bordi luccicanti e sottili come carta e di superfici increspate. La parte superiore dello Zaffiro Stellato gli ricordava la patina ghiacciata del fiume Anora nella Valle Palancar alla fine dell'inverno, quando si era già sciolta e riformata diverse volte ed era pericoloso calpestarla a causa dei dossi e dei crepacci provocati dagli sbalzi di temperatura. L'unica differenza era che i resti dello zaffiro non erano bianchi, azzurri o trasparenti, ma di un delicato rosa screziato di arancio scuro.

«Come va?» chiese Eragon.

Skeg si strinse nelle spalle e sventolò in aria le mani come se fossero due farfalle. «Va come deve andare, Argetlam. Per ottenere la perfezione ci vuole tempo.»

«A me sembra che stiate facendo grossi progressi, e in fretta, anche.»

Con l'indice ossuto, Skeg si tamburellò il naso largo e piatto. «La parte superiore di Isidar Mithrim, che adesso vedi al contrario, si è rotta in pezzi grossi, dunque è facile rimetterli insieme. Ma il fondo...» Skeg scosse il capo; il suo viso rugoso era addolorato. «La forza dell'impatto, i pezzi che spingevano contro la faccia della gemma, che schizzavano via da Arya e dalla dragonessa Saphira, che cadevano su di te e su quello Spettro dal cuore nero... i petali si sono frantumati in schegge ancora più piccole. E proprio la rosa, Argetlam, è il fulcro della gemma. È la parte più complessa e più bella di Isidar Mithrim. Ed è ridotta in mille pezzi. Se non riusciamo a rimettere ogni minuscolo frammento al suo posto, tanto vale dare tutte le briciole a qualche gioielliere perché siano montati sugli anelli delle nostre madri.» Le parole gli sgorgavano di bocca come acqua da un boccale troppo colmo. Gridò qualcosa nella sua lingua a un nano che stava trasportando una scatola, poi si tirò la barba bianca e chiese a Eragon: «Ti hanno mai raccontato come fu tagliato Isidar Mithrim nell'Età di Herran?»

Eragon esitò e ripensò alle lezioni di storia di quando era a Ellesméra. «So che è stato Dûrok.»

«Sì, proprio Dûrok Ornthrond, Occhio di Lince, come direste nella vostra lingua. Non fu lui a scoprire lo zaffiro, però; lui si limitò a estrarlo dalla roccia, tagliarlo e lucidarlo. Trascorse cinquantasette anni a lavorare sulla Rosa Stellata. La gemma lo ammaliava più di qualsiasi altra cosa. Ogni notte si chinava su Isidar Mithrim e lavorava fino al mattino, poiché era deciso a creare non solo un'opera d'arte ma qualcosa che avrebbe toccato il cuore di chiunque l'avesse ammirata e che gli avrebbe garantito un posto d'onore al tavolo degli dei. Tale era la sua devozione che, dopo trentadue anni, quando sua moglie gli disse che l'avrebbe lasciato se non avesse condiviso l'impegno con i suoi apprendisti, Dûrok non disse una parola, le voltò le spalle e continuò a modellare i contorni di un petalo che aveva cominciato all'inizio dell'anno.

«Dûrok tagliò Isidar Mithrim finché non fu soddisfatto di ogni linea e curva. Alla fine posò il panno con cui l'aveva lucidato, fece un passo indietro e disse: "Che Gûntera mi protegga, ho finito." E cadde a terra, senza vita.» Skeg si colpì il petto con un tonfo cupo. «Il suo cuore cedette. E comunque non avrebbe avuto motivo di vivere. Ecco che cosa stiamo cercando di ricostruire, Argetlam: cinquantasette anni di ininterrotta dedizione di uno dei più abili artisti che il nostro popolo abbia mai generato. Se non riusciamo a ricomporre Isidar Mithrim esattamente com'era, l'impresa di Dûrok risulterà sminuita agli occhi di chi ancora non ha ammirato la Rosa Stellata.» Si colpì la coscia con un pugno per dare più enfasi al concetto.

Eragon si appoggiò alla balaustra davanti a sé, che gli arrivava ai fianchi, e osservò cinque nani dalla parte opposta della gemma calare a pochi piedi dai bordi affilati dello zaffiro un sesto nano legato a un'imbracatura di corda, che rovistò nella tunica, estrasse una scheggia di Isidar Mithrim da una bustina di pelle e, prendendola con minuscole pinze, la depositò in una piccola fessura sotto di sé.

«Se l'incoronazione si tenesse fra tre giorni, Isidar Mithrim sarebbe pronto?» chiese Eragon.

Skeg tamburellò con le dieci dita sulla balaustra una melodia che Eragon non riuscì a riconoscere. Poi rispose: «Se non fosse stato per l'offerta della tua dragonessa, non saremmo mai andati così spediti. Questa fretta ci è estranea, Argetlam. A differenza di voi umani, non è nella nostra natura correre a destra e a manca come formiche agitate. Tuttavia faremo del nostro meglio perché sia pronto in tempo per l'incoronazione. Fra tre giorni, hai detto? Be', se così fosse non mi farei troppe illusioni. Ma se si riuscisse a posticiparla alla fine della settimana, credo che potremmo farcela.»

Eragon lo ringraziò per la sua previsione, poi si congedò. Seguito dalle guardie, andò verso uno dei tanti refettori della città-montagna, una stanza lunga e bassa con tavoli di pietra su un lato, e sull'altro forni di steatite presi d'assalto da nani affaccendati.

Eragon consumò un lauto pasto a base di pane, pesce dei laghi sotterranei, funghi e una specie di purea di tubero che aveva già assaggiato a Tronjheim ma di cui ignorava la provenienza. Prima di cominciare a mangiare, però, servendosi degli incantesimi che gli aveva insegnato Oromis, controllò che il cibo non fosse avvelenato.

Mentre inghiottiva l'ultima crosta di pane accompagnandola con un sorso di birra leggera e allungata con acqua, entrò Orik con un contingente di dieci guerrieri, che si disposero in modo da sorvegliare entrambi gli ingressi. Orik invece si sedette con un sospiro esausto sulla panca di pietra di fronte a Eragon. Puntò i gomiti sul tavolo e si strofinò il viso con le mani.

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