Volodyk - Paolini3-Brisingr
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Roran si accucciò, conficcò i talloni nel terreno soffice finché non ebbe trovato una posizione comoda e attese l'attacco del corpulento soldato che gli stava di fronte, a diversi piedi di distanza. Con un ruggito, questi balzò fuori dalle gelide acque basse e fece roteare la spada contro di lui, ma Roran parò l'affondo con lo scudo e rispose con un colpo di martello, che a sua volta il soldato bloccò con il proprio scudo, cercando poi di ferirlo alle gambe. Per diversi secondi continuarono a menare fendenti, senza che nessuno dei due riuscisse a colpire l'avversario. Alla fine Roran gli dilaniò l'avambraccio sinistro, facendolo arretrare di alcuni passi. Il soldato si limitò a sorridere e poi scoppiò in una risata raggelante, priva di gioia.
Roran si chiese se lui o qualcuno dei suoi compagni sarebbe sopravvissuto alla notte. È più difficile uccidere uno di loro che un serpente. Non possiamo farli a brandelli, e continuano ad attaccarci anche se colpiamo i loro organi vitali. Il pensiero successivo svanì non appena il soldato gli si avventò di nuovo contro, la spada scalfita che tremolava nella pallida luce come una lingua di fuoco.
Da lì in poi la battaglia si trasformò in un incubo. La strana luce maligna dava all'acqua e ai soldati un aspetto soprannaturale, esangue, e proiettava sulla superficie del fiume lunghe ombre sottili e affilate come rasoi, mentre dietro e tutto intorno regnava la notte più buia. Roran continuava a respingere i soldati che uscivano barcollando dall'acqua per ucciderlo, li colpiva con il martello finché non avevano più le sembianze di esseri umani; tuttavia non morivano. A ogni colpo, grosse chiazze tonde di sangue nero punteggiavano le acque del fiume come macchie d'inchiostro versato, poi la corrente le trasportava via. La spaventosa monotonia di ogni attacco lasciava Roran intontito e terrorizzato. Per quanto si affannasse, c'era sempre un altro nemico mutilato pronto a falciarlo e pugnalarlo. E continuavano a risuonare le risatine folli di quegli uomini che sapevano di essere morti e tuttavia mantenevano una parvenza di vita anche se i Varden martoriavano loro il corpo.
E poi, il silenzio.
Roran rimase accucciato dietro lo scudo, con il martello a mezz'aria, ansante, madido di sudore e inzuppato di sangue. Trascorse un minuto prima che si accorgesse che nell'acqua non c'era più nessuno. Guardò a destra e a sinistra tre volte, incredulo all'idea che alla fine i soldati fossero davvero morti, e pace all'anima loro. Un cadavere galleggiava accanto a lui nell'acqua scintillante.
Quando una mano gli afferrò il braccio, emise un grido inarticolato. Si voltò di scatto, ringhiando e ritraendosi, ma poi si accorse che era Carn. Pallido e insanguinato, lo stregone gli stava parlando. «Abbiamo vinto, Roran! Eh? Sono tutti morti! Li abbiamo sconfitti!»
Roran lasciò cadere il braccio e gettò la testa all'indietro, troppo stanco perfino per sedersi. Si sentiva... era come se avesse i cinque sensi più affinati del consueto, e tuttavia le emozioni erano spente e mute, ammassate da qualche parte dentro di lui, nel profondo. Era felice che fosse così, altrimenti sarebbe impazzito, pensò.
«Radunatevi e ispezionate i carri!» gridò Martland. «Prima vi sbrigate, prima potremo andarcene da questo luogo maledetto! Carn, occupati di Weimar. Quel taglio non mi piace per niente.»
Con un enorme sforzo di volontà, Roran si voltò e si trascinò lungo l'argine del fiume fino al carro più vicino. Battendo le palpebre per allontanare il sudore che gli colava dalla fronte, vide che del contingente iniziale solo nove uomini erano ancora in grado di reggersi sulle loro gambe. Allontanò quel pensiero dalla mente. Non è il momento di piangere.
Mentre Martland Barbarossa attraversava l'accampamento disseminato di cadaveri, un soldato che sembrava morto si volse e gli mozzò la mano destra. Con un movimento così armonioso che pareva l'avesse provato e riprovato all'infinito, Martland gli allontanò la spada con un calcio, poi si inginocchiò, sfilò un pugnale dalla cintura e glielo conficcò in un orecchio, uccidendolo. Il viso paonazzo, Martland si ficcò il moncherino sotto l'ascella sinistra e allontanò chiunque gli corresse incontro. «Lasciatemi stare! È una ferita da nulla. Salite su quei carri, scansafatiche che non siete altro! Se non vi muovete, rimarremo qui così a lungo che la barba mi diventerà bianca come la neve. Forza!» Vedendo che Carn si rifiutava di eseguire l'ordine, Martland si accigliò e gridò: «Vattene di qui o ti farò frustare per insubordinazione, hai la mia parola.»
Carn raccolse la mano mozzata, che si muoveva ancora. «Forse riesco a riattaccarla, ma mi serve qualche minuto.»
«Ah, al diavolo! Dammela!» esclamò il duca, e gliela portò via, poi la nascose sotto la tunica. «Finiscila di agitarti tanto per me e vedi piuttosto di salvare Weimar e Lindel. Potrai tentare di riattaccarla quando saremo lontani da questi mostri.»
«Potrebbe essere troppo tardi» commentò Carn.
«Il mio era un ordine, stregone, non una richiesta!» tuonò Martland. Mentre Carn indietreggiava, strinse con i denti la manica della tunica attorno al braccio mutilato, che poi infilò di nuovo sotto l'ascella sinistra. Aveva il viso imperlato di sudore. «Bene! Che razza di malefici oggetti sono nascosti in quegli stramaledetti carri?»
«Corda!» gridò qualcuno.
«Whisky!» gridò un altro.
Martland grugnì. «Ulhart, prendi nota al posto mio.»
Roran aiutò gli altri a rovistare tra le merci, urlando a Ulhart che cosa trovava. Macellarono i buoi e diedero fuoco ai carri, come l'altra volta. Infine radunarono i cavalli e montarono in groppa, legando i feriti alle selle.
Quando furono pronti per partire, Carn fece dei gesti verso il bagliore nel cielo e mormorò una lunga, intricata parola. La notte avvolse il mondo intero. Roran alzò la testa e scorse una pulsante immagine di Carn impressa sulle stelle fioche, poi, quando si fu abituato all'oscurità, vide le delicate sagome grigie di migliaia di falene disorientate disperse nel cielo, come le ombre delle anime degli uomini.
Col cuore gonfio di dolore, spronò Fiammabianca e si allontanò dai resti del convoglio.
♦ ♦ ♦
SANGUE SULLE ROCCE
Frustrato, Eragon si precipitò fuori dalla camera circolare sepolta sotto il centro di Tronjheim e sbatté la porta di quercia con un sonoro boato.
Si fermò con le mani sui fianchi in mezzo al corridoio a volta e fissò il pavimento di piastrelle rettangolari di agata e giada. Da quando lui e Orik erano arrivati in città, tre giorni prima, i tredici capiclan non avevano fatto altro che discutere di argomenti a suo parere futili: quale clan aveva il diritto di far pascolare le proprie greggi in un determinato appezzamento di terreno divenuto oggetto di contesa, per esempio. Mentre li ascoltava dibattere su punti oscuri del loro codice legislativo, spesso Eragon aveva voglia di gridare che si stavano comportando da stupidi ciechi, e se non avessero accantonato subito quelle frivole preoccupazioni e scelto un nuovo sovrano senza altri indugi, avrebbero condannato l'intera Alagaësia a sottostare al comando di Galbatorix.
Ancora perso nei suoi pensieri, si incamminò lungo il corridoio, degnando di ben poca attenzione le quattro guardie che lo seguivano ovunque andasse e i nani che incontrava e che lo salutavano utilizzando molteplici varianti dell'appellativo "Argetlam". La peggiore di tutti i capiclan è forûnn, decise. Era la grimstborith del Dûrgrimst Vrenshrrgn, un potente clan bellicoso, e aveva chiarito fin dall'inizio della consulta che aspirava a ottenere il trono per sé. Solo un altro clan, l'Urzhad, si era schierato apertamente a suo favore, ma la nana era intelligente, astuta e capace di volgere quasi ogni situazione a proprio vantaggio, come aveva dimostrato in ben più di un occasione durante i precedenti incontri. Potrebbe rivelarsi un'ottima regina, riconobbe Eragon, ma è così enigmatica che è impossibile sapere se una volta eletta sosterrà i Varden. Si concesse un sorriso malizioso. Era sempre a disagio quando parlava con lei. I nani la consideravano una bellezza mozzafiato e in effetti era davvero notevole anche secondo i canoni umani. Inoltre sembrava nutrire una sorta di infatuazione per Eragon, che però lui non riusciva a interpretare. In ogni loro conversazione, Íorûnn insisteva nel fare allusioni alla storia e alla mitologia dei nani che il Cavaliere non comprendeva ma che, a quanto pareva, divertivano oltremodo Orik e i suoi compagni.
Oltre a Íorûnn, si erano fatti avanti altri due aspiranti al trono: Gannel, il capo del Dûrgrimst Quan, e Nado, il capo del Dûrgrimst Knurlcarathn. In qualità di custodi della religione dei nani, i membri del Quan godevano di un'enorme influenza, ma fino a quel momento avevano ottenuto solo il sostegno del Dûrgrimst Ragni Hefthyn e del Dûrgrimst Ebardac, quest'ultimo devoto alla ricerca scientifica. Di contro, Nado aveva creato una coalizione più forte, che comprendeva i Feldûnost, i Fanghur e gli Az Sweldn rak Anhûin.
Se Íorûnn sembrava interessata al trono solo per soddisfare la propria sete di potere e Gannel non pareva di per sé ostile ai Varden, benché non si mostrasse mai nemmeno troppo cordiale, Nado, invece, si opponeva apertamente e con veemenza a qualsiasi tipo di impegno con Eragon, Nasuada, l'Impero, Galbatorix, la regina Islanzadi e, almeno così sembrava, ogni altro essere vivente fuori dai Monti Beor. I membri del Knurlcarathn lavoravano la pietra e non avevano pari quanto a risorse minerarie e operai di cui avvalersi, perché tutti gli altri clan dipendevano dalla loro competenza per costruire tunnel e abitazioni, e perfino l'Ingeitum aveva bisogno di loro per estrarre il ferro che serviva ai fabbri. E se il tentativo di Nado non fosse andato a buon fine, Eragon sapeva che molti capi degli altri clan minori che ne condividevano la posizione avrebbero fatto a gara per prendere il suo posto. Gli Az Sweldn rak Anhûin, per esempio, che Galbatorix e i Rinnegati avevano quasi spazzato via durante la rivolta, si erano dichiarati nemici giurati di Eragon in occasione della sua visita alla città di Tarnag e anche adesso, durante la consulta, avevano dimostrato in ogni modo possibile il loro implacabile odio nei confronti suoi, di Saphira e di tutto ciò che aveva a che fare con draghi e Cavalieri. Anzi, si erano opposti perfino alla presenza di Eragon, anche se era ammesso dalla legge in vigore nel regno, e avevano costretto gli altri capiclan a esprimere il proprio parere in merito, ritardando così la riunione di sei inutili ore.
Un giorno o l'altro dovrò trovare il modo di riappacificarmi con loro, pensò Eragon, o mi vedrò costretto a portare a termine ciò che Galbatorix ha lasciato incompiuto. Mi rifiuto di vivere tutta la vita nella paura degli Az Sweldn rak Anhûin. Poi, come aveva già fatto negli ultimi giorni, attese la risposta di Saphira, e rendendosi conto che non poteva arrivare si sentì trafiggere il cuore da una ben nota fitta di infelicità.
Quanto solide fossero le alleanze tra i clan, tuttavia, era una questione incerta. Né Orik né Íorûnn né Gannel né Nado godevano di un sostegno sufficiente a garantirsi la vittoria ai voti, e dunque erano tutti indaffarati a cercare di conservare la fedeltà di quei clan che avevano già promesso loro di aiutarli e nel contempo di soffiare sostenitori agli avversari. Nonostante l'importanza del momento, Eragon trovava tutto noioso e deludente al di là dell'umana sopportazione.
Grazie alle spiegazioni di Orik, comprese che prima di eleggere il nuovo sovrano i capiclan dovevano stabilire tramite un voto se erano pronti a scegliere un nuovo re o una nuova regina. Per essere dichiarata valida, l'elezione preliminare doveva ottenere almeno nove voti a favore. Fino a quel momento nessun capoclan, Orik compreso, si era sentito tanto sicuro da andare al voto. Come aveva detto Orik, era la parte più delicata della procedura di successione, e in qualche caso si era protratta per un tempo lunghissimo.
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