Casas Pérez Carlos - Il Bargello
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Arlena fece segno di no con la testa. I suoi occhi castani erano fissi sul marito.
"Non era quello che volevo dire" replicò. "Dico solo che sbagli a pensare che don Yéquera andrà in guerra con il nuovo re. Quel vecchio è malato, presto perderà di nuovo la ragione e nominerà erede il suo cavallo"
sostenne portandosi un dito alla tempia. In quel momento i suoi figli entrarono in cucina. La piccola Juana era tra le braccia di Sancha.
Mancava solo Alfonso. "Ma non stavamo parlando di adempiere ai miei doveri coniugali?"
Jimeno aggrottò la fronte alla vista del sorriso birichino della moglie. I suoi occhi si spostarono da quel sorriso ai suoi figli, e poi di nuovo al sorriso.
Maledizione, donna, pensò il bargello. Decise che non era il caso di continuare a discutere.
"Meglio non forzare la situazione" mormorò, "magari una delle prossime notti, con delicatezza".
Arlena annuì e fece segno ai suoi figli di sedersi intorno al tavolo. Sancha, la figlia maggiore della coppia, aiutava sua madre ad apparecchiare per la colazione mentre il giovane Ramiro aiutava il padre con il fuoco.
"Come sta tuo fratello?" gli chiese Jimeno. "Ha trascorso bene la notte?"
"Lui non so" disse Ramiro stropicciandosi gli occhi, "ma io non sono riuscito a dormire, tanto si lamenta".
Le fiamme crepitavano nel braciere che proteggeva la famiglia dal freddo esterno. In casa del bargello il fuoco era sempre acceso; la spesa per il combustibile – legna, perché Jimeno la preferiva al carbone – non era un problema, grazie alle rendite che otteneva sia dalla coltivazione di alcuni dei suoi terreni, tra i più vasti in paese, sia per la sua carica di cavaliere e bargello. Ecco perché non si preoccupò del fatto che Ramiro avesse aggiunto troppa legna nel camino.
"Tuo fratello ieri è stato molto coraggioso" disse, "non dimenticarlo e fammi il favore di portargli qualcosa per colazione".
Il bargello e suo figlio si sedettero a tavola e mangiarono. Jimeno spalmò del burro su pane bianco appena sfornato e prese dal tavolo una delle
mele. Ramiro gli passò un coltello e gli chiese:
"Posso venire alla taverna, dopo?"
Il padre guardò il figlio. Il ragazzo voleva prendere parte all'assemblea dei villici. Il bargello aveva convocato tutti gli uomini del villaggio per decidere come fare fronte al problema dei briganti, che Jimeno era convinto non fosse ancora risolto. Il bargello perseverava nel suo tentativo di convincere chiunque fosse disposto ad ascoltarlo a farsi addestrare all'uso delle armi, benché non fosse ancora sicuro che si trattasse della decisione migliore.
Com'era ovvio, Ramiro voleva partecipare.
Decise di cambiare argomento.
"Non dimenticare di esercitarti con la spada quando me ne sarò andato.
Alfonso è a letto, e dovrai essere tu ad occuparti della famiglia".
Sei erano i figli che aveva avuto il bargello da sua moglie: Alfonso, Sancha, Ramiro, Teresa, Jimena e Juana, di appena un anno. Tutti vivevano sotto il suo tetto. La più grande era già in età da marito e i due maschi pronti a mettersi alla prova in combattimento, anche se non erano ancora stati in battaglia.
Alfonso sì.
Jimeno era consapevole dei pericoli della guerra, lui era veterano di molte guerre. I colpi di scure e di spada potevano strappare via a un uomo parte di quello che aveva ricevuto alla nascita, e le ferite da freccia non guarivano mai completamente. Ma inoltre sapeva che non c'erano molte possibilità di prosperare in un minuscolo villaggio come Lacorvilla, se non si rischiava la vita al servizio del re. E il suo posto era in battaglia, non in cerca di fuorilegge e bracconieri.
Il bargello pensò ai suoi due figli e si chiese se la guerra ne avrebbe fatto uomini di valore, storpi o cadaveri.
Finì di fare colazione e si alzò da tavola. Diede un bacio a sua moglie e uscì dalla cucina. Ramiro lo seguì. Jimeno cercava i suoi stivali buoni.
"Allora, posso venire con voi?" insisté suo figlio.
“No”, grugnì il bargello calzando gli stivali. "Ne parleremo più tardi, Ramiro".
Jimeno preferiva calzature leggere anche nei mesi freddi; ma in questo caso voleva offrire ai suoi compaesani l'immagine del guerriero. Ecco perché aveva indossato gli stivali da marcia e, con l'aiuto del figlio, indossò anche la cotta di maglia sopra la giubba. Ramiro, servizievole, gli porse la cintura e la spada, che il padre gli strappò di mano con prestezza. La spada, ormai un'estensione del suo braccio, era molto conosciuta a Lacorvilla. Decise di non prendere il mantello, malgrado il freddo; la taverna era vicina e all'interno del locale c'era sempre il fuoco acceso.
"Padre…"
"Ho detto di no, no!" ripeté il bargello. "Non puoi venire alla riunione. Non sei ancora un uomo".
"Non sono più un bambino!" replicò Ramiro.
"Dimostramelo, figlio mio. Portami la testa di un saraceno o dammi un nipote forte!" esclamò. A Jimeno non dispiacque che il suo ragazzo di tredici anni impallidisse più all'idea di generare un figlio che alla possibilità di tagliare una testa; un giorno suo figlio cadetto sarebbe stato un buon soldato. "Fino ad allora, a meno che non te lo dica io sarai un bambino.
Adesso vai ad esercitarti con la spada".
Mentre suo padre si sistemava la cintura, Ramiro uscì di casa per dedicarsi ai suoi esercizi mattutini. Jimeno si avvicinò all'alambicco che sua moglie usava per distillare liquori. Aprì uno dei recipienti e sentì un forte odore di alcol e mandorle. Vi immerse un dito e lo leccò: troppo amaro per i suoi gusti. Girandosi, vide la donna prendere il mantello che lui non aveva indossato, decisa a seguirlo alla taverna.
"Non voglio che venga neanche tu!" sbottò il bargello. Arlena rimase impietrita dalla rudezza delle parole di suo marito. "È una riunione riservata agli uomini del villaggio. Non ci saranno donne".
"Anche noi vogliamo partecipare. Gli albari non uccideranno solamente gli uomini".
Jimeno avvampò e il cuore cominciò a battergli all'impazzata.
"Chi ti ha detto degli albari?" le chiese, furioso. "È stato Alfonso? Quel ragazzo non sa tenere la bocca chiusa".
"Allora è vero. Ieri ne hai ucciso uno. Anche noi donne dobbiamo venire alla riunione. Tutti abbiamo il diritto di dire la nostra".
"Avrete tutto il tempo di dire la vostra quando avremo deciso. Rimani a casa e continua a fare i tuoi liquori!" Con il dito furioso indicò l'alambicco. "Il liquore di mandorle è amaro".
"È così che deve essere!"
Il bargello uscì in strada sbattendo la porta.
Sentì un brivido quando il suo corpo reagì alla temperatura esterna. La sua dimora era calda e accogliente, come era giusto per un uomo del suo status. Ma il villaggio era un luogo freddo, sempre sotto la minaccia del vento gelido che scendeva dalle montagne. Il suo sguardo si posò sull'orto adiacente alla casa: prima della stagione fredda ormai non si potevano raccogliere che carote, cavoli e poco più. Ma Jimeno non era preoccupato; diversamente da molti altri, aveva scorte di cibo sufficienti per tutto l'inverno e un bel gruzzolo da parte con cui comprare tutto quello di cui avesse avuto bisogno.
La ricompensa per una vita al servizio del re.
"E quello che mi aspetta" mormorò a mezza voce. "Vedrete, vedrete… un giorno o l'altro…"
Jimeno si lasciò alle spalle una discussione di famiglia e, con un umore da cani, andò verso la taverna dove lo aspettava una discussione molto più importante.
*****
A volte qualcuno la chiamava 'La taverna di Bermudo', per via del padrone.
Ma i più la chiamavano semplicemente 'la taverna', era l'unica in paese e non aveva bisogno di un nome. All'interno si svolgeva quasi tutta la vita sociale del villaggio ed era il posto giusto per celebrare quelle riunioni importanti. E l'argomento del giorno, più che importante era vitale.
Jimeno intendeva esporre il suo piano ai compaesani e guadagnarsi la fiducia dei più adatti a portarlo a termine. A questo scopo aveva invitato gli uomini del villaggio, per cominciare ad esporre la sua proposta. Arrivò davanti alla porta e spinse.
Non c'era posto nemmeno per il silenzio. In nessun caso sarebbe potuto esistere in quella densa massa di voci umane che cercavano di farsi sentire sovrapponendosi l'una all'altra. Jimeno aveva invitato solo gli uomini ma persino i bambini piccoli erano presenti, accompagnati dalle loro madri. Tutti volevano dire la loro a proposito della minaccia che pendeva sul villaggio, ed erano ben pochi i compaesani che non erano scesi alla taverna in quella mattinata frenetica.
"Dannazione…" bofonchiò mentre entrava. Abbassò la testa istintivamente per non andare a sbattere contro l'architrave della porta.
Sembrava quasi impossibile che ci stesse anche solo uno spillo in più, con quella marea umana. Ma Jimeno si diede da fare con uno spintone a destra, uno a sinistra e si fece strada nel locale raggiungendo le prime posizioni. Alcuni si spostavano al suo passaggio, altri li spostava lui. Ben presto ebbe i palmi delle mani coperti di sudore altrui. Jimeno grugnì per il disgusto. Al fuoco della taverna si sommava il calore umano, e la temperatura interna era degna quanto meno dell'Inferno.
Guillén era salito su uno dei tavoli del locale e raccontava ai presenti i fatti della sera precedente. Né Jimeno né Alfonso gliene avevano parlato, quindi doveva averlo saputo da Sancho, il Nero. Le sue parole venivano ascoltate dai presenti con grande attenzione e la preoccupazione emergeva decisa al di sopra dell'odore pestilenziale che pervadeva il locale.
"…videro due cavalieri oscuri avvicinarsi a tradimento. Con le loro nere lance pronte ad uccidere…"
In pochi si accorsero della presenza di Jimeno, che ricevette qualche pacca sulla sua eroica schiena. Quando raggiunse le prime file vide sua sorella, Jimena, che era riuscita a farsi largo e si era messa in un angolino.
Schiacciata nel poco spazio a disposizione e respirando la stessa aria impregnata dell'odore di decine di persone scambiò un'occhiata con il bargello.
"Sorella…"
"Jimeno, come sta Alfonso?"
La bocca del bargello si curvò in un mezzo sorriso e disse a sua sorella che Alfonso stava bene. Che non doveva preoccuparsi per suo nipote. Era stato sfortunato, nulla di più. O il cavaliere era stato molto fortunato.
Quando si trattava di lance o di combattimenti, il caso aveva un ruolo importante. La punta della lancia si era conficcata in profondità e non avevano potuto prendersi cura di lui prima di aver raggiunto il castello. A quel punto avevano visto che non aveva perso molto sangue, e che la ferita non era fatale. Gli avrebbe fatto male e poi sarebbe guarita.
"E quando avrà smesso di fargli male gli servirà di lezione".
Jimena rise.
"Una lancia nel culo" osservò scherzosamente, "che grande maestra! E io che credevo che la cosa migliore per i figli fosse insegnar loro un mestiere".
Sorrise mostrando quella dentatura che si era conservata in perfetto stato per più di quarant'anni.
"Il furfante si alzò in piedi, ergendosi imponente accanto al suo cavallo morto. Con occhi accesi dal furore si scagliò su Jimeno e combatterono, combatterono fino alla morte! Cling, clang, facevano le spade…"
Il pubblico era incantato ad ascoltare la storia narrata da Guillén, che agitava le mani e dava calci sul tavolo schivando stoccate invisibili.
"Ha la pelle da pastore ma è nato bardo" disse Jimena, indicando suo marito con un cenno del capo. Il bargello non poté fare altro che annuire: gli sarebbe piaciuto combattere nel duello che Guillén stava descrivendo.
Il pastore non era mai piaciuto a Jimeno. Era un uomo dall'aspetto strano e dagli occhi grigi ancor più strani. Dire che era poco piacente era essere generosi; con la faccia che aveva, non c'era da stupirsi che i suoi nipoti fossero i ragazzini più brutti del villaggio. Eppure, secondo Jimeno, sua sorella era una donna piuttosto attraente benché massiccia, un po' come il bargello. Anche i loro genitori erano stati dei contadini robusti.
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