Casas Pérez Carlos - Il Bargello
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Il Negro lo anticipò.
"Come potete dire così, dopo quello che è successo durante gli ultimi inverni?" disse a voce bassa, come se gli stesse rimproverando un comportamento indegno. "Che cosa credete che ci renda diversi dagli altri villaggi?"
"Io!" rispose immediatamente il bargello. "Io sono qui, con voi. Gli altri
villaggi erano indifesi e sono stati devastati, ma qui ci sono io per fare fronte al pericolo. Ciò che ho detto prima non è cambiato: voglio uomini disposti ad opporsi a quei briganti. Che siano albari o no".
"Non sono briganti!" gridò un vecchio. "Sono demoni!"
"Io ne ho ucciso uno con la mia spada" gli ricordò. "Come demone non era un gran che".
Accompagnò le sue parole con dei colpetti sull'impugnatura della spada.
Anche la cotta di maglia che gli ricopriva il braccio tintinnò. Voleva dimostrare loro che per quanto potessero sembrare terribili, gli albari non erano diversi da qualunque altro uomo. Tutti morivano.
"Voi siete un guerriero, noi lavoriamo la terra" disse Sancho. Il bargello si concesse un mezzo sorriso. Il Nero coltivava la terra ma non era la sua terra. Da anni ormai quei campi erano di proprietà del bargello. Sottratti al padre del Nero, condannato per omicidio. Forse Jimeno sarebbe riuscito a sfruttare quel fatto per mettere fine a quella discussione spiacevole. "Non abbiamo la vostra abilità nel combattimento e se affrontassimo uno di loro le conseguenze sarebbero molto peggiori di questi lividi".
Il Nero indicò il collo di Jimeno. Con quel dito ossuto di chi non mangiava, né tanto né poco. Sancho era costretto a fare una quantità di mestieri per riuscire a ricavarne qualcosa. Quando non preparava il carbone coltivava terre altrui, in cambio di un pugno di fagioli; rammendava calzature in cambio di un paio di cespi di lattuga, se era fortunato; faceva qualunque cosa gli impedisse di morire di fame. Erano anni che il suo corpo non era che pelle e ossa, eppure era ancora tra i vivi per dare fastidio a Jimeno, costretto a fare i conti con la sua imbarazzante presenza.
Alcuni dei compaesani si stavano convincendo che combattere fosse inutile. Jimeno sbuffò per la disperazione. Malgrado fosse evidente che erano minacciati, molti si rifiutavano di vedere che il pericolo era reale e che prima o poi avrebbero dovuto farvi fronte. Volenti o nolenti.
"Noi non siamo guerrieri" dicevano.
"Possiedono spade e cavalli".
"Moriremo".
Jimeno colpì il tavolo con tale forza che temette si potesse spezzare sotto i suoi piedi. Tutte quelle chiacchiere gli stavano facendo bollire il sangue più del calore umano che quegli animali spaventati sprigionavano.
"Allora darete la vostra vita, se sarà necessario, per proteggere i vostri cari.
E lo stesso farò io" assicurò. "Albari o no, quei ladri non abbandoneranno queste terre finché non avranno preso tutte le pecore, le galline e le vacche che vorranno. E se le nascondessimo in paese, brucerebbero i campi.
Assalteranno i nostri granai e se qualcuno cercherà di impedirglielo senza nessuno a coprirgli le spalle, lo passeranno a fil di spada. E così, uno alla volta molti di noi cadranno. Non vedete? Fare a si-salvi-chi-può non funzionerà. Dobbiamo combattere!"
"Se decidiamo di combattere, moriremo tutti" replicò Sancho. "Quel che dobbiamo fare è chiedere aiuto al re. È ora che i soldati si decidano a fare il loro lavoro. Dobbiamo mandare una lettera al sovrano, ecco cosa dobbiamo fare" aggiunse. "Guillén potrebbe scriverla".
Era veramente troppo. Non poteva più sopportare tutte quelle lamentele.
"Il re non darà alcuna importanza alla lettera di un pastore" spiegò Jimeno.
Guillén chinò la testa a quelle parole. "Ha ben altro da fare, come occuparsi degli Ordini Militari e riorganizzare il regno che gli ha lasciato suo fratello Alfonso. L'unico aiuto che avremo sarà quello che noi stessi potremo concederci. Solo noi!" Si girò verso il carbonaio. "E tu, Sancho, sei il meno indicato per attribuire responsabilità ad altri. A tuo padre non è servito a niente, e non servirà a te. Impara e insegnalo a tuo figlio".
Sulla taverna piombò un silenzio mortale. Quello era un discorso molto serio. Jimeno sapeva bene che nessuno nominava mai il padre del Nero, per rispetto nei confronti del figlio e di sua madre.
Guillén si avvicinò a suo cognato.
"Jimeno" sussurrò, "non c'è bisogno di tirare in ballo i brutti ricordi. Il
passato è passato".
"Non si può incolpare il figlio dei peccati di suo padre" mormorò Sancho.
"Porti il marchio di Caino!" lo accusò Jimeno, puntando un dito accusatorio che fece rabbrividire il carbonaio.
Sancho non osò dire altro. Il carbonaio uscì dalla taverna, coperto di stracci e sconfitto, lasciando a Jimeno l'ultima parola.
"Condivido le preoccupazioni del Nero, e quelle di voi tutti. Vi assicuro che non lasceremo niente al caso. Spiegherò i miei piani a don Yéquera; lui ci fornirà le spade e le lance grazie alle quali potremo difenderci. Chi vorrà accompagnarmi, sappia che sarò alla Fontana Nuova a mezzogiorno.
Con quelle parole, Jimeno mise fine all'assemblea. E anche se alcuni continuavano ad avere dei dubbi, il bargello non volle dare ulteriori spiegazioni. A poco a poco, la taverna cominciò a svuotarsi. Il bargello scese dal tavolo.
*****
Jimeno si avvicinò al bancone della taverna facendo tintinnare l'armatura.
Bermudo stava ritirando i pochi bicchieri che aveva servito durante la riunione. C'era ancora qualche avventore e l'odore di quelli che se ne erano andati ristagnava, ma ormai ci si poteva muovere senza bisogno di farsi largo e venire in contatto con altri corpi.
Si girò verso il bancone e si accorse che Bermudo lo stava guardando con attenzione.
"Se mi avessi spaccato il tavolo, sai che ti avrei ammazzato" disse con gli occhi fissi sugli stivali del bargello.
Né quello che aveva detto né il tono confidenziale che aveva usato l'oste gli diedero fastidio: Jimeno sapeva che tipo era Bermudo, aggressivo e poco incline a discolparsi. Jimeno si sedette su uno sgabello e concesse al suo corpo di riposare. Portare addosso quell'armatura era estenuante.
"Ed è l'unica cosa che hai notato?" chiese appoggiandosi al bancone. "Che ho dato una botta al tavolo?"
Bermudo schioccò la lingua.
"Hai detto pure che ho staccato la testa a un saraceno in un sol colpo"
aggiunse. Lanciò un paio di bicchieri nel lavatoio, incurante se si potessero rompere o no. "Non è vero. Mi ci sono voluti due colpi" spiegò, "perché il maledetto indossava una gorgiera che l’ha protetto dal primo colpo".
Sentendo quelle parole, Jimeno sentì un fastidio al collo. Non perché l'oste l'avesse accusato di qualcosa che in effetti era vero, ma perché gli aveva ricordato che indossava ancora la cuffia, che gli sfregava sul collo ogni volta che si girava. Decise di toglierla.
"Le verità migliorano se le abbellisci un po'" spiegò. "Alla fine l'hai ammazzato, no? È quello che importa".
Il bargello cercò l'allacciatura della cuffia per toglierla. Bermudo lo indicò con il suo grosso dito.
"Quell'armatura non ti ha protetto dal Nero" disse. Poi si offrì di aiutare Jimeno a togliersi la protezione di maglia.
Le grosse mani dell'oste cercarono l'allacciatura fino a trovarla. Con gesti bruschi tolse la cuffia dalla testa di Jimeno e la lasciò cadere sul bancone.
Il bargello lo ringraziò con un cenno del capo.
"Alla fine ho vinto" disse togliendosi i guanti. I dischetti di ferro che vi erano cuciti tintinnarono contro la cuffia. "Se n'è andato con la coda tra le gambe".
"Gli hai dato una pugnalata a tradimento, senza che nessuno si accorgesse delle tue intenzioni" lo accusò Bermudo prendendo uno straccio per pulire il bancone. "Non mi aspettavo da te una cosa del genere".
"Era necessario" si difese. "Quell'imbecille stava minando il morale di tutti i presenti. Non ho bisogno che qualcuno ricordi ai nostri compaesani quanto
può essere pericoloso quello che ci accingiamo a fare, inducendoli a pensare che qualcuno possa farlo al posto loro. Ho bisogno che la gente del paese ci creda, a quello che ho in mente" spiegò. "Il Nero li stava solo spaventando".
Se Bermudo era della stessa opinione, non lo diede a vedere. Continuò a pulire con calma e lanciando ogni tanto un'occhiata verso la porta, come se si aspettasse che da un momento all'altro qualcuno entrasse nella sua taverna.
"Bevi qualcosa o no?" chiese, cambiando argomento.
La sua grossa mano indicò i ripiani alle sue spalle. Tutti i barili e le giare che vi erano appoggiati erano contraddistinti da segni che servivano ad indicarne il contenuto. Bermudo, come Jimeno, non sapeva leggere. Ecco perché utilizzava dei segni che gli erano familiari per differenziare le diverse bevande. Jimeno conosceva bene quelli delle grappe. Sua moglie le preparava negli alambicchi che aveva a casa e poi le vendeva a Bermudo. Finalmente trovò quello che cercava.
"Mezzo di sidro" e in risposta allo sguardo incredulo di Bermudo, aggiunse:
"per schiarirmi la gola".
"Mezzo sidro... cosa mi tocca fare" si lamentò. Mise svogliatamente un bicchiere sotto il cannello del barile e lo riempì fino a metà. Nemmeno una goccia in più. "Pessimo inverno questo, se neanche il bargello può permettersi un dannato bicchiere di sidro. Posso contare sulle dita di queste mani le bevande che ho servito oggi" assicurò l'oste aprendo le mani. Erano forti e accoglienti. Di tutti gli uomini del villaggio, Bermudo era l'unico che in qualche occasione era riuscito a far innervosire il bargello, tempo addietro. Eppure, da quando aveva comprato quella taverna era diventato un uomo tranquillo, molto diverso dall'orco che Jimeno aveva conosciuto in gioventù; quando ancora si spaventava vedendo quello che un uomo era capace di fare a un altro uomo. "E tutto il dannato villaggio è nella mia taverna!" urlò ai compaesani che sgattaiolavano via senza aver bevuto niente.
Rimasero soli.
Non ho permesso ad Arlena di venire e c'erano qui non solo tutte le donne, ma anche le vecchie , pensò Jimeno. Eppure, si accorse di una cosa.
"Tutti no" puntualizzò il bargello. "Ruderico non c'era".
L'osservazione non era scevra di significato. Jimeno non aveva visto il sacerdote partecipare all'assemblea e immaginò che le informazioni su ciò che era stato detto gli sarebbero giunte da altre vie. Decise di passare dalla chiesa a parlare con lui, e così assicurarsi che gli arrivasse all'orecchio la versione corretta.
"Quello viene solo ogni tanto, la sera" disse Bermudo. "Per giocare ai dadi, a carte o a quello che capita. Non che il prete goda di particolari aiuti di natura divina" aggiunse, "non è di quelli che vincono, insomma".
"Perde molti denari?" si interessò Jimeno.
L'oste tacque un momento, non sapendo se fosse o meno opportuno parlare di quelle faccende con il bargello. Jimeno continuò a sorseggiare il sidro. In attesa che l'altro parlasse. Senza fretta.
Il bargello pensava che, se il prete fosse stato a corto di denari, sarebbe stato facile tirarlo dalla sua parte facendogli qualche regalo, all'occasione.
Un poco di liquore, qualche dolce appena fatto, dei calzini pesanti... piccoli favori che Jimeno prima o poi avrebbe fatto valere.
Benché fossero soli, Bermudo guardò a destra e a sinistra.
"Mah… quando ci sono delle monete in ballo" finì per dire, "non sempre.
Non mi piace vedere certe cose nella mia taverna. Ogni tanto li accontento, per dovere di cortesia" aggiunse sorridendo al bargello, dato che sarebbe stata sua responsabilità fare in modo che tali giochi non fossero praticati nel loro villaggio. "Ma non giocano quando c'è gente. Non mi piacciono le chiacchiere e il gioco ne provoca in abbondanza. Lo sai che dire qualcosa qui… è come dar fuoco alla paglia".
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