Volodyk - Paolini2-Eldest
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«Roran» sussurrò Baldor, risoluto, «non puoi fare niente. Guarda, sono al servizio del re. Anche se riuscissi a fuggire, diventeresti un fuorilegge e attireresti la sventura su Carvahall.»
«Ma cosa vogliono? Cosa possono volere?» Il re. Come ha potuto Galbatorix permettere che torturassero mio padre? «Se non hanno ottenuto quel che volevano da Garrow, ed Eragon è fuggito con Brom, allora sono tornati per te.» Baldor fece una pausa, per consentire alle sue parole di colpire nel segno. «Dobbiamo tornare indietro e avvertire tutti. Poi ti dovrai nascondere. Gli stranieri hanno
i cavalli.
Ma possiamo arrivare per primi, se ci mettiamo a correre.»
Attraverso il fogliame del sottobosco, Roran osservò i soldati
ignari. Il suo cuore cominciò a battere selvaggiamente, assetato di vendetta, bramoso di attaccare e combattere, di vedere quei due portatori di morte trafitti dalle sue frecce e ripagati con la loro stessa moneta. Non gl'importava di morire, purché il suo dolore venisse cancellato in un unico istante di cieca ferocia. Non doveva far altro che uscire allo scoperto. Il resto sarebbe venuto da sé.
Ancora un piccolo passo.
Con un singhiozzo strozzato, serrò i pugni e abbassò lo sguardo. Non posso abbandonare Katrina. Rimase immobile, gli occhi chiusi con forza, poi indietreggiò lentamente. «A casa, dunque.»
Senza aspettare la reazione di Baldor, Roran tornò lesto fra gli alberi, attento a non fare rumore, e quando l'accampamento fu abbastanza lontano, uscì sulla strada e cominciò a correre a perdifiato, riversando nelle gambe ogni oncia della sua frustrazione, della sua rabbia e della sua paura.
Baldor lo imitò, guadagnando terreno sul rettilineo. Roran rallentò per farsi raggiungere, e disse: «Tu avverti gli altri. Io vado a parlare con Horst.» Baldor annuì e ripresero a correre.
Dopo due miglia, si fermarono a dissetarsi e a riprendere fiato. Quando ebbero smesso di ansimare, proseguirono per le basse colline che precedevano Carvahall. Persero tempo con tutte quelle salite e discese, ma finalmente giunsero in vista del villaggio.
Roran prese la via della fucina, mentre Baldor si diresse al centro del paese. Correndo davanti alle case, Roran cercava di escogitare un metodo per evitare gli stranieri o per ucciderli senza incorrere nelle ire dell'Impero. Piombò nella fucina mentre Horst stava conficcando una zeppa nel fianco del carro di Quimby, cantando: ... ehi ho!
Ringhia e freme irritato come un gatto il vecchio ferro! Il buon vecchio ferro. Batti e ribatti sgobbando come un matto, ho conquistato il buon vecchio ferro!
Horst si fermò con il maglio a mezz'aria nel vedere Roran. «Cosa succede? Baldor è ferito?»
Roran scosse la testa, piegato in due per riprendere fiato. Con brevi frasi smozzicate, riferì tutto quello che avevano visto e le possibili implicazioni, dato che con ogni evidenza gli stranieri erano agenti dell'Impero. Horst si accarezzò la barba. «Devi lasciare Carvahall. Torna a casa a fare provviste e prenditi la mia giumenta, Ivor la sta usando per dissodare il campo. Poi nasconditi sulle colline. Non appena sapremo cosa vogliono i soldati, ti manderò notizie tramite Albriech o Baldor.»
«Cosa direte se chiedono di me?»
«Che sei andato a caccia e che non sappiamo quando tornerai. In fin dei conti, non è troppo lontano dalla verità, e dubito che si arrischieranno a brancolare nei boschi per timore di perderti. Sempre ammesso che stiano cercando te.» Roran annuì, poi girò sui tacchi e corse a casa di Horst. Staccò i finimenti e le bisacce della giumenta da una parete, avvolse in una coperta alcune rape, barbabietole, carne essiccata e una pagnotta, afferrò una padella di stagno e schizzò via, fermandosi giusto il tempo di dare qualche spiegazione a Elain.
Le provviste gli davano impaccio mentre si allontanava da Carvahall verso est, dove si trovava la fattoria di Ivor. Il contadino era alle spalle della casa colonica; spronava con una fronda di salice la cavalla che si affannava per strappare le radici di un olmo dal terreno.
«Forza!» gridò il contadino. «Tira!» La cavalla rabbrividì per lo sforzo, schiumando intorno al morso, poi con un strattone finale capovolse il ceppo, che rimase con le radici puntate al cielo come una mano dalle dita adunche. Ivor la fermò con uno schiocco di redini e le batte la mano su un fianco ansimante. «Brava...
Ce l'hai fatta.»
Roran lo salutò da lontano, poi si avvicinò indicando la bestia. «Devo prenderla» disse, spiegando i motivi. Ivor imprecò e cominciò a staccare le briglie, borbottando: «Sempre la stessa storia: inizi un lavoro, e subito qualcuno arriva a interroperti. Mai che accada prima che incominci.» Incrociò le braccia e guardò accigliato Roran che sellava la giumenta.
Quando fu pronto, Roran montò in groppa alla cavalla, arco in pugno. «Mi rincresce per il disturbo, ma non c'era altro modo.»
«Be', non preoccuparti. Fai solo in modo di non farti catturare.»
«Te lo prometto.»
Mentre piantava i talloni nei fianchi della cavalla, Roran sentì Ivor che esclamava: «E non metterti nei guai!» Roran sorrise e scrollò la testa, chinandosi sul collo della giumenta. Ben presto raggiunse le colline ai piedi della Grande Dorsale e cominciò a risalire verso le montagne che delimitavano l'estremità settentrionale della Valle Palancar. Raggiunto un luogo da cui poteva osservare Carvahall senza essere visto, legò la cavalla e si preparò all'attesa. Roran rabbrividì, adocchiando i pini scuri. Non gli piaceva l'idea di essere così vicino alla Dorsale. Quasi nessun abitante di Carvahall osava avventurarsi su quella catena montuosa, e quelli che lo facevano, spesso non tornavano. Poco dopo vide i soldati marciare lungo la strada in doppia colonna, con le due tetre figure in testa al drappello. Alle porte di Carvahall vennero fermati da uno sparuto gruppo di uomini, alcuni con i forconi in mano. Le due parti parlottarono fra di loro, poi si fissarono in cagnesco, come bestie ringhianti che aspettano di vedere chi attaccherà per primo. Dopo un lungo momento, gli uomini di Carvahall si scansarono e fecero passare gli intrusi. E adesso? si domandò Roran, dondolandosi sui calcagni.
Al calar della sera, i soldati si acquartierarono in un prato ai margini del villaggio. Le loro tende formavano una cupa massa grigia, tremolante di ombre, mentre le sentinelle pattugliavano il perimetro. Al centro del campo, un grande falò spandeva volute di fumo nell'aria.
Anche Roran si era accampato, e adesso non poteva far altro che osservare e pensare. Aveva sempre dato per scontato che gli stranieri avessero ottenuto quel che volevano quando avevano dist la sua casa, ossia la pietra che Eragon aveva riportato dalla Grande Dorsale. Vuoi dire che non l'hanno trovata, concluse. Forse Eragon è riuscito a fuggire con la pietra. Forse ha capìto di dover scappare per proteggerla. Aggrottò la fronte. Questo avrebbe spiegato la fuga improvvisa di Eragon, eppure Roran non ne era ancora del tutto convinto. Quali che siano stati i motivi, quella pietra deve rappresentare un tesoro inestimabile se il re ha mandato così tanti uomini a recuperarla, anche se non capisco cosa la renda così preziosa. Forse è magica.
Inspirò a fondo l'aria fresca della notte, ascoltando il lugubre lamento di una civetta. Un movimento catturò la sua attenzione. Scoccando un'occhiata in basso, vide un uomo risalire dalla foresta. Roran si nascose dietro un masso, con l'arco pronto. Attese finché non ebbe la certezza che si trattava di Albriech, poi emise un fischio sommesso. Albriech raggiunse il masso. In spalla portava uno zaino stracolmo che posò sul terreno con un gemito. «Mi ero quasi convinto che non ti avrei
mai trovato.»
«Mi sorprende che tu ce l'abbia fatta.»
«Non posso certo dire di essermi divertito a vagare per la foresta dopo il tramonto... Mi aspettavo d'imbattermi da un momento all'altro in un orso, o peggio. Credi a me, la Dorsale non è posto adatto agli uomini.»
Roran fece un cenno con la testa in direzione di Carvahall. «Allora, perché sono venuti?»
«Per prenderti in custodia. Hanno detto che aspetteranno finché non tornerai dalla caccia.»
Roran si sedette di schianto, le viscere strette in una morsa di gelida apprensione. «Vi hanno detto perché? Hanno parlato della pietra?»
Albriech fece di no con il capo. «Hanno detto soltanto che è una questione che riguarda il re. Per tutto il giorno non hanno fatto che chiedere di te e di Eragon... soltanto questo interessa loro.» Esitò. «Resterei qui, ma domani si accorgerebbero che non ci sono. Ho portato viveri e coperte, e qualche unguento di Gertrude, nel caso ti ferissi. Dovresti stare bene, nascosto quassù.»
Facendo appello a tutte le sue energie, Roran abbozzò un sorriso. «Grazie dell'aiuto.»
«Chiunque lo farebbe» disse Albriech, scrollando le spalle imbarazzato. Si volse per andarsene, poi aggiunse da sopra una spalla: «Per inciso, i due stranieri... si chiamano Ra'zac.»
La promessa di Saphira
Il mattino dopo aver incontrato il Consiglio degli Anziani, Eragon stava lucidando e ingrassando la sella di Saphira, attento a non stancarsi troppo, quando ricevette una visita di Orik. Il nano attese che finisse con una cinghia, poi gli domandò: «Va meglio, oggi?»
«Un po'.»
«Bene, poiché tutti dobbiamo essere in forze. Sono venuto a informarmi sulla tua salute, ma anche perché Rothgar desidera parlare con te, se hai tempo.»
Eragon sorrise debolmente. «Ho sempre tempo per lui. Dovrebbe saperlo.»
Orik scoppiò a ridere. «Già, ma è buona educazione chiedere.» Mentre Eragon posava la sella, Saphira si alzò dal suo comodo pagliericcio e salutò Orik con un ringhio amichevole. «Buongiorno anche a te» disse il nano con un inchino. Orik li condusse lungo uno dei quattro corridoi principali di Tronjheim, verso la camera centrale e i due scaloni speculari che scendevano a spirale nel sottosuolo, dove si trovava la sala del trono del re dei nani. Prima di raggiungere la stanza, però, il nano imboccò una piccola rampa di scale. A Eragon ci volle qualche momento per capire che Orik aveva imboccato un passaggio secondario per evitare di vedere le rovine di Isidar Mithrim. Si fermarono davanti alle porte di granito incise con una corona a sette punte. Sette nani armati su ciascun lato dell'ingresso batterono all'unisono sul pavimento con i manici dei loro picconi. Con il tonfo echeggiante del legno sulla pietra, i battenti si aprirono verso l'interno.
Eragon fece un cenno a Orik, poi entrarono nella sala scarsamente illuminata insieme a Saphira. Avanzarono verso il trono distante, oltrepassando le rigide statue, le hirna, dei defunti re dei nani. Al cospetto del massiccio trono nero, Eragon s'inchinò. Il re dei nani ricambiò il saluto con un cenno del capo canuto; i rubini incastonati nell'elmo d'oro rilucevano nella penombra come scintille di ferro incandescente. Volund, la mazza da guerra, giaceva di traverso sulle gambe fasciate di maglia d'acciaio.
Rothgar parlò. «Ammazzaspettri, benvenuto nella mia dimora. Molte gesta hai compiuto dal nostro ultimo incontro. A quanto pare, mi sbagliavo sul conto di Zar'roc. La spada di Morzan sarà ben accetta a Tronjheim, finché sarai tu a impugnarla.»
«Ti ringrazio» disse Eragon, rialzandosi. «Inoltre» proseguì il nano con voce tonante «vorremmo che tenessi l'armatura che hai indossato durante la battaglia del Farthen Dùr. In questo preciso momento, i nostri migliori fabbri la stanno riparando. Lo stesso trattamento viene riservato all'armatura del drago, e quando sarà pronta, Saphira potrà indossarla finché vorrà, o almeno finché non le andrà troppo stretta. Questo è quanto possiamo fare per mostrarvi la nostra gratitudine. Se non fosse stato per la guerra contro Galbatorix, avremmo organizzato banchetti e festeggiamenti per celebrare il tuo nome... ma dovremo attendere tempi migliori.»
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