Morenz Patricia - Per Sempre È Tanto Tempo
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«Arrivederci?» lei vuole farsi notare, ma la guardo soltanto e proseguo per la mia strada.
«A presto» sento lui che la saluta.
Percorriamo un paio di metri in silenzio, mentre tento di tornare al buonumore che avevo prima. Davvero non abbiamo avuto un momento da soli, per poter parlare di tutto quello che abbiamo taciuto in questi anni e per questo sento una nervosa anticipazione impossessarsi del mio stomaco.
«Non ti avevo mai visto così maleducata» commenta Jake quasi divertito, «è … interessante.»
«Vuoi vederlo di nuovo?» lo sfido.
«Se è con me, no, per favore.»
«Sta zitto» lo provoco.
Passiamo oltre un altro paio di case, mentre io confronto i miei ricordi con la realtà davanti ai miei occhi. Alcune case hanno cambiato colore, altre sono semplicemente diverse. Forse ho idealizzato troppo questo luogo.
Jake cammina con le mani in tasca e lo sguardo a terra, mi ricorda me il primo giorno di scuola.
«Tua mamma è in casa?» chiedo solo per essere sicura. Se la mia non c’è, in questi anni potrebbe essere successa qualunque cosa.
«Deve essere da mia nonna, ma non tarderà ad arrivare.»
«E tuo padre continua a lavorare all’università?»
«Sì … e mio fratello ha iniziato l’università quest’anno, alla Columbia, quindi sono a casa da solo.»
«Questo è ottimo per Scott. Cosa ha deciso di studiare? E perché la Columbia?»
«Economia. Solo per sfidare mio padre. Suppongo che gli andrà bene, sai che non è solo intelligente, è anche popolare.»
«Sì, mi ricordo … E la casa sull’albero? È ancora in piedi?»
«In realtà era molto rovinata, ma Scott ed io l’abbiamo sistemata prima che andasse all’università, la vedrai.»
Arriviamo alla casa di mattoni rossi che vedevo nei miei sogni, così come la ricordavo. Potevo quasi vederci entrare per quella porta, da bambini e sederci nel piccolo giardino sul retro quando c’era il sole o fare pupazzi di neve sul marciapiede quando nevicava. Il tempo poteva quasi tornare indietro. Quasi, ma forse no.
Jake estrae la chiave dalla tasca destra mentre terminiamo di salire i pochi gradini fino al portico davanti.
«Benvenuta di nuovo in casa Johnson» recita prima di aprire la porta con aria drammatica.
«Grazie» entro e una sensazione calda s'impadronisce di tutto il mio corpo.
«Vuoi qualcosa da bere o da mangiare?» chiede mentre io osservo in giro con curiosità.
«No, sto bene così, grazie» rispondo mentre lo immagino crescere in questi anni tra queste pareti. «Posso vedere la casa sull’albero?»
«Certo» annuisce come se fosse ovvio.
Passiamo per la cucina ed eccola lì, a prendersi gioco del passare del tempo. La ricordavo molto più grande o forse è solo il fatto che io sono cresciuta. Ci avviciniamo alla piccola scala appesa che ci porta proprio all’ingresso.
«Prima le signore» dice reggendo un’estremità della scala e cedendomi il passo.
«Che cavaliere!» esclamo in tono giocoso e inizio a salire con le mani che mi sudano, rendendolo più difficile.
Raggiungo l’ingresso e mi sposto all’interno, ricordo perfettamente l’ultima volta che sono stata qui e no, l’ultima volta non fu quella del bacio, anche se la ricordo molto bene.
«Mamma cosa succede?!» chiesi appena entrai in casa, da fuori avevo sentito i miei genitori discutere.
«Figlia mia, fai le valigie, ce ne andiamo subito» rispose mia madre in fretta mentre mio padre ardeva di una furia silenziosa.
«Cosa?!!!» esclamai fuori di me «Dove? Papà, che succede?» mi rivolsi a mio padre che si passava le mani sulla faccia senza dire niente.
«Sì, Charles, dì a tua figlia cosa sta succedendo.»
Non capivo niente. Guardavo entrambi e nessuno dei due riusciva a darmi una spiegazione chiara per questo disastro.
«Jane, per favore … Non farlo» e iniziarono a ignorarmi, mentre io restavo nell’occhio del ciclone preparandomi al peggio.
«Non devo farlo?! Sei stato tu a farlo!» recriminò mia madre «Jocelyn, finisci di fare le valigie, ho già raccolto i tuoi vestiti, porta solo le cose assolutamente necessarie.»
«Ma mamma!» protestai.
«Ma niente … fai solo quello che ti dico» disse in un tono aspro che non avevo mai sentito nella sua voce, così obbedii.
Entrai, per quella che pensavo sarebbe stata l’ultima volta, nella mia camera da letto e mi buttai sul letto tra i singhiozzi, mentre elaboravo l’idea di andarmene e abbandonare tutto quello che conoscevo fino a quel momento. E all’improvviso mi venne in mente un nome. Jake.
No, no, no. Non potevo lasciare Jake. Anche se mi aveva appena baciata, lui era ancora il mio migliore amico. Non avrei potuto dirgli addio. Afferrai un foglio di carta pensando di scrivergli qualcosa, ma non sapevo nemmeno dove stavo andando.
Sentii mamma gridare il mio nome dal salotto e presi la borsa che era sopra il mio letto cominciando a riempirla con tutto quello che poteva starci.
Foto, i miei quaderni gialli di appunti, ricordi che non volevo perdere e all’improvviso in un angolo la vidi. La chitarra marca Taylor di mio nonno. Me l’aveva lasciata quando era mancato, lui era un po’ bohemienne e aveva sempre provato a insegnarmi, ma le mie dita erano semplicemente fatte per un’altra cosa. E inoltre ero una bambina, l’ultima cosa che volevo era suonare la chitarra.
Pochi giorni prima quando stavamo ascoltando musica nella casa sull’albero, Jake disse che gli sarebbe piaciuto imparare a suonare qualche strumento ed ebbi l’idea di regalargli la chitarra per il suo compleanno, ma ora che non sarei più stata qui quel giorno, non sapevo cosa fare.
«Papà? Perché mamma ed io ce ne andiamo? Non ci vuoi più qui?» chiesi singhiozzando appena arrivai in salotto. Mamma stava aspettando in auto.
Papà adesso sembrava molto più vecchio, più stanco del suo giorno peggiore al lavoro, e papà era medico e poteva operare per ore; aveva gli occhi così rossi che temevo sanguinassero. Sollevò la testa e mi osservò prima di ricomporsi, tentando di trovare le parole che mi facessero meno male. Ma non esistevano.
Si avvicinò e prese il mio viso tra le mani, asciugando le mie lacrime con le dita.
«Non dirlo mai più figlia mia … L’unica cosa che devi sapere è che ti voglio bene, non importa che io stia o meno con tua madre. Va bene?»
No. Non andava bene niente. E ancora non avevo idea di cosa stava succedendo.
«Allora … Non ami più mamma?» insistetti.
«Jocelyn, quando crescerai capirai tutto. Capirai che a volte è molto difficile cambiare io, con il noi. Che a volte l’amore si dà per scontato e quando pensiamo che sia eterno finiamo per perderlo.»
«Ma perché non parli con mamma? Anch’io posso parlare con lei.»
«No, tesoro. Tua madre ha già preso la sua decisione e dobbiamo rispettarla. Ricorda solo che io per te ci sarò sempre. Sai il mio numero, puoi chiamarmi a qualunque ora.» Annuii mentre all’esterno mia madre suonava il clacson perché facessi in fretta.
«Non voglio andarmene papà … Cosa farai tu da solo?» lo abbracciai mentre piangevamo entrambi.
«Non preoccuparti per me, starò bene, ora vai con tua madre.»
Mi accompagnò fino al portico e dopo un enorme abbraccio mi disse che mi amava. Mamma scese dall’auto per aiutarmi con il borsone, tutto il resto era già stato caricato in macchina.
«Possiamo fermarci un momento a casa di Jake?» avevo un’idea.
«Tesoro, non è un buon momento per le visite» mi rimproverò mentre si asciugava le lacrime con un Kleenex stropicciato.
«Solo cinque minuti per favore, voglio salutarlo» rimase incerta per un attimo, ma alla fine annuì.
L’auto iniziò a muoversi in retromarcia, mentre io dicevo addio a papà con la mano e con gli occhi annebbiati dalle lacrime. Lo vidi diventare sempre più piccolo in lontananza ed io mi sentivo più piccola e anche fragile.
«Cinque minuti» mi avvertì mamma fermando l’auto di fronte alla casa di Jake e mettendo in chiaro che avrebbe spettando lì.
Scesi con la chitarra tra le mani, attraversai la strada con le gambe che mi tremavano e invece di dirigermi alla porta principale costeggiai la casa. Quando arrivai in fondo mi accertai che lì intorno non ci fosse nessuno e salii rapidamente sulla casa sull’albero, lasciai la chitarra in un angolo e fui quasi grata che nessuno di noi avesse un cane. Scesi da lì tentando di non fare rumore e quando arrivai di nuovo al marciapiede mi misi a correre verso l’auto di mamma.
«E la chitarra? L’hai dimenticata?» chiese mamma un po’ stanca perché pensava che ora sarei dovuta andare a cercarla e avremmo perso altro tempo.
«No, l’ho lasciata a Jake. Lui se ne prenderà cura» sapevo di sorprenderla quando mi osservò troppo a lungo.
«Sei sicura? Era di tuo nonno.»
«Sono sicura» affermai osservando per l’ultima volta la facciata di mattoni rossi che non avrei più visto, fino a molto tempo dopo.
Non avrei mai potuto dire addio a Jake. Pensavo che se non lo facevo mi avrebbe fatto meno male, ma non fu così.
«Questo me lo ricordavo proprio più grande» penso a voce alta mentre entrambi ci sediamo sul pavimento in legno.
«La casa è la stessa, ma noi siamo cresciuti» ammette Jake e per come mi guarda so che non si riferisce soltanto alla crescita fisica.
Mi sento le parole in gola, e se non le dico soffocherò e moriranno senza arrivare alla loro destinazione.
«Mi dispiace» mi esce all’improvviso e ci osserviamo, vedo che lui apre la bocca per rispondere, ma non lo lascio parlare.
«Mi dispiace di essere andata via senza salutarti, in verità non sapevo che me ne sarei andata quella sera, mi dispiace non averti chiamato o scritto per tutto questo tempo, mi dispiace di non essere stata abbastanza coraggiosa da ascoltare la tua voce senza crollare, mi dispiace di non aver lottato per la nostra amicizia e mi dispiace di non essere tornata prima. Mi dispiace, Jake. Mi dispiace per tutto.»
Ho appena il tempo di finire quando mi avvolge tra le sue braccia mentre le lacrime traboccano dai miei occhi. Profuma di menta, ma il suo corpo è così caldo e confortante che potrei restare così per anni senza accorgermi del passare del tempo.
Questa volta sì mi dispiace davvero, non come quando l’ho detto questa mattina uscendo di casa.
«Non devi scusarti» dice alla fine quando le mie lacrime diminuiscono. «Nemmeno io avrei potuto dirti addio.»
«Mi sei mancato ogni giorno» ammetto.
«Sono sicuro che non così tanto quanto tu sei mancata a me» prova a scherzare.
«So che non ho il diritto di chiedertelo, ma mi piacerebbe che tornassimo a essere amici.»
«Non abbiamo mai smesso di esserlo» mi assicura seriamente senza lasciare spazio al dubbio.
Ci appoggiamo a una delle pareti della casa e metto la testa sulla sua spalla, noto il suo respiro un po’accelerato, sono sicura che anche il suo cuore sta battendo più forte. Riesco quasi a sentirlo. All’improvviso voglio condividere tutto con lui, come prima.
«Mia madre è morta …» è la prima volta che dico questa frase a voce alta. È una tale amarezza.
Lo vedo deglutire con difficoltà senza sapere cosa dire.
«È morta in un incidente d’auto insieme a mia nonna, più di due mesi fa.»
«So che è inutile dirlo, ma davvero, mi dispiace.»
«Lo so … grazie. Sai? Dovevo esserci anch’io in quell’auto. Ma mi sembrava più divertente andare alla casa al mare di mia zia che andare al supermercato. Volevo solo finire il mio romanzo.»
«Non pensarci» mi abbraccia più forte mentre io circondo il suo busto con le braccia e affondo il viso nello spazio tra il suo collo e la spalla.
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