Vignaroli Stefano - Nel Segno Del Leone
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«Su, su! Alzatevi!», gli aveva detto Lucia, le gote che le si stavano infiammando. Sollevandosi, Andrea si era trovato con il suo viso a brevissima distanza da quello di lei. L’impulso era stato quello di avvicinare le labbra alle sue e baciarla a lungo, ma si dovette trattenere a causa della presenza della servitù, ma soprattutto delle due bimbe.
I due rimasero così, per un po’, fissandosi negli occhi, senza proferire parola. Poi Andrea si schiarì la voce.
«I vostri occhi nocciola. Credo di averli visti l’ultima volta dietro una celata sollevata. Eravate voi il giorno del torneo a Urbino. Ne sono sicuro. Ho riconosciuto i vostri occhi. Dello stesso colore, al mondo non ce ne sono altri. Siete voi che mi avete salvato la vita, che avete bloccato Masio. E non capisco proprio, non mi capacito di come una damigella, bella e delicata come voi, abbia avuto la forza e il coraggio di intervenire in una maniera degna di un uomo d’armi.»
«Dovete ancora conoscermi a fondo, Messer Franciolino - o posso ancora chiamarvi Andrea? – In ogni caso, dietro la facciata di femminilità, ho saputo sempre farmi valere, anche in situazioni che richiedevano non solo forza, ma anche astuzia, cervello e ragionamento. E nessuno è mai riuscito a gabbare la qui presente Contessina Lucia Baldeschi. E vi assicuro che ci hanno provato in molti.»
«Immagino che questi anni per voi, qui in città, non siano stati semplici. Mi hanno raccontato che vi siete assunta delle responsabilità non indifferenti. E che ve la siete cavata in maniera egregia. Mi hanno anche riferito che siete una temeraria e più di una volta vi siete avventurata in viaggi anche perigliosi, e per di più senza scorta. Una cosa davvero azzardata per una dama del vostro rango.»
A queste parole, Lucia aveva abbassato lo sguardo, sospirando. Andrea, avendo capito di aver toccato un tasto forse dolente per la sua amata, aveva riportato il discorso su un piano diverso.
«Certo, dopo i fatti di Urbino, mi sarei aspettato di trovarvi al mio fianco, di essere assistito dalle vostre amorevoli cure, come ai tempi del sacco di Jesi. Invece mi sono ritrovato in un castello sperduto e solitario, con la sola compagnia di due burberi Conti montanari, e di un piccolo manipolo di loro servi.»
«Ho provveduto a che foste curato, ma non potevo rimanere nel Montefeltro. Ero giunta fin lì in incognita, solo per vedere voi. E ora che state bene, aspetto che siate voi a…»
«Ma certo, ma certo, avete ragione appieno», e si prostrò di nuovo ai piedi della sua amata, riprendendole la mano tra le sue. «Vi chiedo umilmente scusa per essermi dilungato in inutili chiacchiere. Lo scopo della mia presenza qui è uno e uno solo. Quello di propormi come vostro sposo. È strano doverlo chiedere direttamente a voi, di solito la mano di una dama si chiede per intercessione del suo genitore, o di un suo tutore. Ma meglio così. Sono pronto a dichiararvi il mio amore immenso, e credo che anche il vostro cuore batta forte per questo cavaliere, come più volte mi avete fatto capire.»
Lucia gli intimò di alzarsi per la seconda volta. Andrea si sollevò, continuando a tenere la mano di lei. Sentiva il profumo di acqua di rose, che lo stava facendo inebriare, quasi fosse ubriaco. Ancora una volta ebbe l’istinto di baciarla. Avvicinò con delicatezza il suo busto a quello di lei, fino a sentire la pressione dei suoi seni contro il suo torace. Le sfiorò la gota con le labbra, in un leggerissimo bacio, quasi impercettibile. Lucia si retrasse un po’.
«E avete capito bene. Sì, sono pronta a sposarvi, a una sola condizione, che vogliate essere padre di entrambe le bimbe.»
«E questo è scontato. Lo voglio essere. Sono due bimbe meravigliose e, a quanto vedo, già ben educate. Di questo bisogna rendervi merito.»
«Credo che ora sia bene vi congediate. Dovrete far visita al nostro amato Vescovo, al Cardinal Ghislieri, e prendere accordi con lui per la cerimonia nuziale. Io sarò disposta ad attenermi a tutto quello che il Cardinale vorrà predisporre. Andate, ora!»
La nave veneziana, per quanto stabile fosse, era più soggetta a movimenti di rollio e beccheggio avvicinandosi alla costa. Le manovre dovute all’attracco, inoltre, accentuavano detti movimenti, così come risvegliavano la nausea e il mal di testa di Andrea. Dalle voci dei marinai, capì che si stavano avvicinando alla Marina di Ravenna. Dalla piccola finestrella della cabina del comandante si intravedeva una fitta pineta a far da cornice alla costa. Tirandosi su dalla branda, sbatté la testa sul soffitto della cabina, che per quanto fosse una delle più alte, situata fra il secondo e il terzo ponte di poppa, era sempre più bassa rispetto alla sua altezza. Giusto mentre combatteva un conato di vomito, cercando di inghiottire la bile che risaliva dallo stomaco, entrò nella cabina il Capitano da mar.
«Ci fermeremo qui, alla Marina di Ravenna, per alcuni giorni, al fine di rifornire la nave di viveri e munizioni. Fino al Delta del Fiume Padano occorreranno altri due giorni, poi risaliremo il Po fino a Mantova. Da qui a Mantova, il viaggio sarà molto meno agevole rispetto a ciò che è stato finora. Soprattutto la navigazione fluviale creerà non pochi problemi. Potremo trovare delle secche, dei tratti di fiumi più stretti, insomma non sarà facile giungere fino a destinazione con una nave così grande. Accetta il mio consiglio, sbarca qui. Ti farò procurare dei cavalli e una scorta. Via terra, raggiungerai Ferrara, dove sarai ospite per qualche giorno del Duca d’Este, nostra amico e alleato. Da Ferrara a Mantova la strada non è lunga. Ti invierò un messaggero non appena la nostra nave sarà giunta nella città dei Gonzaga e ci riuniremo lì.»
Andrea fu sollevato dalla proposta. Non vedeva l’ora di sbarcare e poter balzare finalmente in sella a un cavallo.
CAPITOLO 6
La bellezza salverà il mondo
(Fedor Dostoevskij)
Infangato fino al collo, Andrea aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante il freddo pungente dell’inizio di un inverno che, a passi veloci, avrebbe aperto le porte all’anno 2019. L’amministrazione comunale era stata chiara. Entro la successiva primavera, Piazza Colocci doveva essere ripristinata e gli scavi archeologici, che avevano portato alla luce i resti dei piani bassi del vecchio palazzo del governo, sarebbero stati interrati. Il tutto era già stato fotografato, i reperti principali trasferiti al nuovo museo archeologico, al piano terra del Palazzo Pianetti-Tesei, e ormai era stato concesso fin troppo tempo a cittadini, turisti e curiosi per dare una sbirciata, del tutto gratuita, alla piazza scoperchiata. Ma Andrea non era soddisfatto, non si dava per vinto. Lì sotto, a un livello più basso, ci dovevano essere i resti dell’antico anfiteatro romano. Prova ne erano le antiche palle del “gioco della palletta”, antica disciplina risalente all’epoca dei Romani. Tale gioco, noto anche come Harpastum , o gioco della palla sferica, era parte integrante dell’allenamento dei gladiatori ed era giocato soprattutto dalle legioni a presidio dei confini. Secondo Andrea, le palle ritrovate circa venti anni prima in fondo al pozzo del cortile interno del Palazzo della Signoria non erano riferibili al gioco settecentesco della pallacorda, come era stato asserito sinora. Esse erano invece la testimonianza che in quella zona si svolgevano, tra il I secolo a.C. e il III secolo d.C., giochi in cui venivano coinvolti gladiatori e schiavi, alla stessa stregua di quelli ai quali si poteva assistere a Roma all’interno del Colosseo. Certo, non poteva calarsi in fondo al pozzo per sfondarne le pareti, ma secondo lui un passaggio dalle stanze dell’antico Palazzo del Governo ai livelli sottostanti ci doveva essere per forza. Tutto stava a trovarlo. Le costosissime rilevazioni radar che aveva fatto eseguire del tutto a sue spese gli davano ragione, ma ogni volta che pensava di essere vicino alla scoperta sensazionale del possibile passaggio c’era qualcosa che andava storto. Lì dei collettori di fogne che non potevano essere toccati se non rischiando di allagare tutto, là paratie metalliche a protezione e consolidamento delle fondamenta del Palazzo della Signoria. Qui resti di focolari, che non potevano essere toccati, se non scatenando le ire del delegato ai Beni Culturali e Artistici. E ora ci si era messa anche la neve. Dall’otto dicembre, una nevicata precoce ma abbondante gli aveva impedito di lavorare per alcuni giorni. Poi, quando la neve si era sciolta, aveva lasciato una tale quantità di fango, che quasi era impossibile reggersi in piedi dentro gli scavi senza scivolare in continuazione. Irritato, infreddolito, con i nervi a fior di pelle, sollevò il piccone. Avrebbe dato una picconata secca al muro di fondo, quello che separava il vecchio palazzo del Governo dalle fondamenta dell’attuale, terminato di costruire intorno all’anno 1.500, ma si fermò col braccio in aria. Qualcosa aveva richiamato l’attenzione del suo sguardo. Il fango, scolando verso il basso, aveva lasciato scoperto un particolare che non aveva mai notato prima. Un arco a volta limitato dagli antichi mattoni, quasi a pelo del suolo che stava calpestando e che rappresentava il pavimento del piano terra di quell’antico edificio, delimitava senza dubbio un’apertura, anche se occlusa da detriti e semi interrata.
Di certo i mattoni che delimitano quest’arco sono di fattezza più antica rispetto al resto, hanno un aspetto più irregolare, sono più scuri. Magari sono proprio di epoca romana…
Andrea si sfregò le mani soddisfatto, alitò su di esse per riscaldarle un po’ e si guardò intorno per cercare gli attrezzi giusti, abbandonando il piccone. Cercò di ripulire l’ipotetica apertura, per quanto possibile a mani nude, aiutandosi con una piccola pala zappa pieghevole per asportare i detriti, rifinendo poi il lavoro con un pennello per togliere polvere e terriccio. Poco alla volta, venne alla luce una porta in legno, abbastanza ben conservata, chiusa con un chiavistello. Non sarebbe stato difficile aprirla o sfondarla ma, non sapendo cosa avrebbe trovato al di là ed essendo ormai l’imbrunire, decise che per quel giorno si poteva ritenere soddisfatto e che poteva sospendere i lavori per riprenderli il giorno successivo.
Meglio tornare a casa e ricontrollare le rilevazioni radar. Non vorrei avere sorprese. E poi meglio farsi aiutare da qualcuno. La prudenza non è mai troppa in questi casi. Sia mai che aprendo quella porta possa provocare dei crolli. Al che tutto il lavoro di mesi e mesi andrebbe a farsi benedire.
Radunò gli attrezzi, mise la sacca da lavoro a tracolla, uscì dagli scavi e si diresse giù per Costa Baldassini, per raggiungere la sua dimora. Il calore accogliente della sua abitazione e l’odore di fumo delle sigarette consumate dalla sua compagna lo misero di buon umore. Gettò la sacca in terra presso l’ingresso, cercò per quanto possibile di liberare le scarpe dal fango e salì le scale di corsa. Trovò Lucia addormentata, con un braccio e la testa poggiati sul tavolo del soggiorno, il notebook acceso avanti a lei e la cicca di una sigaretta ancora fumante nel posacenere. Le carezzò i capelli con delicatezza, evocandone il risveglio.
«Mio Dio, Andrea! Sono crollata. Dovevo essere proprio stanca. Ho lavorato tutto il giorno per cercare di interpretare un nuovo documento, che ho ritrovato qui tra le scartoffie della tua biblioteca e che si riferisce al periodo in cui il tuo antenato Andrea Franciolini andò a combattere nei Paesi Bassi a sostegno del re di Francia contro l’imperatore Carlo V d’Asburgo. A parte il periodo politicamente ingarbugliato, per cui il papa parteggiava ora per la Francia, ora per l’impero, la cronologia delle date in questo documento appare strana. E poi c’è questa raffigurazione, che sembra un’immagine molto più antica rispetto ai tempi di cui stiamo discutendo. È un leone traverso, disteso, inciso su pietra, mi sembra. Non capisco che significato abbia: non è né il leone rampante simbolo di Jesi, né il leone di San Marco, simbolo della Repubblica Veneziana. Sembra più un’icona, un altorilievo su pietra, proveniente da qualche abitazione o da qualche costruzione di epoca romana, quasi somigliante a quelle piastrelle decorative che adornano la sagoma del portale di questo palazzo.»
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